I
tempi cambiano, e con essi la concreta analisi. Muovendo dalla genesi del
movimento che va in esaurimento in questi tempi, si deve richiamare il contesto
emotivo e sentimentale determinato dalla sconfitta della prassi militante, in
uno con la perdita di fiducia nella possibilità di un ‘Altro’ dall’Occidente
trionfante, che ha trascinato con sé negli ultimi quaranta anni, e via via in
forme sempre nuove – tuttavia identiche -, ogni prospettiva di mondo che non
fosse imperniata sul capitalismo trionfante con le sue appendici consumistiche
ed il suo vuoto interno. In vece di tale prospettiva, sempre più concepita come
vuota utopia, sono stati prodotti sostituti sempre diversi, tra questi: il
‘fascismo in assenza di fascismo’ denunciato da Costanzo Preve; le altre e
sempre diverse forme di guerra civile simulata, tutte le ‘cultural war’ che
almeno dagli anni Novanta, partendo dai Campus americani, si sono spinte in
ogni luogo; i rituali scontri, esibiti e spettacolarizzati, tra le Destre e
Sinistre politiche; più di recente e crescentemente, le costanti, ripetute ed
ossessive, tempeste che su ogni tema sono prodotte ed amplificate nel nuovo
ambiente sociale artificiale e controllatissimo del social; in generale ogni e
diverso intrattenimento che spinge alla formazione di soggettività sempre più
mobili, fragili, istantanee, cangianti. Tutta alimentazione di quella che un
recente libro di Richard Sennett chiama “la società del palcoscenico”[1].
Tutte
queste ‘guerre’ sono intrattenimenti e distrazioni. Lo stesso, costantemente
ripetuto, concetto di “nemico principale” diventa in questo contesto un
intrattenimento che produce polarizzazioni e soggettivazioni reattive e
sostanzialmente eterodirette. Finiamo, tutti, per diventare come cavie nel labirinto,
mosse da esche sempre ripetute e insieme vittime ed alimento del “Capitalismo
della sorveglianza”[2].
Vorrei partire da una diversa ipotesi: il ‘nemico principale’ non è la Sinistra,
non è la Destra; non è neppure il ‘politicamente corretto’ o la ‘reazione’; non
la ‘finanza’; neppure il ‘complottismo’ o il ‘mainstream’ (qualunque cosa
queste due etichette-omnibus significhino); non lo è nessuna delle continue
etichette che l’ambiente dei media, soprattutto distribuiti e determinati dagli
algoritmi delle prime cinque società del mondo (che non sono finanziarie),
costantemente producono e sorvegliano. Nessuna esca messa davanti ai nostri
nasi nel labirinto.
Il
fatto è che mentre combattiamo con ardore le nostre guerre culturali, nel
nostro Occidente impegnato a guardarsi ossessivamente l’ombelico, il mondo
stesso, il grande mondo, cambia. Non sono le “cultural war”, le lotte tra
femminismi e Lgbt, quelle tra entrambi e i neoconservatori di qualsiasi
orientamento, non quelle tra ‘no border’ e ‘sovranisti’, a contare. Tutte
queste, nella loro pur seria conformazione, sono oggi, nella sostanza,
intrattenimento. Designarsi reciprocamente come ‘nemici’ su questi temi fa solo
il gioco della stabilizzazione del mondo che comunque va avanti a determinarsi.
E’ anche un gioco specifico della società occidentale.
Anche
perché sono aggregazioni di nuvole di senso continuamente riaggregate intorno
nuovi significanti vuoti di cui sembra esserci cataloghi infiniti. Di cui ci
sono continue riproposizioni e provocazioni sempre più creative. Nel contesto
di personalità ‘disincarnate’ (alla Sandel) o ‘liquide’ (alla Bauman)
queste nuvole di vapore si aggregano e disperdono continuamente. Con questa
materia non fai nulla. Anzi direi che si intravede una tecnica di governo
del vuoto.
È
il momento, insomma, di aggiornare l’analisi concreta. Guardando fermamente
a ciò che in questo momento è ‘il concreto’. In altre parole, è il momento di
tornare alla durezza di un’analisi che sta alle cose, ai fatti. Mentre,
infatti, ci intratteniamo alle guerre simulate, mentre formiamo sempre nuove
soggettività fluide e intrinsecamente fragili. Mentre giochiamo a definire
sempre nuovi ‘significanti’ (più o meno vuoti[3]), o mentre ci attardiamo a
denunciare il ‘fascismo’ in ogni postura che odiamo o il ‘fascismo in assenza
di fascismo’[4],
o cerchiamo di capire chi è il ‘nemico principale’[5], proprio ora, la postura
neocoloniale e la guerra tra neoblocchi, contemporaneamente di potenza e di
civilizzazione, si affaccia prepotentemente sulla scena del mondo. Si affaccia
e pretende la mobilitazione totale contro l’Altro, del quale si nega in
effetti la stessa esistenza come tale. Mobilitazione che oblia l’intera storia
di scambi, arricchimenti reciproci, densa presenza, per richiedere solo
l’ossessiva affermazione di sé come ‘eletto’; legittimato alla completa
distruzione, fisica e morale di chi non riconosce l’altura morale sulla quale
pretendiamo essere.
Ecco
ciò che determina il mondo nel quale ci capita vivere, e nel quale potremmo
morire. Questo il ‘concreto’, questa la durezza.
Il
concreto è la guerra, intesa per ora almeno qui (ma come noto non ovunque) come
mobilitazione totale, morale e materiale; ma anche, e perciò, come tradimento
dell'ethos degli occidenti a cui crediamo e teniamo, in favore dell'oscuro che
è in essi. Il punto è che concentrarsi su questo concreto significa anche non
farci distrarre dalle 'cultural war' che sono parte integrante della
mobilitazione di guerra e, al contempo, distrazione dal suo vero senso (che non
è culturale, quanto materiale). Vorrei invitare a considerare che i nostri
amati maestri (da Laclau a Preve) erano biograficamente attivi nella fase di
ascesa di questa mobilitazione e ancora non si era definita con questa
durezza. La mobilitazione era ai suoi preamboli, per così dire.
Bisogna
dunque svegliarsi; uscire dalle ‘cultural war’ che ci intrattengono (ovvero ci
trattengono incorporandoci) e unire le forze. Non ci sono ‘nemici principali’
di tipo filosofico o culturale, malgrado la preziosa lezione di molti
coraggiosi maestri che non sono più tra noi e hanno vissuto con intensità e
generosità il loro tempo, oggi il problema è un altro. Non ci possono più
aiutare perché erano attivi nella fase di ascesa di questa mobilitazione e
ancora non si era definita con questa durezza. Se vogliamo onorarli, come
per Marx, bisogna comprenderli nel loro tempo. Un tempo segnato dalla crisi
terminale del marxismo degli anni Novanta e della fase ascendente e trionfante
del imperialismo/liberismo Occidentale (americano, principalmente). Una fase
nella quale potevano sembrare le classi dominanti contemporaneamente “post-borghesi”[6] e “unite nell’essenziale”;
quando sembrava che la chiusura totale lasciasse solo spazio alla lotta
culturale, e filosofica. Oppure, con Laclau, alla tattica imperniata sulla
comunicazione politico-populista. Di questi maestri bisogna comprendere la
traccia, per evitare che siano catturati entro le dinamiche “morbose” del
presente (nel quale qualcosa tramonta, ma non si vede ancora l’alba), uscendo
da tutti i cascami del pensiero della sconfitta per oltrepassarli e renderli
utili al presente. In una situazione radicalmente mutata, ed in accelerazione a
vista d’occhio, nella quale il nichilismo che sembrava destino, forse finirà
per apparire interludio.
Quando
è l’Occidente che ha smarrito se stesso e sta andando alla guerra.
[1]
- Richard Sennett, La società del palcoscenico, Feltrinelli, Milano 2024.
[2]
- Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, Luiss, Roma 2019.
[3]
- Il riferimento è all’analisi di Laclau. Se pure acuta e perspicace e ricca di
intuizioni preziose, figlia dei tempi trascorsi e quindi da superare
(ovviamente incorporandola).
[4]
- Il riferimento è alla nota formula di Preve. Acuta e perspicace, ma connessa
ad anni che sono passati (se mai alcune forme di ‘fascismo’ oggi si possono
intravedere, anche se non tutte, forse nessuna, nelle ossessioni della
sinistra).
[5]
- Con l’antropomorfizzazione che la formula trascina quasi inevitabilmente con
sé.
[6]
- Non è sempre facile comprendere esattamente cosa Preve intendesse con una
formula sintetica come “post-borghesi” e “post-proletarie”, se non un altro
modo di ribadire l’analisi sociologica e politologica dei Dahrendorf, Giddens,
Rorty, Bauman, Beck, Crouch, ma anche Habermas, Inglehart, etc. Tutti sincroni
con il fallimento del “compromesso keynesiano” che il nostro vede definitivo. L’impressione
è che, da una parte, sia una diagnosi strettamente occidentale (principalmente
europea), dall’altra che sia una sorta di fascinazione-estremizzazione del
pirotecnico spettacolo delle cosiddette “classi medie globali” che sembravano
il fenomeno emergente.
Nessun commento:
Posta un commento