Incombe
la fase finale delle elezioni americane. Ogni quattro anni viene riproposto questo spettacolo
dai toni profondamente religiosi del duello tra ‘messia’. Un giudizio di dio
accuratamente imbastito da mani sapienti. Con gran rullo di tamburi, il
“popolo” viene chiamato a scegliere quale frontman si dovrà fare carico di
rappresentare la disgregazione che nutre il cuore dell’impero occidentale.
Esiste, probabilmente, un nesso funzionalmente necessario tra questa
disgregazione e la ciclica riproduzione di una guerra civile ritualizzata
capace di fornire l’alias di un sistema di valori comunitari rispettivamente
orientati gli uni contro gli altri. L’assenza di autentici elementi di
connessione comunitaria, in un ambiente ultra-frammentato sotto ogni profilo, e
nel quale la promessa della prosperità (unico sostituto plausibile della
salvezza ultramondana nella quale collettivamente non si crede più) per
troppi si allontana generazione dopo generazione, rende, in altre parole,
necessario per poter funzionare quanto basta da conservare il proprio
auto-attribuito ruolo mondiale, che sia messo in scena un sostituto. Ed allora
si cerca la salvezza mondana non già nell’identificazione di nemici collettivi
scelti dall’effettiva gerarchia sociale operante (ovvero, in quello che una
volta si chiamava il ‘nemico di classe’), quanto in presunti nemici della
‘nazione’. Nemici, che sono, insieme all’identificazione di ciò che è la ‘vera’
nazione, interni e trasversali. Contro questi si alza un messia.
Chiaramente
ogni quattro anni, puntualmente, ci viene raccontato con grande spesa e fine
capacità retorica che la scelta è epocale. Si tratta invero di designare
l’anticristo o il vero messia. Colui (o colei) il quale porterà il bene e la
pace al mondo, colui che comprende e riunisce in sé tutto l’essenziale e
individua il punto cruciale e dirimente. Punto che sarebbe il conflitto tra il
‘capitalismo industriale’, del quale sarebbe campione Trump, e quello
‘finanziario’ e della ‘new economy’, che sarebbe appannaggio dei democratici e
quindi della Harris. Il primo, stranamente, ‘pacifista’ ed il secondo
‘guerrafondaio’. Ancora, opposti sul crinale della guerra simbolica tra
tradizionalisti e ‘woke’.
Premesso
che, come si sarà capito, io ‘passo’, ritengo che le cose siano altrimenti.
Andando
alla struttura, tutto lo spettacolo, ed anche la sua sostanziale frivolezza, nasce
dalla dinamica interna della creazione del capitale come concentrazione del
valore e sua mobilitazione. La concentrazione, dinamica che prende il
sopravvento in sostanza da oltre centocinquanta anni all’uscita dalla crisi
dell’ultimo quarto del XIX secolo (nel passaggio al cosiddetto ‘capitalismo
monopolistico’[1]),
produce direttamente nelle condizioni della modernità la dialettica tra
monopoli industriali e finanziari che solo apparentemente si oppongono sulla
scena mondiale, restando necessariamente intrecciati come fratelli siamesi.
E produce direttamente, nelle fasi in cui il sottoinvestimento necessario per
l’accumulazione in forma liquida e mobile del capitale[2] raggiunge il suo limite
(ovvero destabilizza eccessivamente le “metropoli”), quei riflussi che Arrighi
chiamava nel loro insieme “fase territorialista” e che alimentano il tentativo
di produrre la reindustrializzazione fino ad ora (ed anche questa volta)
essenzialmente militare (o energetico-militare[3]). Ovvero di produrre le
basi della forza nelle condizioni dello scontro materiale tra blocchi. Due
guerre mondiali sono già state figlie di questo movimento che è, al contempo,
scontro tra centri di potenza imperiale e tra strutture del capitale. Scontri sempre
passati sopra le teste del popolo. Stiamo ora vedendo i prodromi della terza,
che, però non va guardata con occhiali morali, né dritti né rovesci; una guerra
che è questione di collisione tra dinamiche strutturali, non già tra ideologie.
Una
retorica di un certo successo, avanzata tipicamente dalla destra nella quale ha
profonde radici[4],
vede in questo movimento dialettico una semplice opposizione binaria tra
industria e finanza, e tende a leggerla in chiave morale. La prima sarebbe il
regno dei ‘produttori’ (indipendentemente dalla posizione rispetto al
capitale); ovvero di chi, con il sudore delle proprie mani e mettendo all’opera
il proprio ingegno, crea l’effettiva ricchezza. La seconda sarebbe la
sentina dei mestatori e speculatori; dei pochi e malsani che speculano
dalle loro alti torri (a New York o Londra), per sottrarre la sudata ricchezza
ai tanti e giusti. Una rappresentazione chiaramente intrisa di teologia
che ha l’enorme vantaggio di spiegare in modo semplice il dolore del mondo e
fornire un’economica spiegazione del male (ovvero di produrre una teodicea).
Abbiamo i ‘figli della luce’ contro i ‘figli delle tenebre’, i ‘tanti’ contro i
‘pochi’. I secondi sono chiaramente dediti a complottare e manipolare il mondo,
agendo dietro le sue spalle nel chiuso dei loro rifugi. In genere, nella
versione originale sono ebrei o, comunque, consorterie chiuse e oscure.
Questa
narrativa sperimentata e potente fornisce la sua forza a numerose declinazioni
del tema. Avremmo quindi “due capitalismi”, oppure una ‘parte sana’ del paese
che è sacrificata all’altare del denaro fine a se stesso; quindi e
necessariamente delle ‘èlite’ che sfruttano e manipolano il mondo, infine un
“deep-state” che controlla tutto dietro le quinte.
Nulla
è mai così semplice e chiaro.
Il capitalismo è un movimento diseguale e plurale che si nutre ed esiste nella
dialettica spaziale e nello scontro, almeno potenziale, tra gli interessi delle
classi e dei sistemi economici. In particolare, è qualcosa che attraversa
tutti. Determina necessariamente e costantemente tendenza a creare e sfruttare
dipendenze e quindi a livello globale relazioni coloniali e imperiali. Non si
tratta di volontà di questo o quel frontman, si tratta di una assoluta
necessità interna. D’altra parte, non si diventa frontman del Grande
Spettacolo se non si sono profondamente interiorizzate le necessità vitali del
sistema che si va a servire. Necessità di riproduzione interna dei
funzionamenti gerarchici e della estrazione del surplus, ed esterna di dominio
ed estrazione coloniale.
‘Sistema’
che, attenzione, non è certo diviso in Repubblicani o Democratici, quanto in
infinite linee di faglia, a geometria variabile ed in continuo movimento;
faglie che i diversi attori per diventare élite devono imparare a cavalcare,
spesso contemporaneamente. Biden, ad esempio, è stato un ‘democrat’
particolarmente legato all’industria (anche militare, come si è visto), cosa
che non impedisce lo sia anche ad altre forze. Ma chi sta sulla tigre non
può scendere, per cui deve conservare sempre le relazioni che costituiscono
il potere del quale è anello.
La
‘tigre’ è rappresentabile oggi come riarticolazione del modo di produzione,
sotto la spinta del mutamento della piattaforma tecnologica[5], delle strutture della
vita quotidiana; motore non ultimo dell’accelerazione di quella disgregazione
sociale determinata in ultimo dall’avvenuta ridislocazione in occidente del
lavoro di massa verso settori a basso valore aggiunto, e quindi deboli, ed a
più elevato tasso di sfruttamento. Dislocazione, prodotta quindi dalla
soluzione alla crisi degli anni Settanta, che ha condotto alla concentrazione
crescente dei guadagni di ricchezza su sezioni sempre minori della popolazione,
avvantaggiate dalla propria posizione nei flussi di valore e nei luoghi ‘densi’
che li organizzano. Ma la ‘tigre’ è anche la crisi di sicurezza determinata dal
rovesciamento in corso del rapporto gerarchico denaro-merci, cioè dalla perdita
di centralità della finanza e della posizione imperiale americana, che è
integralmente figlio della instabilità e delle reazioni degli attori sfidati da
essa. Ovvero dell’accelerazione dello scontro finale, dalle sanzioni russe,
dall’allineamento del mondo in due blocchi, la creazione di nuove strutture di
interscambio e relative basi monetarie, e così via.
Senza
entrare ora nei dettagli, questo assetto dinamico ed in accelerato mutamento mostra,
chiunque sia il frontman, la ragione della disperata determinazione
americana (ed europea) di fronte al rischio di perdere la centralità. Non si
tratta affatto di dare preminenza ad una presunta ed indipendente “industria”
(e poi quale?), contro i complotti di una elitaria “finanza”, quanto del
rischio di non disporre più degli sbocchi controllabili e sicuri per le
eccedenze di capitale che i grandi conglomerati (sempre insieme industriali e
finanziari) richiedono per restare stabili[6]; di
cui, cioè, il capitalismo ultramonopolista contemporaneo necessita per
sopravvivere. Pensare che uno dei due ‘frontman’ possa prescindere da questa
struttura e ripassare d’un sol colpo nel sistema di funzionamenti segmentato e
caratterizzato dall’espansione interna e la competizione tra i capitali in un
contesto inflattivo autostenuto (anziché tra capitali-nazione in un contesto
deflattivo, come gli ultimi cinquanta anni) ha un forte sapore di whisful
thinking. Ciò in quanto quel sistema esteso che chiamiamo per comodità
‘capitalismo’ (ovvero quell’insieme di rapporti sociali, giuridici e di
soggettività che si definiscono per la centralità del principio organizzativo e
di ordine del ‘capitale’) è sempre composto di parti interconnesse, ognuna
delle quali trova la propria struttura e organizzazione dalla propria posizione
nell’insieme[7].
Posizione che è sempre gerarchica e simbiontica al contempo. È per questo che
non si può, se non sul piano espositivo e metodologico, distinguere tra
“industria” e “finanza”. La ragione è che tutti i fenomeni economici e sociali,
ed in ultima analisi anche politici e militari, trovano possibilità di essere
compresi solo nell’unità complessiva delle parti in interazione. Ovvero solo
dialetticamente.
Escludendo
che qui si tratti della lotta tra il Bene ed il Male, il rischio che l’egemone (ed
il suo protempore frontman, chiunque sia) ha di fronte è molto più grande di
una semplice redistribuzione interna tra egemonie del capitale: tutto il
sistema di potere angloamericano si confronta con l’incubo che si ridefinisca,
dopo cinquecento anni, l’intera gerarchia delle dipendenze e dell’estrazione
del surplus dentro un contesto-mondo nel quale non si è più soli.
Può
tutto questo essere colpa di Biden, della Harris (o dei Democratici neo-con) o,
di converso, della minaccia portata da Trump (o dai Repubblicani non neo-con)?
Può essere l’uno o l’altro, in quanto messia, la soluzione?
Mi
sentirei di escluderlo,
nessuno può, facendone strettamente parte, sciogliere il nodo dialettico
determinato dalle condizioni sociopolitiche e socioeconomiche dell’Occidente,
dominato dalla concentrazione del capitale in poche e ben sorvegliate mani,
alcune decine di migliaia di imprese giganti e pochi centri finanziari, che
coinvolgono direttamente ed indirettamente alcuni milioni di persone, con al
“centro” qualche centinaio di grandi famiglie con patrimoni quasi illimitati.
Vediamo qualche dato: l’ultimo Rapporto Oxfam[8] mostra che le prime 150
multinazionali hanno profitti per 1.800 miliardi di dollari, simili al Pil di
una delle più grandi potenze industriali, l’Italia, e che questi profitti
all’80% sono andati agli azionisti e non sono reinvestiti, mentre il monte salari
di 800 milioni di persone è sceso di 1.500 miliardi; o che i miliardari
nel mondo (spesso azionisti delle sopradette società) hanno aumentato, nei soli
ultimi tre anni, il loro patrimonio di 3.300 miliardi di dollari. Le
multinazionali che stanno ‘vincendo’ sono però diverse: 14 compagnie
petrolifere e del gas, che hanno triplicato i profitti fino a circa 200
miliardi di dollari; 2 marchi del lusso, con 10 miliardi; 22 società
finanziarie che hanno registrato incrementi di un terzo e pari a 36 miliardi;
11 società farmaceutiche che hanno prodotto profitti per 43 miliardi. Ovvero
300 miliardi dei 1.800 di profitti (un sesto) è concentrato in 50 società. Notare
i valori e le loro relazioni, le compagnie petrolifere, o farmaceutiche, non
sono “industria”? E il sistema del lusso, cosa è? Considerando, più in
generale, i profitti globali aziendali, un terzo è incassato da una società su
centomila (0,001%), l’1% più ricco della popolazione mondiale (80 milioni di
persone) possiede il 60% della ricchezza finanziaria, mentre la sola Apple ha
un valore superiore al Pil della Francia. Le prime cinque società hanno un
valore azionario superiore al Pil di tutte le economie africane, dell’America
Latina e dei Caraibi, messe insieme. I primi tre gestori di fondi, BlackRock,
State Street e Vanguard, insieme, hanno quote di controllo o ‘significativa
influenza’ in asset pari ad un quinto del totale mondiale, 20.000 miliardi di
dollari.
Quel
che succede è molto di più di uno scontro tra una industria “buona” ed una
finanza “cattiva”. Molto più semplicemente, ma radicalmente, il
capitale tutto entra in palese contraddizione con l’espansione materiale
dell’economia-mondo; il capitale “disimpegnato” in ogni fase finanziaria
dall’espansione ulteriore di produzione e commerci, è, perciò, riciclato con
profitto superiore in settori non produttivi (che sono spesso le armi).
A questo elevato livello di astrazione si può concludere che,
nella dinamica fondamentale che si genera tra la tendenza a ritirare il
capitale dagli investimenti produttivi (di cui a tutta evidenza soffrono strutturalmente
e da tempo i ‘centri’ sovracapitalizzati, determinando abbastanza
intenzionalmente sottoccupazione e quindi sottoconsumo), a causa
dell’incremento della concorrenza e la relativa scarsità di occasioni
sfruttabili per un ‘adeguato’ saggio di profitto[9], e la
sovrabbondanza di capitale mobile che ne è l’immediata conseguenza, c’è
tuttavia lo spazio per numerosi equilibri dinamici. Gli equilibri sono
determinati dalla dialettica tra occasioni di impiegare i capitali per
investimenti e di metterli a frutto per rendite (DMD vs DD), entrambe soggette
alla legge dei rendimenti decrescenti (relativa e non assoluta). A rendere
complesso il quadro, però, non ci sono solo le diverse arene nelle quali le due
scarsità (di occasioni di investimento e di occasioni di rendita) si
contrappongono, ma anche attori ed organizzazioni non interessate al profitto, ma, dice Arrighi, a potere o prestigio[10].
In queste “biforcazioni” si creano quindi campi instabili e turbolenti nei
quali “agenti” diversamente orientati concorrono l’uno a sottrarre capitali ai
circuiti produttivi e commerciali per offrirli sui mercati finanziari, gli
altri a impegnarli nei primi, cercando ognuno di massimizzare il proprio
potere.
Ancora, non si tratta qui di una guerra tra bene e male,
quanto di interessi materiali all’opera e della complessa transizione tra
sistemi d’ordine e funzionamento del capitalismo. Del quale partecipano
entrambi i contendenti rituali del ‘duello’.
Se vogliamo, anzi,
l’enfasi retorica che alcune forze pongono sull’industria e l’economia chiusa,
in opposizione alla finanza ed alla cosiddetta ‘società aperta’ (che tale non è
mai stata), nasconde la spinta a creare (o ri-creare) le condizioni della rivalsa del Grande
Capitale Industriale (GCI) di tipo tradizionale (Oil & Gas e Nucleare &
Militare, OGNM) verso il capitale distribuito e finanziarizzato egemone
nell'avvio di millennio. Questo conflitto tra capitali (la forma
standard del modo di produzione capitalista) ha, tra l’altro, una rilevante
conseguenza che si inizia a vedere ed è parte del pacchetto narrativo: un
allentamento delle retoriche della transizione e della modernizzazione smart e
un relativo indebolimento delle relative politiche di spinta. Ovvero ha come
conseguenza l’abile creazione di un clima anche ideologico di ostilità a questi
temi. Ne sono espressione l'emergere di controforze solo apparentemente volte
alla mitigazione degli effetti della transizione sulla vita quotidiana (OGNM ha
ottime agenzie di stampa e marketing, capaci di vendere tutto a tutti) ma in
realtà dirette alla conservazione degli assetti di potere esistenti ed al
loro rafforzamento. Rivolte alla sostituzione di una mobilitazione con
un’altra. E di una mobilitazione in effetti più immediatamente connessa con la
preparazione tecnico-industriale della guerra (per cui potrebbe essere
invertito l’abito del lupo e dell’agnello, o, altrimenti, essere, come è,
presente nel guardaroba di entrambe le parti).
Bisogna essere
chiari: entrambe le forme funzionano proprio
perché sono irrazionali in termini ‘capitalistici’, ovvero non determinano
ritorni sul capitale investito adeguati, e dunque si prestano a distruggere il
capitale in eccesso, contribuendo a far rientrare la “fase finanziaria” ormai
senza uscita (per l’Occidente). Chi accusa, quindi, la seconda forma di
transizione forzata di essere irrazionale, in quanto distrugge capitale, anche
fisso, o lo rende obsoleto prima del tempo (obbligandone la sostituzione) non
ne capisce la funzione sistemica e inconsapevolmente appoggia l’alternativa: la
pura e semplice distruzione del mondo (sperabilmente nemico). Distruzione che
presuppone massiccio reinvestimento in specifiche industrie e correlate matrici
energetiche.
La
cosa non potrebbe essere più seria. proprio perché la posta è il controllo del
mondo, ovvero l’attrazione e la ‘fissazione’ dei capitali mobili, che lo
rendono instabile, e il loro impiego per guadagnare un superiore livello di
efficienza. Scoperto di avere perso, dopo l’illusione coltivata per trenta anni
di poter guidare la modernizzazione e la transizione, siamo quindi passati, semplicemente,
dallo schema per il quale si puntava a cambiare la “piattaforma tecnologica”,
certi di essere i più bravi nel gioco della tecnica, a quello in cui, scoperto
che non è così (che i Cinquecento anni di dominio stanno passando), si torna
alle care vecchie armature. E’ per questo che le tecnologie della
transizione, prima così desiderate, sono sotto attacco. Per questo ora si parla
tanto di nucleare (contando sull’illusione che la tecnologia migliore sia
americana e francese), si attaccano da ogni parte le rinnovabili (senza mai
citare la vera ragione). Nel momento in cui si passa all'economia di guerra
non si può certo comprare dal nemico.
Torniamo quindi alla fase finale delle elezioni americane. A
questo spettacolo affascinante.
Dentro il contesto di un ampio movimento di rimontaggio
sistemico del funzionamento essenziale del capitalismo esteso a livello del
sistema-mondo, nel quale viviamo, abbiamo evidentemente bisogno di ridurre la
complessità. A questo fine la traduzione di una complessa lotta intra-élite,
che attraversa diagonalmente le strutture della riproduzione del potere, ci
viene presentata come una lotta morale.
Abilissimi centri di stampa e comitati politici costruiscono
narrative compatte e scintillanti, sulla base dell’antico schema della lotta
degli dei e giganti, tra il bene ed il male, i tanti puri ed i pochi oscuri e
malvagi. Rispettivamente opposti.
Per cui, radicandosi nelle tradizioni politiche
rispettivamente più sentite, i ‘produttori’ si oppongono agli ‘speculatori’ (o
i liberali e ‘aperti’ ai conservatori e ‘nazionalisti’), gli ‘amanti della pace’
e quelli dello scontro e della guerra (qui ognuno si vede nei primi), il
‘popolo’ contro le ‘èlite’ (oppure, nell’altra narrativa, i ‘progressisti’
contro ‘tradizionalisti’ e ‘oscurantisti’).
Ognuna di queste posizioni, presa da sola, ha le sue buone
ragioni e mi è capitato di difenderle tutte (salvo la guerra, ovviamente,
quella non ha padri e madri).
Tuttavia, qui io passo la mano. Le cose sono altrimenti e qui
non ci sono messia.
[1]
- Un’analisi del quale, inserita nella critica marxista da Hilferding a Lenin,
si trova in Sweezy e Baran. Cfr. Alessandro Visalli, Dipendenza, Meltemi
Milano 2020.
[2]
- Specificatamente per questa affermazione teorica si veda la scuola americana
di Baran e Sweezy, ricordata nel mio libro Dipendenza, del 2020. Alessandro
Visalli, Dipendenza, Meltemi, 2020.
[3]
- Si veda il post “Si intravede”,
Tempofertile 15 giugno 2024..
[4]
- Si può vedere utilmente il libro di Matteo Luca Andriola, La nuova destra
in Europa, Edizioni Paginauno, 2019.
[5] - Intendo per “piattaforma
tecnologica” un set di funzionamenti essenziali, punti di convenienza e
vantaggio per diversi gruppi e ceti sociali determinati da network di
tecnologie convergenti e reciprocamente rafforzanti, quindi dall’insieme di
skill favorite da queste e di know how privilegiati, ma anche da norme sociali
e giuridiche che si affermano nella sfera pubblica e privata, e infine da
pacchetti di incentivi pubblici e privati (entrambi, norme e incentivi,
coinvolti nell’affermazione del network di tecnologie). Una “piattaforma
tecnologica” è, inoltre, sempre connessa con un assetto geopolitico che la
rende vincente (e in ultima analisi possibile).
[6] - Uno dei modi attraverso cui gli agenti economici reagiscono a
questa tendenza è l’espansione del
sistema-mondo allo scopo di trovare “terre vergini” nelle quali siano
presenti opportunità più convenienti. Naturalmente anche in queste espansioni
la legge dei rendimenti decrescenti resta all’opera e, pur contrastata da
possibili guadagni di efficienza, riarticolazioni e ottimizzazioni tecniche,
alla fine determina un “ristagno” (Hicks). Questa fase è caratterizzata da
sovrabbondanza di capitali liberi (“crisi di sovraccumulazione”) ed è
anche, e forse soprattutto, caratterizzata da un inasprimento della lotta
concorrenziale per l’impiego del capitale mobile (e la sua attrazione). In
questa fase i detentori del capitale lottano per allocarlo in usi
“accettabilmente” redditivi, in condizioni di abbondanza del primo e scarsità
dei secondi. D’altro lato gli utilizzatori (che sono spesso gli Stati, che ne
necessitano per i loro usi acuiti dalle tensioni della fase) lottano per
attrarli a condizioni meno onerose.
[7] - Alla base del modello è l’idea (di Adam Smith, prima che di
Marx) che ceteris paribus la continua espansione delle attività produttive, con
il crescere della competizione, debba portare ad un calo del saggio di profitto
e, nella versione dell’ultimo, ad una stagnazione dei salari reali e
conseguente crisi di domanda (che ostacola i rapporti di produzione sociali,
generando la contraddizione essenziale).
[8]
- https://www.oxfamitalia.org/wp-content/uploads/2024/01/Rapporto-OXFAM-Disuguaglianza_il-potere-al-servizio-di-pochi_15_1_2024.pdf
[9] - A sua volta determinato per
via di concorrenza.
[10] - Storicamente, nei vari cicli
di accumulazione caratterizzati da una successione di fasi queste “lottavano contro i rendimenti decrescenti prendendo in
prestito tutto il capitale possibile, e investendolo per conquistare con la
forza i mercati, territori e popolazioni”.
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