In
questa agile raccolta di interventi che è stata pubblicata[1] da Wallerstein nel 1995 a
New York e poi tradotta da Jaca Book tre anni dopo, sono sostenute alcune tesi radicali
che, tuttavia, hanno una precisa collocazione storica. Si tratta in effetti di
un potente esercizio di astrazione e semplificazione, per il quale tutti i
movimenti politici dell’otto-novecento, sotto il profilo delle fondamenta
ideologiche, sono ricondotti a varianti di un’unica pervasiva tradizione: quella
liberale. A ben vedere è un riverbero, quasi trenta anni dopo, della
critica al mondo ‘adulto’ della rivolta giovanile del ’68, accusato ‘in blocco’
di essere riformista ed un unico ‘sistema’. Riflettendo sulle conseguenze dell’89
l’autore diagnostica il declino del liberalismo (ovvero di quella che chiama l’unica
ideologia politica della modernità), e con esso della complessiva idea di
sviluppo, progresso, modernità come destino e speranza. Il declino della speranza
induce a ripiegarsi nella protezione di gruppi identitari; infatti, se non ci
può essere collettivamente una via di sviluppo e progresso allora occorre salvarsi
da soli. Ma in questa fuga è presente sia il rischio di balcanizzazione della
politica, che precipita nella lotta di tutti verso tutti, sia la speranza di
una nuova politica plurale e decentrata, questa volta senza progetto definito,
capace di montare e rimontare indefinitamente i gruppi intorno ad un vago ideale
di eguaglianza delle diverse identità e rivendicazioni. Vaghezza rivendicata
nell’ultima frase del libro. Una prospettiva che ebbe un certo successo in
quegli anni e che oggi si presenta come fantasma in ogni tentativo di
riaggregazione (sempre condotto nella forma della federazione aleatoria) nella
sinistra radicale. Si potrebbe dire che in questo libro generoso, come in
altri, è una delle radici del fallimento, forse inevitabile, della sinistra
antisistemica. Ridotta ad un pulviscolo di microconflitti, allo stato che,
forse in modo ingeneroso, un interessante politico della Linke come Fabio de
Masi chiama ‘sinistra Mogadiscio’ (con evidente riferimento alla guerra civile
somala).
Il
testo di Wallerstein, a sei anni dall’evento-mondo della dissoluzione dell’Urss,
è comunque un tentativo di tracciare una riflessione conclusiva sul ciclo del
novecento, a sua volta entro i cicli più ampi nei quali si iscrive. Come noto l’autore
è animatore del Ferdinand Braudel Center of Study of Economise, Historical
System and Civilization, intorno al quale si riunisce negli anni ottanta e
novanta la “Scuola dei sistemi-mondo”. Provenendo da una famiglia
politicamente attiva, trasferita dalla Germania in Usa negli anni venti, Wallerstein
si laurea in Sociologia, dove consegue anche il dottorato, alla Columbia a New
York, tra i suoi docenti Merton, Bell, Galtung. Subisce l’influenza di Marx, Polanyi,
Braudel e del docente della Columbia Charles Wright Mills. Divenuto a sua volta
docente della Columbia nel 1958, sostiene nel 1968 le rivolte studentesche e
poi, dal 1971, si trasferisce in Canada. Fino agli anni settanta inoltrati si
interessa di Africa; dal 1976 presiede il Ferdinand Braudel, mentre
insegna ad intermittenza a Hong Kong, Amsterdam, Parigi, Yale.
Si
potrebbe dire che la “teoria dei Sistemi-Mondo”[2] è influenzata dalle tesi
dell’integrazione dell’economia nel sociale di Polanyi, della visione
dialettica tra struttura e sovrastruttura di Marx, e dall’approccio
storico-metodologico della “lunga durata” di Braudel. Esplicitamente riprende
tutti questi impulsi nella ripresa del modello dei “cicli di Kondratiev”[3], che amplia ed estende facendo
uso anche di stimoli schumpeteriani[4]. Dichiara influenze da
Franz Fanon, Braudel e Prigogine. Molto più dei suoi principali coautori Gunder
Frank, Samir Amin, Terence Hopkins, e Giovanni Arrighi, Wallerstein è
politicamente legato ai movimenti “antisistemici” contro la globalizzazione (i “no-global”[5]) degli anni novanta,
riprendendone, come vedremo, diversi stimoli e spunti utopici di ispirazione
antiautoritaria.
Scheletricamente
l’argomento presentato, in diverse forme e sequenze, nei saggi contenuti nel
libro è che il liberalismo è sempre stata una dottrina poliforma, con un centro
politico principale e due ali, una conservatrice ed una più impaziente e
progressista. Ciò che si intende normalmente come “liberalismo” è quindi la
linea che sostiene di difendere e garantire la libertà in opposizione ai reazionari
da una parte (che vogliono conservare il più possibile gli assetti dati dal
rischio della modernizzazione) e alle sinistre dall’altra (che la vogliono
accelerare bruscamente). Tuttavia tutte tre le forme politiche sono liberali,
almeno nel senso che postulano la modernizzazione inevitabile e che si possa
conseguire con sviluppo e benessere di tutti. Differiscono solo sui tempi: la
componente di destra vuole procedere con il freno tirato, quella di centro
razionalmente e in modo progressivo e prudente, quella di sinistra bruscamente.
Ma,
a partire dal 1968, e dalla sua corrosiva critica delle diverse forme del
liberalismo (tutte e tre), e poi nel 1989 questa speranza è venuta meno. Emerge
la consapevolezza che lo sviluppo non può essere conseguito per tutti, e con
essa termina il progetto politico-ideologico del liberalismo. Questo esaurimento
della spinta ideale, rivelatasi come illusione, apre, sostiene Wallerstein, una
fase di transizione che impegnerà i prossimi venticinque-cinquanta anni
(ovvero dal 1995 al 2020/2045) che saranno periodo di disintegrazione e
disordine sistemico.
È
abbastanza singolare questo modo di porre la questione, perché in parte poggia
su un costrutto teorico che ha basi in una modellistica di tipo economico (di
Schumpeter/Kondratiev) e in una visione dello scorrimento del tempo storico
(come “dialettica delle durate”[6], Braudel), in parte risente
di quello che Boltanski e Chiappello chiamarono, quasi contemporaneamente, “Il
nuovo spirito del capitalismo”[7]. La nuova configurazione
ideologica che emerge in alcuni luoghi cruciali, come il discorso manageriale,
negli anni novanta ma in continuità con i sessanta si fonda su una
decostruzione del mondo del lavoro (che a sua volta passa per la
desindacalizzazione e la messa in discussione radicale della pertinenza della
distinzione tra classi sociali come clivage fondamentale) e del mutamento del ruolo
dello Stato[8].
Quella che gli autori chiamano “critica artistica”[9] è, in effetti, esattamente
la posizione presa da Wallerstein, con tutte le conseguenze date (incluso la
svalutazione del materialismo e, per esso, della lotta per il controllo dello
Stato). In altre parole, nell’impianto del libro si sente una certa aria del
tempo che potrebbe far ritenere che la fine del “liberalismo” sia in effetti l’altro
nome dell’insorgere del “neoliberalismo”. Infatti, se la liberazione è sempre
stata incorporata nel capitalismo liberale (dalle forme di vita tradizionali
verso quelle ‘moderne’) nella formulazione che successivamente è stata chiamata
‘neoliberale’, divenuta dominante, sono state integrate le critiche che nel ’68
denunciavano l’oppressione capitalistica, ovvero le mancate realizzazioni delle
promesse di liberazione. Del resto, il neoliberismo come riletto da Dardot e Laval è un pensiero dell’adattamento, sottilmente invertebrato, capace di pervadere
ogni cosa e soprattutto produttore di nuove soggettività.
In
ogni caso, dopo la profezia circa la fase di disgregazione e disordine sistemico,
di cui possiamo oggi misurare la sostanza, l’argomentazione dello storico
americano si rivolge ai movimenti “antisistemici” che inquadra come
unica speranza di radicale democratizzazione di sistema. Ma in un senso
peculiare, a ben vedere: infatti la disgregazione comporta la fine dell’affidamento
nello Stato, e anche nella “società civile” (che ne è prodotto necessario[10]),
e apre all’epoca dei ‘gruppi difensivi’. Dunque tutta la dinamica di divisione
in bande iper-rissose, la deviazione della ‘politica dell’identità’ in
frammentazione, la marginalità e l’abbandono della sfera politica, che lamenta
in tutto l’occidente la sinistra antisistemica (ma anche quella moderatamente
non sistemica) è contenuta in questa diagnosi. Solo che Wallerstein, scrivendo
prima del crollo e dissoluzione del movimento “no-global”, crede possa essere
diverso l’esito. La immagina come speranza e non come problema. Nell’argomentazione
di Wallerstein, del resto, i “gruppi difensivi” sono il necessario esito
della fine della speranza nel liberalismo. Con esso nello Stato e nelle
politiche dello sviluppo (nelle due varianti wilsoniane e leniniane[11]), nelle quali aveva pur
creduto negli anni sessanta e settanta.
Ma
vediamo lo svolgimento storico del suo argomento.
In
un’ampia ricostruzione condotta a volo d’aquila riconduce l’intera parabola del
confronto tra il sistema capitalista del dopoguerra e il sistema socialista,
terminato appunto da pochi anni, ad una sorta di semi-finzione. Seguendo una
tesi tipica della rivolta del 1968, per Wallerstein in effetti l’Urss era l’altro
polo di un sistema unico esteso a livello mondiale nel quale svolgeva un
necessario ruolo di stabilizzazione sub-imperialista. La divisione del lavoro
sarebbe stata che gli Usa garantivano l’ordine nel campo dei “paesi liberi”,
mentre l’Urss teneva sotto controllo i suoi. Dato che non c’era una vera sfida
all’egemonia americana questo modello garantiva nel suo insieme il controllo
del mondo. Si tratta chiaramente di una tesi ultrasemplificata ma molto in voga
in quegli anni nella “nuova sinistra”. In qualche modo in essa un funzionamento
di fatto è interpretato come se fosse un piano (ad esempio, l’Urss controlla e
frena l’espansionismo cubano e discute anche aspramente con la Cina, che
vorrebbe spingere verso l’accensione di ‘mille fuochi’ per esaurire la forza
statunitense). Seguendo questa idea le nozioni di progresso e di sviluppo
di Woodrow Wilson e di Lenin vengono polemicamente viste come diverse
incarnazioni della medesima idea di fondo: quella che il mondo possa complessivamente
svilupparsi. Ovvero come l’incarnazione dell’ideologia dello sviluppo
imperniato sulle nazioni ed esteso a tutti. Lo stesso marxismo novecentesco diventa,
in questa prospettiva, solo una variante del wilsonismo. Entrambi avevano in comune
sei cose: l’autodeterminazione delle nazioni; la prospettiva e promessa di
sviluppo economico per tutti gli Stati (ovvero contemporanea
urbanizzazione, commercializzazione, proletarizzazione e industrializzazione);
l’esistenza e l’affermazione di valori universali validi per tutti; l’affidamento
nella scienza; l’idea che uno Stato forte ed il progresso dell’umanità fossero
connesse; la promessa della sovranità del popolo. Ma ci sono dei problemi:
intanto la sovranità politica degli Stati indipendenti “è in gran parte un’invenzione,
anche in quei paesi assai forti militarmente”, e, in secondo luogo, “il
concetto di autonomia economica è totalmente mistificante”[12]. Molto semplicemente, “se
qualcuno si sviluppa qualcuno declina”.
Nella
ricostruzione del nostro, sul piano dello sviluppo storico questo doppio
modello per un poco sembra funzionare, ma poi i movimenti di decolonizzazione
in un ventennio glorioso tra il 1950 ed il 1970, “forzano il passo” (anche
verso l’Urss) e mettono sotto pressione la catena delle merci dell’economia-mondo
capitalista e le distribuzioni sia spaziali sia di classe del plusvalore.
Vincono infatti alcuni paesi non previsti e non desiderati: Cina, Vietnam,
Algeria, Cuba. E intorno a questi prende forma lo “spirito di Bandung”[13]. Segue, in Occidente e
ovunque nel mondo, la rivoluzione culturale della “nuova sinistra” del
1968.
Wallerstein,
riprendendo e contemporaneamente confutando la ‘teoria della dipendenza’
di cui era stato uno degli attori negli anni sessanta, sostiene in proposito
una tesi semplice e netta: “l’economia-mondo capitalista è un sistema che
comporta una disuguaglianza gerarchica della distribuzione che si basa sulla
concentrazione di certi tipi di produzione (relativamente monopolizzata e, di
conseguenza, altamente redditizia) in alcune zone ristrette che diventano così
i luoghi di maggiore accumulazione di capitale”[14]. Solo questa
concentrazione, a sua volta, consente il rafforzamento delle strutture dello
Stato ed un certo grado di redistribuzione. Questa genera la “società civile”,
con le “classi medie” e la stabilità politica. Ma lo Stato è anche la
precondizione, con le sue prestazioni difensive, della conservazione e rafforzamento
dei monopoli. Questi, a loro volta, per stretta definizione impediscono che
altri poli entrino in competizione. O, per dirla diversamente, “né lo Stato né il
mercato promuoveranno mai lo ‘sviluppo’ egualitario in seno a un’economia-mondo
capitalista, il cui principio-guida di un’incessante accumulazione di capitale
chiede e genera una sempre maggiore polarizzazione del reddito reale”. Dunque,
non è possibile che tutti si sviluppino. Lo sviluppo di uno comporta il
sottosviluppo di altri (tesi centrale di Andrè Gunder Frank, con il quale,
peraltro, di lì a poco andrà allo scontro[15]). Non è possibile
eliminare il divario tra Nord e Sud su scala mondiale, né è possibile un
nazionalismo mondiale[16]. La periferia non può
essere integrata tramite lo sviluppo nazionale e appropriate politiche dedicate
(siano esse affidate al mercato ed agli investimenti internazionali o al
protezionismo ed alla disconnessione).
Come
si procede, allora? Per via di cicli di accumulazione
(formazione di monopoli e di redditività del capitale entro sistemi egemonici) seguiti
da fasi di disgregazione (dei monopoli e della loro sostituzione). Cicli nei
quali, riprendendo la modellizzazione di Kondratiev, delle strutture di
valorizzazione prima si formano e poi si distruggono in favore di altre (tesi
che riecheggia quella della ‘distruzione creatrice’ di Schumpeter[17]). Tra l’uno ciclo di
accumulazione e l’altro è presente un interludio ed una ‘guerra dei trent’anni’[18].
Dunque,
tornando al tema, se il crollo del comunismo in effetti rappresenta solo il
crollo finale dell’ideologia dello sviluppo nazionale (o meglio, della sua
illusione), anche sotto la spinta della crisi ciclica di transizione (“fase B
di Kondratiev”), abbiamo ora una fase nella quale si cercano soluzioni “individuali”
avendo perso fiducia in quelle collettive. Queste possono essere basate sul
mercato (es. sulle migrazioni), che porteranno ad una pressione sui sistemi
economici occidentali tale da tendere a riportare alle condizioni dell’inizio
del XIX secolo[19],
o sulla lotta tra gruppi. O quello che, in altro luogo chiama il “nazionalismo
culturale delle ‘minoranze’”[20].
A
livello della dialettica centro-periferia tra potenze nazionali sono
espressione di questo crollo dei sistemi di ordine bipartiti sia l’avventura di
Saddam Hussein (che sfrutta il venir meno del controllo sovietico per tentare
una soluzione individuale al problema della crisi sistemica mondiale, che
iniziava a mordere l’economia irachena, mettendo a rischio la sua stabilità
politica, saccheggiando le risorse kuwaitiane) sia quella di Khomeini (che
sviluppa una ideologia radicalmente anti-liberale e tenta una effettiva disconnessione).
Ma anche il tentativo, fallito, di Gorbaciov di ricollocare l’Urss come partner
riconosciuto, se pure subalterno, dell’Occidente e quindi cogarante della sicurezza.
Certo
nel testo sono anche formulate delle previsioni geopolitiche che non si sono
affatto realizzate, e che seguivano un eccesso di economicismo e schematismo
che è tipico difetto dell’autore. La crisi sistemica avrebbe avuto termine
quando si sarebbero formate al fine due nuovi poli, dotati di due semiperiferie
dipendenti dalle quali attrarre forza lavoro a basso prezzo quando necessario
(per regolare la lotta di classe interna, ovviamente) e destinare i surplus di
investimento (allo scopo di non mettere a rischio il dominio monopolistico o
non generare sovrainvestimento e conseguente sovrapproduzione e svalutazione). Sulla
base di questo schema di chiara derivazione marxista (tramite un filtro
schumpeteriano) proprio della ‘teoria della dipendenza’, Wallerstein
sostiene che il più probabile esito è l’associazione di Usa e Giappone (con il
secondo come egemone economico) e di Europa e Russia (con la prima) come
sfidanti. La Cina sarebbe la semiperiferia del primo polo e la Russia e paesi
dell’Est del secondo. Questa tesi, con la sopravvalutazione del Giappone (che
il doppio colpo del Plaza[21] ricondurrà all’ordine),
era tipica di quegli anni. Ciò che è, invece accaduto, è che la Cina si è
sollevata dallo stato di semiperiferia, emancipandosi a quello di Grande
Potenza, e l’Europa non ci è riuscita.
Dunque
se si intravedono due poli oggi sono casomai gli Usa, con le semiperiferie
Giappone ed Europa (dove, però, la funzione di esercito industriale di riserva
lo svolge casomai il Sud America) e, dall’altra, parte la Cina con la Russia
semiperiferica (in particolare a seguito della guerra ucraina).
Anche
se si riformasse, tuttavia, una bipolarità e quindi un ordine mondiale, non
avremmo per il nostro la replica della fase fortunata del dopoguerra, e per
diversi motivi: questa volta la bipolarità sarebbe effettiva (mentre prima era
apparente, come abbiamo visto); in secondo luogo non ci sono più sufficienti risorse
da redistribuire al sud (tesi dell’esaurimento dell’illusione dello sviluppo
per tutti); quindi ci saranno fenomeni di migrazione massiccia che impediranno il
consolidarsi di un relativo potere dei lavoratori e quindi comprimeranno
sistematicamente la dinamica salariale; ci sarà un costante erodersi delle
classi medie (che “potrebbero ribellarsi”); ormai sono presenti ineludibili
vincoli ambientali; restano poche aree di espansione vergini (echeggio della
tesi di Rosa Luxemburg, un’altra delle radici teoriche); manca l’ingenuo
entusiasmo della decolonizzazione; infine il liberalismo è declinato. Dunque,
“man mano che, negli anni a venire, le tensioni Nord-Sud assumeranno connotati
sempre più drammatici (e violenti), ci accorgeremo che il mondo sentirà la
mancanza della coesione ideologica dell’antinomia degli ideali wilsoniani-leninisti
che ha rappresentato una gloriosa, ma storicamente fugace, panopilia di idee,
speranze ed energie umane. Non sarà facile sostituirla. E, tuttavia, sarà solo
trovando una nuova e molto più salda visione utopica che potremo
superare l’imminente periodo di difficoltà”[22].
Se
il liberalismo è infatti declinato viene meno anche il suo effetto calmante (con
le due teste del wilsonismo/rooseveltismo e del leninismo). Quindi senza
speranza le “classi pericolose” possono tornare. Questa tesi nella
Seconda Parte del libro è più profondamente ancorata alla nascita stessa delle
ideologie politiche del XIX secolo, ovvero il Conservatorismo, il
Liberalismo storico e il Socialismo. Si tratta di progetti politici che
nascono, in tempi diversi, all’ombra della rivoluzione. Ovvero intorno a due
idee nuove ed esplosive: che il cambiamento politico è un evento normale e
non eccezionale, che la sovranità richiede il “popolo”. Di fronte allo
sconvolgente rimescolamento culturale determinato dalle rivoluzioni di fine
settecento, ed all’irrompere della modernità come destino, prima sorgono i
Conservatori, che cercano di circoscrivere il pericolo della destabilizzazione
degli stili di vita consolidati, poi i liberali, che al contrario puntano a
liberarsi dai residui irrazionali del passato ma in maniera progressiva, e,
infine, i socialisti che vogliono accelerare la transizione. Una differenza
nasce nel soggetto della proposta ideologica, per tutti è il ‘popolo’, ma per i
primi è una somma di individui liberi ed indipendenti (cosa che significa,
ovviamente, abbienti e bianchi, inoltre maschi), per i conservatori sono i
gruppi tradizionali (di volta in volta diversamente identificati), per i
socialisti sono i lavoratori. Dal 1830 si delinea una distinzione tra liberali
e socialisti (prima è molto sfumata) che dopo il 1848 diviene profonda, mentre,
contemporaneamente liberali e conservatori si avvicinano per difendersi dalla
nuova minaccia. Questa storia è molto nota, ma è letta come variazione sul
medesimo tema dell’irruzione della modernizzazione e della convinzione liberale
della inevitabilità dello sviluppo e della modernizzazione. In sostanza perché
da questa altezza “il liberalismo, di fatto, è stato un’espressione di tutti i
campi dell’attività umana”[23]. Oggi, dice, è cessato
come ideologia, ovvero come “programma politico completo, a lungo termine,
capace di mobilitare un gran numero di persone”.
Connettendosi
con la rivolta del popolo di Seattle (che è nella sua sostanza una
rivolta della piccola e media borghesia tradita dal venire meno della speranza
dello sviluppo), Wallerstein qui sta scrivendo che il crollo della speranza
nelle politiche dello sviluppo a guida statale (ovvero delle diverse forme
della ‘teoria dello sviluppo’[24]) apre tuttavia, almeno
come utopia necessaria e aggregante, la possibilità di una radicale
democratizzazione. Si tratta, per espressa ammissione, dell’unica strada
possibile per rimobilitare individualità disperse. Ovvero della versione
progressista del destino inevitabile nella fase di disgregazione e paura che si
avvia: rivolgersi per protezione ai “gruppi”. Precisamente a gruppi “etnici,
religiosi o linguistici, oppure gruppi di preferenza sessuale o di sesso o,
ancora, minoranze di qualsiasi tipo”.
Quella
che altri[25],
cantori della svolta neoliberale, contemporaneamente chiameranno “politica
dell’identità” è anche per Wallerstein l’unica prospettiva quando la
fiducia è venuta meno. Infatti, “di chi fidarsi se non c’è più speranza per
il futuro?”. Come articolare un’azione politica nel segno di una critica
antisistemica radicale al materialismo, all’individualismo, all’etnocentrismo
ed all’impulso di Prometeo[26]? Ovvero quando, è morto
il marxismo come teoria dello sbocco della modernità con la sua strategia di “conquistare
il potere dello Stato e fare la rivoluzione”, sostanzialmente cristologica. O,
in altre parole, quando è cessata la modernità in senso politico, cioè quella sensazione
che “il nuovo è qualcosa di positivo e desiderabile, dato che viviamo in un
mondo di progresso ad ogni livello della nostra esistenza”. Ma anche quando l’alternativa
indicata nel ’68 “si è rivelata priva di significato” e la svolta mercatista
del ’89 la segue da presso.
Chiaramente
in questa prospettiva di frammentazione in gruppi, necessariamente (anche qui
per definizione, dato che un gruppo si forma su un confine) in lotta reciproca,
il rischio è enorme. Con le sue parole “proteggere il nostro gruppo a scapito
di qualche altro è distruttivo”[27]. Esiste in sostanza una
doppia alternativa a questa politica di richiusura difensiva al tramonto della
speranza della modernità: o gruppi rifugio dai confini armati, razzisti e
neo-darwinisti; oppure gruppi con barriere permeabili e pluralisti. Chiaramente
la seconda è in parte un’utopia, in quanto un certo grado di barriera difensiva
è costitutiva di ogni gruppo difensivo, “i gruppi tendono a creare gerarchia
all’interno” e “senza qualche frontiera di difesa non possono ovviamente
esistere”[28].
In
altre parole, la sfida del Wallerstein degli anni in cui dialogava con il
movimento “no-global” è di “creare una nuova ideologia di sinistra in un’epoca
di disintegrazione del sistema storico in cui viviamo”. E paradossalmente tenta
di pensarlo proprio accettando l’esito della fase e passando attraverso quelle “esclusioni
resesi necessarie nella costruzione di gruppi autocoscienti”, che si separano
da una società non più supportata da uno Stato credibile ed autorevole. In sostanza
si tratterebbe di rifugiarsi in gruppi identitari, dotati di confini, ma capaci
di riconoscere le proprie interconnessioni.
Riproducendo
un’agenda molto nota, e caratteristica da allora della sinistra radicale, è necessario
per riuscirvi:
1- Rompere
definitivamente con la strategia che propone di realizzare la trasformazione
sociale attraverso l’acquisizione del potere dello Stato (questa è al più una
tattica possibile, ma solo difensiva);
2- Valorizzare
il radicamento comunitario dei vari gruppi sociali difensivi che, di volta in
volta, possano in modo fluido e non unificato raggrupparsi (e ri-raggrupparsi) a
livelli superiori[29];
3- Organizzare
lotte senza priorità strategiche, partendo dalla convinzione che “un insieme di
diritti di un gruppo non è più importante di un altro insieme di diritti per un
altro gruppo”. Ovvero che il dibattito sulle priorità, es. sulla centralità
della lotta di classe rispetto alla lotta di genere, quella sulla razza, l’ambiente,
“è debilitante e fuorviante e ci riporta sulla falsa strada dei gruppi
unificati e alla fine fusi in un singolo movimento unificato. La battaglia per
la trasformazione può essere combattuta solo su tutti i fronti
contemporaneamente”[30].
La
strategia sarebbe quindi una riedizione in termini di lotta culturale dello
slogan dei “mille fuochi o mille Vietnam” degli anni sessanta: sovraccaricare
il sistema, prendendo le sue rivendicazioni e le sue aspirazioni più seriamente
di quanto desiderino le forze dominanti. Si tratta di una prospettiva
rischiosissima di adattamento allo spirito del tempo che flirta con il “nuovo
spirito del capitalismo” e la svolta “neoliberale” che, esattamente in quegli
anni, prende accelerazione. Senza avvedersene si rischia di farsi abitare da
quel pensiero dell’adattamento, della fine della storia, sottilmente
invertebrato (come dicono Dardot e Laval), che è capace di pervadere ogni
cosa ed emergere in ogni mobilitazione ‘libertaria’ (essendo il libertarismo
una delle sue più evidenti immagini di marca) creando e sfruttando le
soggettività. L’uomo neoliberale si pensa auto-governato e integralmente
autonomo, e senza avvedersene è governato dalla sua propria rivendicazione di
libertà. L’ethos neoliberale è
orientato alla impresa di sé, alla autorealizzazione, ed è, in effetti,
qualcosa di molto vicino ad essere l’etica del nostro tempo (in particolare per
alcuni ceti e strati sociali). Questo ‘managemant dell’anima’ che si ancora in
una sorta di ascetica, relazionata ad un vero e proprio ordine cosmologico.
Ad esempio, per Beck il capitalismo avanzato demolisce interamente la
dimensione collettiva dell’esistenza, distruggendo le strutture tradizionali
che lo hanno preceduto, ma anche quelle strutture che aveva creato al loro
posto: le classi sociali. Dunque “si assiste ad una
individualizzazione radicale per cui tutte le forme di crisi sociale sono
percepite come crisi individuali, e tutte le disuguaglianze sono messe in
relazione con la responsabilità individuale”[31]. Chiaramente, come dice
spesso anche Bauman, in questo modo tutti i problemi sistemici sono
neutralizzati come problemi politici e ricondotti a fallimenti individuali. Ne
deriva un decisivo indebolimento dei quadri istituzionali e delle strutture
simboliche in cui i soggetti trovavano posizione ed identità, quindi alcune
specifiche e caratteristiche patologie: erosione della personalità,
demoralizzazione, depressione generalizzata, desimbolizzazione.
Anche
volendo correre il rischio di flirtare con lo spirito neoliberale, l’“utopistica”
delle forze antisistema che si vuole stimolare sarà sufficiente? La risposta
che lo stesso Wallerstein fornisce è no. Ma nelle condizioni di generale
rotta nella quale scrive (siamo alla metà degli anni novanta, dentro una società
apparentemente pacificata e felice, dove nessuno pensa più che esista una
significativa sfida e pochi centri sociali sono facilmente tollerati) le
battaglie non si possono più combattere a livello di Stato. Ovvero
nessuno può più contendere il potere politico in elezioni o in mobilitazioni di
massa, perché i rapporti di forza non lo consentono.
Quindi
le battaglie “si consumeranno a più livelli locali, tra quei gruppi nei quali
ci stiamo riorganizzando” (piccola frase altamente indicativa dello spirito
disperato del tentativo). Per questo, per l’estrema debolezza e il totale
discredito di organizzazioni complesse (accusate di essere social-liberali), si
immagina di ripiegare in una “strategia di alleanze flessibile e complessa”.
Si potrebbe dire che la mossa che propone qui Wallerstein, certo nella temperie
di quegli anni, è di attraversare il neoliberalismo e uscire in un certo
senso dall’altra parte. Non cercare di tornare al compromesso
socialdemocratico, in qualunque quadro, senza neppure evocare il meccanismo del
‘presupposto-posto’ (per usare un termine di Finelli) marxiano, per cui
il soggetto alternativo è già qui, presupposto nella situazione, e va posto a
partire da essa. Ma neppure la mossa simile di Negri e Hardt che postulano una
“autonomia ontologica della moltitudine”, generata dalla dinamica del
‘capitalismo cognitivo’[32].
Come capiterà
pochi anni dopo a Dardot e Laval, chiuso nel labirinto della sua sconfitta,
strettamente scaturente dalla corrosione della sua analisi che resta dentro i
presupposti del tempo venendone colonizzato senza avvedersene pienamente,
questo pensiero, in uno con una vasta compagnia, esce con la mossa del
cavallo di postulare la necessità-possibilità di costruire un nuovo
soggetto che combini la soggettivazione individuale o di gruppo (in effetti
neoliberale) con la resistenza al potere. Creando quella che Foucault chiamava
una “contro-condotta”[33], come rifiuto di farsi condurre e
definizione di se stessi, ovvero rifiuto di comportarsi verso sé come
un’impresa e rifiuto della norma della concorrenza verso gli altri. Quindi
avviare rapporti di cooperazione, inventando collettivamente nuove forme di
esistenza, producendo e moltiplicando contro-condotte.
Era,
a ben vedere, un pensiero della sconfitta. Non ha funzionato.
[1] - Immanuel Wallerstein, “Dopo il liberalismo”, Jaca Book, 1998
(ed. or. 1995).
[2] - In sintesi la scuola si forma al principio degli
anni ottanta e resta in preparazione e incubazione durante gli stessi;
Wallerstein inizia a sistematizzarla in Il sistema mondiale dell’economia
moderna dal 1974 (tre volumi, 1974, 1980, 1989) poi si consolida durante
gli anni novanta. Uno dei primi libri che presentano una lettura su larga scala
del capitalismo moderno nella chiave che poi sarà dei “sistemi-mondo” è quello
del 1971 di Samir Amin, L’accumulazione su scala mondiale, insieme a
questo, del 1972, il libro che introduce il concetto di “scambio ineguale”: E. Arghiri,
Lo scambio ineguale. Nel 1978 Andre Gunder Frank pubblica una sintesi
finale della sua “prima” posizione in World Accumulation
1492-1789. Nel 1982 esce un saggio che contiene la
riflessione metodologica di Terence Hopkins, World-Systems Analysis: Theory and Methodology.
Nel 1997 va segnalato anche di Chris Chase-Dunn, Rise and Demise: Comparing World System.
[3] - Nikolaj D. Kondratiev fu un
economista sovietico fondatore dell’Istituto di Congiuntura. Sostenitore
della NEP, come moltissimi altri sul finire degli anni trenta cadde in
disgrazia, venne processato, condannato e infine fucilato da Stalin durante la
Grande Purga del 1938. La sua tesi, infatti, non si inquadrava bene in una
teoria ‘crollista’ del capitalismo e gli fu imputato anche la giovanile
adesione ai menscevichi. In un libro uscito nel 1925 (“I maggiori cicli
economici”), descrisse i cicli capitalisti di lunga durata servendosi di
serie storiche di dati economici. In suo onore, Joseph Schumpeter li battezzò “onde
di Kondratiev”. Questi “super-cicli” hanno una durata approssimativa di
50-60 anni. Il che significa che le “grandi depressioni” sono strutturali
nell’economia capitalistica, sono costitutive del sistema mercantile
internazionale, e si registrano più o meno regolarmente ogni 50-60 anni. Ma
significa anche che passano. Inoltre, all’interno di ciascun superciclo si
possono distinguere diverse “stagioni”: una primavera in cui si affermano nuovi
fattori produttivi e l’inflazione aumenta; un’estate in cui l’economia gira al
massimo, anche se si manifestano i primi dubbi e l’inflazione raggiunge le due
cifre; un autunno, in cui i rimedi finanziari all’inflazione portano al boom
creditizio e quindi favoriscono le “bolle speculative”; un inverno, in cui le
massicce insolvenze dei debitori, la deflazione nel mercato delle commodities (le
merci fondamentali degli scambi internazionali) e la depressione economica
causano l’eccesso di capacità produttiva. Punti culminari dell’inflazione nei
cicli k individuati sono il 1814, 1864, 1920, 1980, mentre in relazione alla
tecnologia dominante il 1800, tecnologia del vapore e cotone, 1850, ferrovie ed
acciaio, 1900 motori elettrici e chimica, 1950, petrolio e automobili,
1990-2000, information thecnology. La relazione delle teorie cicliche, guidate
dalla tecnologia e dalla relativa sostituzione, di Kondratiev con l’impostazione
di Schumpeter è abbastanza evidente.
[4] - Joseph Schumpeter è stato un
importante economista austriaco, già ministro del governo socialista negli anni
venti, nato nel 1883 e morto nel 1950. Dagli anni trenta insegnò ad Harvard,
riconnettendosi con l’economia marginalista (fu ex allievo di von Wieser) e
diventando un antesignano della svolta econometrica in economia fu in
particolare noto come teorico del ciclo economico ed enfatizzò il ruolo chiave
dell’imprenditore nello sviluppo capitalistico, in particolare nella
mobilitazione del credito. La sua ‘teoria delle innovazioni’ che postula un
movimento ondulatorio. Nelle sue opere di carattere generale sostiene la
necessità di una progressiva evoluzione del capitalismo verso il socialismo,
rigettando però la via rivoluzionaria.
[5] - Il movimento “no global” è una
formula sintetica, insorta verso la fine degli anni novanta, sincronicamente
con la pubblicazione in italiano del libro, che indica un vasto ed eterogeneo,
ideologicamente confuso e socialmente eterogeneo, movimento (in realtà più
movimenti non coerenti) di contestazione dell’insorgente processo di
globalizzazione soprattutto sotto il profilo delle divergenze tra Nord e Sud
del mondo. Focus polemici sono stati il potere del FMI (e la gestione delle ‘crisi
asiatiche’, sulle quali Joseph Stiglitz scrive nel 2002, “La
globalizzazione ed i suoi oppositori”) ed il WTO. Nel 1999 disordini
esplosi a Seattle in occasione dell’assemblea del WTO resero nota la rete. Nel
2001 il movimento creò il Forum sociale di Porto Alegre, e fu prodotta
la mobilitazione di Genova in occasione del G-8. Al movimento partecipano
organizzazioni e gruppi altamente eterogenei, anarchici, ex autonomi, generici
anticapitalisti, cooperatori, frange di movimenti religiosi, ambientalisti. Il
movimento, esattamente come propone qui Wallerstein, era in realtà formato da
gruppi con tradizioni e metodi di protesta radicalmente diversi, tanto che il
singolare è abbastanza fuori luogo. Dopo Genova si disgregò più rapidamente di
quanto si fosse aggregato. A seguito della crisi del 2008 riemersero movimenti
che hanno qualche caratteristica comune, come l’elevata eterogeneità e la
contingente durata, come Occupy Wallstreet, che vede attivo l’antropologo
anarchico David Graeber, e gli Indignados spagnoli, ancora più di
recente i Gilet Jaunes francesi.
[6] - Si veda, ad esempio, Ferdinand
Braudel, “Civiltà ed imperi del mediterraneo nell’età di Filippo II”,
Einaudi 1976; Ferdinand Braudel, “La
dinamica del capitalismo”, Il Mulino, 1977; Ferdinand Braudel, “Civiltà
materiale, economia, capitalismo”, Einaudi, 1982; Ferdinand Braudel, “Una
lezione di storia”, Einaudi, 1986.
[7] - Luc Boltanski, Eve Chiappello, “Il
nuovo spirito del capitalismo”, Mimesis, 2014, ed or. 1999.
[8] - Come illustrano molto bene
Pierre Dardot e Christian Laval in “La
nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista”, Derive
e Approdi 2013 (ed. or. 2009),
[9] - Che è all’origine il modello di
critica della forma di vita dell’artista, autentico, libero, anticonformista,
che emerge come modello nel ’68 e viene incorporato ed esteso nella nuova forma
di capitalismo che inizia ad affermarsi nello spirito antiburocratico del
capitalismo (deregolativo) degli anni ottanta e novanta.
[10] - Nel senso che può esistere una “società
civile”, che genera una sfera pubblica democratica ed una dinamica politica
ordinata e unitaria, solo se esiste uno Stato forte e credibile.
[11] - Sulla “variante leniniana” si
veda Alessandro Visalli, “Dipendenza”, Meltemi 2020, cap. 2.
[12] - Immanuel Wallerstein, cit., p.
172
[13] - La Conferenza di Bandung è il
punto intermedio di un lungo processo che parte con il Congresso dei popoli
dell’oriente a Baku, nel 1920, del quale parleremo in seguito, e il successivo
Congresso dei popoli oppressi di Bruxelles nel 1927, oltre che la Asian
Relations Conference convocata da Nehru nel 1947 nella quale fu deciso di
dotarsi di una organizzazione permanente. Nell’aprile del 1954 i capi di
governo di Ceylon, India, Pakistan, Birmania, Indonesia si riunirono a Colombo
(Ceylon) per organizzare una grande conferenza afroasiatica. Conferenza che fu
convocata appunto a Bandung, invitando venticinque Stati con l’esclusione dei
movimenti di liberazione, con qualche anomalia (come i due Vietnam e
l’esclusione delle due Coree, oltre il mancato invito ai paesi latino-americani
e soprattutto dell’Unione Sovietica). Parteciparono paesi socialisti, come la
Cina, e filoccidentali, come il Giappone, o neutralisti. Con qualche
compromesso, mediato da Chou En-Lai da una parte e da Nehru dall’altra si
arrivò a una dichiarazione di condanna del solo colonialismo “tradizionale”
(mentre alcuni paesi volevano condannare anche quello sovietico). Bandung è
l’anello di congiunzione tra la sconfitta di Dien Bien Phu e l’evento di Suez.
Tutti e tre insieme fecero precipitare il colonialismo europeo.
[14] - Immanuel Wallerstein, cit., p.36
[15] - Si veda Alessandro Visalli, “Dipendenza”,
cap. 7
[16] - Immanuel Wallerstein, cit., p.
108
[17] - Di cui, peraltro, uno degli
economisti più influenti della scuola della dipendenza e della sinistra americana,
Paul Sweezy, era allievo e assistente.
[18] - La quale in queste settimane è
entrata, peraltro, nella fase ‘calda’.
[19] - Una tesi, questa, poco
sviluppata, che appare davvero impressionante nella sua capacità anticipatrice.
Cfr. p.32.
[20] - Immanuel Wallerstein, cit., p.
122
[21] - Il “Plaza Accord” del 1985 è una Conferenza nella
quale gli Usa imposero una soluzione al problema della crescente concorrenza
dell’industria giapponese che stava seriamente preoccupando le élite americane.
L’Accordo svalutò il dollaro verso lo yen, ponendo bruscamente fine alla
crescita giapponese. Quindi dieci anni dopo una nuova manovra, il “Reverse
Plaza Accord” del 1995, al contrario, lo rivalutò. Questo secondo accordo
intervenne a salvare il settore manifatturiero giapponese, ma anche a spingere
verso l’alto il valore del dollaro e rendendo di conseguenza la borsa
americana, in un contesto nel quale il settore manifatturiero americano era in
ripresa e quindi i valori azionari erano buoni, estremamente attraente per gli
investitori stranieri. Quel che seguì è, come sottolinea Brenner nel 2002, una “messa in libertà di un torrente di liquidità
proveniente dal Giappone e dall’Oriente asiatico e in generale dall’estero che
si riversò sui mercati finanziari americani, provocando una brusca riduzione
dei tassi di interesse che spianò la via a una forte crescita
dell’indebitamento della grandi società che prendevano a prestito per comprare
azioni di borsa” (R. Brenner,
The Economics of Global Turbolence. The
Advanced Capitalist Economics from Long Book to Long Downturn, 2002). Peraltro, a dimostrazione del carattere di forte
progettualità geopolitica (il contesto primario è sempre il dominio del
capitale occidentale, e anglosassone in particolare) le autorità monetarie
giapponesi facilitarono molto il processo, continuando politiche di espansione
monetaria e mitigando le limitazioni per gli investimenti all’estero. Partì
così la bolla di fine secolo.
[22] - Immanuel Wallerstein, cit., p. 125
[23] - Wallerstein, p.97
[24] - Si veda Alessandro Visalli, “Dipendenza”,
cap. 1, par. “L’economia dello sviluppo”, pp. 48-55.
[25] - Ad esempio Giddens, “Identità
e società moderna”, 1991; “Oltre
la destra e la sinistra”, 1994; “La
terza via”, 1996.
[26] - Immanuel Wallerstein, cit., p.
177
[27] - Wallerstein, cit., p. 75
[28] - Immanuel Wallerstein, cit., p. 248
[29] - Una tarda applicazione
contemporanea di questo modello è Potere al Popolo.
[30] - Immanuel Wallerstein, cit., p.
250
[31] - Ulrich Beck, “La società del
rischio. Verso una seconda modernità”, Carocci, 2000, (ed. or. 1986), p.
114.
[32] - Michael Hardt, Antonio Negri, “Impero.
Il nuovo ordine della globalizzazione”, Bur, 2001 (ed. or. 2000).
[33] - Michel Faucault, “Sicurezza,
territorio, popolazione”, Feltrinelli, 2007, p. 142-164.
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