Il libro di Vincenzo Costa, La società dell’ansia[1],
è del 2024 e si inserisce nel filone dei suoi testi politici di cui fanno parte
Elites e populismo[2],
del 2019, L’assoluto e la storia[3],
del 2023, e Categorie della politica[4],
del 2023. Nel blog Nella fertilità cresce il tempo (un verso di Pablo
Neruda dal Canto General[5]), questi libri sono stati
letti in altrettanti post[6]. Rispetto a questi,
tuttavia, il testo sembra aprire un altro e nuovo filone di ricerca che si
collega probabilmente con alcuni altri del medesimo autore, inseriti nella
tradizione fenomenologica di cui Costa è uno dei principali cultori[7]. Si tratta comunque di un
testo ambizioso: il tentativo, per ora abbozzato di creare una sorta di economia
politica delle emozioni.
Ci sono alcuni bersagli polemici, più che altro rilevabili
dai termini e dalle formule a volte tranchant adoperate: il primo è la
cosiddetta “svolta linguistica”[8] e la successiva “svolta
argomentativa”[9],
quindi Habermas che le traduce entrambe in prescrizioni politiche e sociali
negli anni Novanta; il secondo è il materialismo marxiano. E c’è un oggetto
centrale: l’emergenza del legame sociale, ovvero dell’ordine sociale.
Dei due bersagli polemici principali (Habermas e Marx) il
primo è più evidente, in particolare è criticata la centralità del suo concetto
di “razionalità” come criticabilità di azioni ed affermazioni, e quello di “argomentazione”
come relazione tra azioni linguistiche le quali si ancorano alla “costrizione
non coatta” dell’argomento migliore universalisticamente ancorato[10].
Il problema che Costa sente è la disgregazione del senso
nella società contemporanea, ovvero del senso socialmente costituito e
condiviso (non già attraverso una discussione razionale). Quindi il problema
che sente è quello dell’anomia e delle sue conseguenze sociali e psicologiche.
La “produzione del legame sociale” per l’autore deriva
piuttosto dalle emozioni, ovvero dalla loro creazione sociale, emergenza e
circolazione. Quindi non dal diritto, dalla ragione, dall’uso del linguaggio,
ma da qualcosa che a queste importanti condizioni sta ‘sotto’: la presenza di
una emozione comune, di un orientamento. In questo senso la produzione e
riproduzione dell’ordine sociale è l’effetto di un’articolazione emozionale, e
non principalmente dell’articolazione linguistica o discorsiva. Il problema
habermasiano del coordinamento rivolto all’intesa, basato sul riconoscimento
intersoggettivo di pretese di validità criticabili, pur di lunga tradizione nel
razionalismo occidentale, è quindi scalzato alla sua radice. L’intesa è, in
altri termini, sempre prediscorsiva prima di essere riscattata
linguisticamente. Quando c’è coesione, lungi dall’essere all’opera un’intesa
razionale e discorsiva, è perché esiste già un piano nel quale preesiste
consonanza, in cui risuonano insieme le rispettive aperture al mondo
(percezioni e cognizioni): quello delle emozioni. In assenza di una qualche
sintonia emozionale non è possibile, per Costa, intesa meramente razionale.
Ma quali emozioni? Le emozioni che creano società sono
connesse sul piano sociale con il sentirsi al sicuro, riconosciuti e
protetti; in questo senso dall’insieme della società vengono creati e poi
distribuiti “benefici emozionali”. Formula straordinaria, che
rappresenta, per così dire, la ‘moneta di conto’ dello scambio sociale
emozionale. Il ‘valore’ (emozionale) è quindi creato in comune ed in comune è distribuito,
viene socialmente prodotto per effetto della sua stessa natura. Le emozioni
sono, infatti, dei prodotti essenzialmente sociali. E sono dei prodotti che
sono a loro volta ‘ripartiti’; e che, nell’esserlo, generano di per sé legami.
Restando alla metafora dell’economia politica emozionale (formula che
flirta con Marx, come questo faceva con Hegel), le emozioni sono le ‘merci’ che
ci scambiamo reciprocamente.
Scrive Costa, in una formula sintetica e centrale:
“una società è allora innanzitutto
un modo di produzione e distribuzione delle emozioni. Funziona quando la
ripartizione emozionale genera legami sociali e implode quando una parte
della società non trae sufficienti benefici emozionali”[11].
Se non c’è
scambio di benefici emozionali il legame sociale collassa. Ci si sente estranei
e ci si chiama fuori. Quel che viene opposto tradizionalmente a questa
proposizione, la quale pone al centro le emozioni, è la ricerca della razionale
egemonia discorsiva; ovvero la costruzione di soggettività prive di emozioni che
siano radicate in tradizioni. Nel senso di emozioni che siano state trovate e
non scelte. È qui che si prendono le distanze da tutta una tradizione del
razionalismo occidentale che risale almeno a Hobbes[12], passata per i
philosophes francesi[13], strutturata nell’idealismo
tedesco[14] oltre che
dall’esplicitamente citata Teoria dell’agire comunicativo[15].
Tutto lo sforzo della modernità occidentale, richiamata da Habermas come
illuminismo incompiuto, è rivolto a superare gli assetti consuetudinari,
razionalizzandoli. Centrale in questa descrizione è la sistemazione di Max
Weber, se pure in modo ambivalente (lasciando aperta la possibile interpretazione
che i significati e la validità universale rivendicati ai ‘fenomeni culturali’
dell’Occidente siano solo da questo percepiti e non fondati erga omnes[16]) confina le forme
tradizionali a “costume” (sitte), ovvero ad “abitudini all’agire acquisito”,
sorde, e funzionanti come inconsce sequenze di azioni ed orientamenti[17]. Si tratta di un
processo, la razionalizzazione ed il disincantamento, usualmente attribuito all’emergere
della classe dei ‘borghesi’ in contrapposizione alla vecchia nobiltà della
terra, nel quale un’idea di ragione ricondotta alla preminenza della
razionalità-diretta-allo-scopo, è rivendicata come più avanzata e progressiva. Sullo
sfondo di una potente filosofia della storia, a partire almeno da Vico, ogni
cosa è quindi esposta alla fredda logica del calcolo. Anche se l’erede della
tradizione francofortese (ma anche di quella ermeneutica) pone in campo un più
ampio concetto di razionalità, e dei processi connessi, indubbiamente il
concetto-cardine di “mondo della vita”, nella versione adoperata, si espone
alla critica di Costa. Si tratta, infatti, di porre l’enfasi in quelli che
chiama “legami sociali comunicativi”, ovvero la comprensione non pienamente
consapevole di linguaggi, idee, valori. La comprensione, in processi rivolti
all’intesa non coatta, muove qui dalla previa condivisione di un corpus di
conoscenze ed interpretazioni scontate[18]. Per Habermas, “il mondo
vitale è un serbatoio o uno sfondo di certezze ed evidenze non problematizzate
ma problematizzabili man mano che diventano rilevanti per una situazione”[19]. Esso è costituito da contenuti cognitivi, più
o meno complessi, retti dalla “impalcatura” di “concetti del mondo” e
corrispondenti “pretese di validità”, presupposti come provvisoriamente aproblematici
dagli attori in interazione. Ancora con le parole di Habermas: “il mondo vitale
immagazzina il lavoro interpretativo svolto dalle generazioni precedenti; esso
é il contrappeso conservatore contro il rischio di dissenso che sorge in ogni
processo effettivo dell'intendersi”[20].
L’obiettivo
di tutta l’impresa è, dunque, la creazione di orientamenti all’azione che siano
innovativi, condivisi, riflessivi e razionali. Tramite, precisamente, l’operato
interpretativo di partecipanti che lo svolgono in comune; motivando
razionalmente le intese raggiunte senza ancorarsi semplicemente alle pur presenti
ovvietà culturali, tradizione, norme. Un simile processo, qui solo schematizzato,
genera “razionalizzazione sociale”, la quale si fonda su una “zona critica” in
cui una “intesa conseguita in modo comunicativo dipende da autonome prese di
posizione del tipo si/no su pretese di validità criticabili”[21]. Pretese che, se accolte
dai parlanti, implicano una sorta di ‘decentramento’ progressivo, o tema-per-tema,
della comprensione del mondo. Secondo il diagramma teorico di Habermas la
razionalità di una comunicazione è, da leggere, in rapporto con la sua capacità
di attivare le potenzialità comunicative implicite
nella comunità verso la quale è diretta e la cui azione intende
contemporaneamente normare, sviluppare in senso espressivo ed orientare in quello cognitivo. Ciò significa che la razionalità è in rapporto con la criticabilità e la capacità di
fondazione.
Per concludere
questo excursus, l’esplicito obiettivo, chiarito in Il pensiero
post-metafisico[22],
è dunque determinare in modo non coattivo, ma sotto la spinta della
razionalizzazione, da una parte la perdita dei sostegni convenzionali e, dall’altra,
l’emancipazione dalle forme naturali di dipendenza. Ciò si oppone alla
comprensione della modernità come mero ampliamento di ambiti di opzione per
decisori razionali e disfacimento, senza resti, dei tradizionali “mondi della
vita” per prendere in considerazione solo prestazioni funzionalmente specifiche. Ma anche, e questo è il punto, ogni
tentazione di ricaduta nel calore e nella protezione di luoghi chiusi ed
avvolgenti esperienze “comunitarie”.
Rispetto a questa influente posizione, e lunga tradizione,
Costa prende le distanze dalla centralità del discorso sui ‘valori’, i quali
funzionano disgregando le “comunità emozionali”. Con questa formula, che
rinvia ad un’adesione reciproca preriflessiva tra vicini e ‘parenti’, viene
attaccata tutta la proposta di doveri astratti, che agiscono tramite colpa e
vergogna, e che agiscono per ‘assorbire la vita emotiva in quella razionale’.
La vita emotiva implica, al contrario, una situata
apertura storica e la concezione dell’esistenza come punto di concrezione di
specifici modi di sentire e articolazioni emozionali. Se si dimentica questo, e
si cerca di disattivarlo razionalisticamente, in questo ripetendo in modo
mutato una mossa che viene dalla tradizione habermasiana, sui ottiene l’effetto
che i discorsi sui valori, sganciati dal sentire-in-comune, divengono
spontaneamente strumenti per creare un’egemonia fatta di inibizione, e di ‘colonizzazione
discorsiva’ dell’esistenza. Si ha a che fare, in tal caso, con dispositivi che,
di fatto, finiscono per dire come si dovrebbe sentire, generando una
sorta di “alienazione emozionale”. Ovvero, generando il distacco dalle
proprie emozioni che si trovano ad essere alla fine esterne al proprio sé;
in qualche modo reificate ed imposte socialmente. Emozioni che sono connesse
con il senso che la propria vita è in mano ad altri e fuori della
propria disponibilità.
Di qui, articolando un discorso che fa leva in sostanza sull’esperienza
di messa a rischio della vita e di esposizione alla sua durezza, che molti
fanno nell’attuale società neoliberale, Costa individua nei discorsi sui valori,
e nelle altre strutture discorsive agitate nella sfera pubblica, la fonte della
alienazione emozionale denunciata. Si parla qui, concretamente, della sfera del
discorso woke e dell’uso disciplinare del “politicamente corretto”[23], o di quella che Sahra
Wagenknecht, chiama la ‘lifestyle-linke’[24]. Di discorsi fatti per
produrre effetti di distinzione tra chi, facendoli propri, mostra pubblicamente
di avere i buoni valori e meritare di essere eletto e chi, subendoli, è al
contrario respinto tra i rozzi, reazionari, arretrati, falliti. Ovvero tra i colpevoli.
Questi discorsi muovono e provocano, al contempo, la citata ‘alienazione
emozionale’. E agiscono attivamente sulle distribuzioni e articolazioni delle
emozioni preriflessive che, in sostanza, ordinano la società. Nel senso
che attivano o inibiscono azioni, plasmano la vita sul piano che più conta,
quello emozionale.
Ma quale è, quindi, l’origine sociale di questo sentimento
di ansia, di questo stato permanente che avvolge la vita di molti? L’origine
sociale dell’ansia è da rintracciare nell’intera atmosfera determinata dalle
società contemporanee che è intervenuta man mano la precarietà si è fatta
strada. Quando ognuno si è trovato crescentemente esposto al rischio di essere
valutato; e il successo in assenza di strutture stabili (familiari e altro) si
è trovato interamente esposto alla meccanica del giudizio sociale. L’ansia si è
imposta, quindi, come anticipazione di una vergogna possibile e la sua
produzione è diventata una specifica tecnica di potere. Nel senso specifico
che gli uomini e le donne, ansiosi ed esposti, sono sempre costretti ad essere
iperattivi; si trovano sempre sull’orlo del fallimento esistenziale e per
questo sono sempre pungolati, disperati, mobili e anche, al contempo, artatamente
felici. Nel senso che una parte del ruolo sociale che ognuno è chiamato a
rivestire impone di dover tassativamente vestirsi di un abito di felicità.
Essendo la rabbia, la depressione, l’ansia manifesta spia del fallimento.
Questa epidemia di ansia, circola, viene in un certo
senso quindi ‘capitalizzata’, si fa “motore stesso del modo di produzione
capitalistico”[25].
Questa è quella che l’autore chiama la “insicurezza ontologica”. Un’insicurezza
che deriva direttamente dalla sottrazione del futuro, quindi della capacità di
progettarsi, di inserirsi in un progetto[26]. Di fuggire alla
sensazione di un’esistenza che si libra nel vuoto. Un’esistenza che finisce per
essere sola e assediata contemporaneamente. Ovvero soli anche se con gli
altri e, al contempo, assediati dagli altri.
Allora, oltre ad attivarsi, il soggetto ansioso è portato a
produrre e consumare quanto più possibile, per aumentare il proprio rango e
distaccarsi in una società sempre più ineguale e sempre più ingiusta. Una
società nella quale è il concetto di meritocrazia (un’impossibilità ontologica,
dal momento che ogni sé, e ogni dotazione è costruita socialmente e non
individualmente) a fare da attivatore del senso di competizione di tutti
verso tutti. Una competizione sentita sia come normale sia come legittima.
Nel quale contesto anche il sapere stesso è acquisito e percepito come una
sorta di arma, rivolta contro gli altri[27].
Questa dinamica, proseguendo la metaforizzazione del gergo
marxiano condotta durante tutto il testo, determina una “lotta di classe
emozionale”. Ovvero, la lotta condotta agendo le emozioni, e suscitandole,
come elemento di distinzione della classe. Per cui avere certe emozioni,
sentirsi superiori, colti, riusciti e felici, è elemento della distinzione, del
rango. Fare certi discorsi, brandire dei termini, dei concetti, delle frasi, è
indicatore certo dell’appartenenza alla classe (superiore). Al converso, farne
altri, scivolare su termini diversi e ‘retrogradi’, toccare dei tasti, produrre
delle frasi, è il segno dell’appartenenza ad altra classe. Quella da
combattere e inferiore.
Ma, al contempo, occorre anche combattere il legame
ascrittivo, quello che si è trovato nascendo o venendo socializzati, quello che
non si è scelto individualmente. Di cui non ci si è liberati, disincantandosi.
Combattere, cioè, il legame che protegge. Chi vince la “lotta di classe
emozionale” non ha infatti bisogno di sicurezza, non chiede protezione (se non
per il gruppo elettivo, al quale ha scelto di aderire, che è invariabilmente
sia giusto sia vittimizzato). Produce una sorta di torsione, per così
dire, alla necessità di fondare l’io (il problema centrale della modernità
almeno occidentale) su autointerpretazioni esplicite, scegliendo cosa è di
importanza cruciale e cosa non lo è; definendo la propria mappa morale. La
torsione deriva dalla gestione individualista del processo, per cui si scelgono
insieme le narrazioni e gli interlocutori (escludendo altri). Ma, per usare qui
le parole di Taylor: “una società di persone tese all’autorealizzazione e le
cui affiliazioni vengono considerate sempre più come revocabili, non può
sostenere quell’identificazione forte con la comunità politica che la libertà
pubblica richiede”[28].
Come ricorda una vasta letteratura[29], la sicurezza che l’unico
modo per evitare l’epidemia di ansia socialmente prodotta, è un prodotto di una
riconosciuta dipendenza reciproca che può essere solo in parte ‘scelta’, ma è
anche ‘trovata’[30].
Nella società dell’insicurezza ontologica e sociale,
viceversa, si cerca di essere indipendenti, si vive come sconfitta ogni
relazione profonda e si percepisce il sé come in lotta con gli altri, comparato
sistematicamente con essi, e vincente per forza. Quindi, per affermarsi in
questa autopercepita lotta, è necessario esibire i simboli del successo. Sia
materiali, sia morali ed esistenziali, è indispensabile come detto mostrarsi
felici, riusciti, carichi di emozioni positive.
Emozioni che sono prodotte sia socialmente, sia nella
interna fabbrica personale. Sono simulate e quindi create; attivate da processi
di causazione alla cui radice c’è questo desiderio disperato di gestire l’ansia
da prestazione. Di sfuggire alla depressione sempre alla porta. Tra depressione
ed ansia, dice Costa, c’è una relazione interna di somiglianza, l’una guarda
all’altra e l’una, la depressione, è la soluzione all’altra, l’ansia che
altrimenti si affaccerebbe.
Quindi, l’esistenza ansiosa, creata dalla società
dell’insicurezza sistematica, al contempo la distrugge. C’è qui una retroazione
(anche essa di sapore marxiano riscritto) per la quale la produzione sociale
dell’ansia distrugge le proprie condizioni materiali di produzione e incammina
la società verso la finale dissoluzione.
L’alternativa, di fronte al baratro al quale ci affacciamo,
è da cercarsi nella logica del dono[31], e nella comprensione
della circolazione della ricchezza, da riattivare, come circolazione delle
emozioni e creazione di una diversa economia politica delle stesse.
[1] -
Vincenzo Costa, La società dell’ansia, Inschibboleth edizioni, Roma 2024
[2] -
Vincenzo Costa, Elites e populismo. La democrazia nel mondo della vita,
Rubettino editore, Soveria 2019
[3] -
Vincenzo Costa, L’assoluto e la storia. L’Europa a venire, a partire da
Husserl, Morcelliana Brescia 2023
[4] -
Vincenzo Costa, Categorie della politica. Dopo destra e sinistra, Rogas
edizioni, Roma 2023.
[5] - Si
veda il post “Nella
fertilità cresce il tempo”, 30 novembre 2013.
[6] -
Rispettivamente, nel novembre 2022 Elite
e populismo, nel dicembre 2023 L’assoluto
e la storia, nel gennaio 2024 Categorie
della politica.
[7] - Tra
questi almeno, Costa, V., Fenomenologia dell’intersoggettività.
Empatia, socialità, cultura, Carocci, Roma 2010; Costa, V., Distanti
da sé. Verso una fenomenologia della volontà, Jaca Book, Milano 2011;
Costa, V., Esperienza e realtà. La prospettiva fenomenologica,
Morcelliana, Brescia, 2021.
[8] - La “svolta
linguistica” è un vasto movimento intellettuale che è solito riferire alla
ricezione del lavoro di Wittgenstein, Frege, Russell, che muovono da un’analisi
del linguaggio quanto più possibile rigorosa, come unico possibile accesso al
sapere. Il termine è stato reso noto da Richard Rorty, che nel 1967 ha curato
il libro collettivo “The linguistic turn”. Dell’ampio movimento possono far
parte anche filosofi fenomenologici e post-idealisti come Martin Heidegger e
Hans-George Gadamer.
[9] - La “Svolta
argomentativa” è più praticata, come termine, nella filosofia del diritto, in
opposizione alla scuola del diritto positivo, e i suoi rappresentanti sono Perelman
con Lucie Olbrechts-Tyteca in Trattato dell’argomentazione, Einaudi, 1968,
alla metà degli anni Sessanta, Robert Alexy, soprattutto nel suo libro del 1978
Teoria dell’argomentazione giuridica, Giuffrè Editore, Milano 1998. In modo
più esteso può essere riferita anche al lavoro di Jurgen Habermas che fa
espresso riferimento a Toulmin ed il suo Gli usi dell’argomentazione,
Rosemberg & Sellier, 1975 in diversi passaggi cruciali.
[10] -
Scrive Habermas, “l’intuizione fondamentale che noi colleghiamo all’argomentazione
sotto l’aspetto del ‘processo’ sta nell’intenzione di convincere un uditorio
universale e di conseguire il consenso generale per una certa espressione”,
in Teoria dell’agire comunicativo, Il Mulino 2022 (ed. or. 1985), p. 76.
[11] -
Costa, La società dell’ansia, cit, p.10
[12] - Si
veda, ad esempio, il De cive, in cui le facoltà ‘della natura umana’
sono ricondotte a quattro ‘generi’: forza fisica, esperienza, ragione, passioni.
La “naturale inclinazione degli uomini a provocarsi a vicenda”, quindi, deriva
dalle passioni e dalla ‘falsa stima di sé’, cosa che, unita al ‘diritto’ porta
alla famosa formula per la quale “lo stato naturale degli uomini, prima che si
riunissero in società, era la guerra; non solo, ma una guerra di tutti contro
tutti” (Thomas Hobbes, De Cive, Editori Riuniti, Roma, 1979, p. 87).
[13] - Charles
de Montesquieu (1689-1755), Voltaire (1694-1778), Jean-Jacques Rousseau
(1712-1778), Denis Diderot (1713-1784), Jean-Baptiste d’Alembert (1717-1783),
Condorcet (1743-1794).
[14] - Da
Kant ad Hegel. Il cui punto di partenza è “l’uscita dell’uomo dallo stato di
minorità”, dove per minorità Kant intendeva l’incapacità di valersi del proprio
intelletto senza la guida di un altro (ovvero della tradizione e delle sue
emozioni non linguisticamente riscattate). Ovvero, muove dal rifiuto di ogni
dogma e di ogni tradizione (di tipo religioso, politico, economico, culturale)
e l’esortazione a “camminare da soli”.
[15] -
Jurgen Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, Il Mulino, Bologna 1986
(ed.or. 1981).
[16] - “I
problemi di storia universale saranno inevitabilmente e legittimamente trattati
da chi è figlio del moderno mondo culturale europeo con questa impostazione
problematica: quale concatenamento di circostanze ha fatto sì che proprio sul
terreno dell’Occidente, e soltanto qui, si siano manifestati fenomeni culturali
che pure – almeno secondo quanto amiamo immaginarci – stavano in una linea di
sviluppo di significato e di validità universale?”, Max Weber, Sociologia
della religione, Ed. di Comunità, Milano, 1982 (ed or. 1920), p. 3.
[17] - Max Weber,
Economia e società, Ed. di Comunità, Milano, 1974, p.28
[18] -
Habermas, op.cit.
[19]-
Idem.
[20]- Idem.
[21]-
Idem.
[22] -
Jurgen Habermas, Il pensiero post metafisico, Laterza
[23] - Cfr,
ad esempio, Jonathan Friedman, Politicamente corretto, Meltemi, Milano,
2018. Cfr, il relativo post
del giugno 2018.
[24] - Sahra
Wagenkhnect, Contro la sinistra neoliberale, Fazi Editore, 2022, Roma.
[25] -
Costa, La società dell’ansia, op. cit., p. 54.
[26] - Si
può pensare per questo concetto all’opera di Charles Taylor. Ad esempio,
Charles Taylor, Il disagio della modernità, Laterza, Bari, 1994; e
Charles Taylor, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna,
Feltrinelli, Milano 1993.
[27] -
Costa, La società dell’ansia, cit., p. 98.
[28] -
Charles Taylor, Radici dell’Io, op.cit., p. 617.
[29] - Sia
psicologica, sociologica, come di filosofia morale.
[30] -
Costa, La società dell’ansia, cit., p. 104.
[31] - Qui si torna ovviamente, e sempre, a Marcel
Mauss, Saggio sul dono, Einaudi, Torino, 1965 (ed.or. 1950); e Karl
Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1994 (ed.or. 1945).
Grazie Alessandro, grazie soprattutto per aver colto le molte cose implicite, la struttura meno evidente del testo, che per essere breve e chiaro ha dovuto rinunciare a indugiare su molte delle cose su cui hai richiamato l'attenzione. Un carissimo saluto. Enzo
RispondiEliminaCome può un essere umano definirsi "razionale", quando il motore primo che guida il nostro agire sono le emozioni?
RispondiEliminaLe emozioni sono quel suggeritore invisibile che dà opinioni in ogni momento. Ignorarlo significa esporsi al rischio di follia.
Le emozioni sono la risposta del corpo a COME funziona la mente. Sono l'automatico, indispensabile indicatore costruito (in gran parte ma non interamente, pare) dall' esperienza.
Le emozioni sono il grande incompreso - non dai comunicatori capaci - del nostro tempo, a volte subdole, a volte illuminanti.