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domenica 8 settembre 2024

Poche note, e provvisorie.

 

I tempi cambiano, e con essi la concreta analisi. Muovendo dalla genesi del movimento che va in esaurimento in questi tempi, si deve richiamare il contesto emotivo e sentimentale determinato dalla sconfitta della prassi militante, in uno con la perdita di fiducia nella possibilità di un ‘Altro’ dall’Occidente trionfante, che ha trascinato con sé negli ultimi quaranta anni, e via via in forme sempre nuove – tuttavia identiche -, ogni prospettiva di mondo che non fosse imperniata sul capitalismo trionfante con le sue appendici consumistiche ed il suo vuoto interno. In vece di tale prospettiva, sempre più concepita come vuota utopia, sono stati prodotti sostituti sempre diversi, tra questi: il ‘fascismo in assenza di fascismo’ denunciato da Costanzo Preve; le altre e sempre diverse forme di guerra civile simulata, tutte le ‘cultural war’ che almeno dagli anni Novanta, partendo dai Campus americani, si sono spinte in ogni luogo; i rituali scontri, esibiti e spettacolarizzati, tra le Destre e Sinistre politiche; più di recente e crescentemente, le costanti, ripetute ed ossessive, tempeste che su ogni tema sono prodotte ed amplificate nel nuovo ambiente sociale artificiale e controllatissimo del social; in generale ogni e diverso intrattenimento che spinge alla formazione di soggettività sempre più mobili, fragili, istantanee, cangianti. Tutta alimentazione di quella che un recente libro di Richard Sennett chiama “la società del palcoscenico”[1].

 


Tutte queste ‘guerre’ sono intrattenimenti e distrazioni. Lo stesso, costantemente ripetuto, concetto di “nemico principale” diventa in questo contesto un intrattenimento che produce polarizzazioni e soggettivazioni reattive e sostanzialmente eterodirette. Finiamo, tutti, per diventare come cavie nel labirinto, mosse da esche sempre ripetute e insieme vittime ed alimento del “Capitalismo della sorveglianza”[2]. Vorrei partire da una diversa ipotesi: il ‘nemico principale’ non è la Sinistra, non è la Destra; non è neppure il ‘politicamente corretto’ o la ‘reazione’; non la ‘finanza’; neppure il ‘complottismo’ o il ‘mainstream’ (qualunque cosa queste due etichette-omnibus significhino); non lo è nessuna delle continue etichette che l’ambiente dei media, soprattutto distribuiti e determinati dagli algoritmi delle prime cinque società del mondo (che non sono finanziarie), costantemente producono e sorvegliano. Nessuna esca messa davanti ai nostri nasi nel labirinto.

Il fatto è che mentre combattiamo con ardore le nostre guerre culturali, nel nostro Occidente impegnato a guardarsi ossessivamente l’ombelico, il mondo stesso, il grande mondo, cambia. Non sono le “cultural war”, le lotte tra femminismi e Lgbt, quelle tra entrambi e i neoconservatori di qualsiasi orientamento, non quelle tra ‘no border’ e ‘sovranisti’, a contare. Tutte queste, nella loro pur seria conformazione, sono oggi, nella sostanza, intrattenimento. Designarsi reciprocamente come ‘nemici’ su questi temi fa solo il gioco della stabilizzazione del mondo che comunque va avanti a determinarsi. E’ anche un gioco specifico della società occidentale.

Anche perché sono aggregazioni di nuvole di senso continuamente riaggregate intorno nuovi significanti vuoti di cui sembra esserci cataloghi infiniti. Di cui ci sono continue riproposizioni e provocazioni sempre più creative. Nel contesto di personalità ‘disincarnate’ (alla Sandel) o ‘liquide’ (alla Bauman) queste nuvole di vapore si aggregano e disperdono continuamente. Con questa materia non fai nulla. Anzi direi che si intravede una tecnica di governo del vuoto.

 

È il momento, insomma, di aggiornare l’analisi concreta. Guardando fermamente a ciò che in questo momento è ‘il concreto’. In altre parole, è il momento di tornare alla durezza di un’analisi che sta alle cose, ai fatti. Mentre, infatti, ci intratteniamo alle guerre simulate, mentre formiamo sempre nuove soggettività fluide e intrinsecamente fragili. Mentre giochiamo a definire sempre nuovi ‘significanti’ (più o meno vuoti[3]), o mentre ci attardiamo a denunciare il ‘fascismo’ in ogni postura che odiamo o il ‘fascismo in assenza di fascismo’[4], o cerchiamo di capire chi è il ‘nemico principale’[5], proprio ora, la postura neocoloniale e la guerra tra neoblocchi, contemporaneamente di potenza e di civilizzazione, si affaccia prepotentemente sulla scena del mondo. Si affaccia e pretende la mobilitazione totale contro l’Altro, del quale si nega in effetti la stessa esistenza come tale. Mobilitazione che oblia l’intera storia di scambi, arricchimenti reciproci, densa presenza, per richiedere solo l’ossessiva affermazione di sé come ‘eletto’; legittimato alla completa distruzione, fisica e morale di chi non riconosce l’altura morale sulla quale pretendiamo essere.

 

Ecco ciò che determina il mondo nel quale ci capita vivere, e nel quale potremmo morire. Questo il ‘concreto’, questa la durezza.

 

Il concreto è la guerra, intesa per ora almeno qui (ma come noto non ovunque) come mobilitazione totale, morale e materiale; ma anche, e perciò, come tradimento dell'ethos degli occidenti a cui crediamo e teniamo, in favore dell'oscuro che è in essi. Il punto è che concentrarsi su questo concreto significa anche non farci distrarre dalle 'cultural war' che sono parte integrante della mobilitazione di guerra e, al contempo, distrazione dal suo vero senso (che non è culturale, quanto materiale). Vorrei invitare a considerare che i nostri amati maestri (da Laclau a Preve) erano biograficamente attivi nella fase di ascesa di questa mobilitazione e ancora non si era definita con questa durezza. La mobilitazione era ai suoi preamboli, per così dire.

 

Bisogna dunque svegliarsi; uscire dalle ‘cultural war’ che ci intrattengono (ovvero ci trattengono incorporandoci) e unire le forze. Non ci sono ‘nemici principali’ di tipo filosofico o culturale, malgrado la preziosa lezione di molti coraggiosi maestri che non sono più tra noi e hanno vissuto con intensità e generosità il loro tempo, oggi il problema è un altro. Non ci possono più aiutare perché erano attivi nella fase di ascesa di questa mobilitazione e ancora non si era definita con questa durezza. Se vogliamo onorarli, come per Marx, bisogna comprenderli nel loro tempo. Un tempo segnato dalla crisi terminale del marxismo degli anni Novanta e della fase ascendente e trionfante del imperialismo/liberismo Occidentale (americano, principalmente). Una fase nella quale potevano sembrare le classi dominanti contemporaneamente “post-borghesi”[6] e “unite nell’essenziale”; quando sembrava che la chiusura totale lasciasse solo spazio alla lotta culturale, e filosofica. Oppure, con Laclau, alla tattica imperniata sulla comunicazione politico-populista. Di questi maestri bisogna comprendere la traccia, per evitare che siano catturati entro le dinamiche “morbose” del presente (nel quale qualcosa tramonta, ma non si vede ancora l’alba), uscendo da tutti i cascami del pensiero della sconfitta per oltrepassarli e renderli utili al presente. In una situazione radicalmente mutata, ed in accelerazione a vista d’occhio, nella quale il nichilismo che sembrava destino, forse finirà per apparire interludio.

 

Quando è l’Occidente che ha smarrito se stesso e sta andando alla guerra.



[1] - Richard Sennett, La società del palcoscenico, Feltrinelli, Milano 2024.

[2] - Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, Luiss, Roma 2019.

[3] - Il riferimento è all’analisi di Laclau. Se pure acuta e perspicace e ricca di intuizioni preziose, figlia dei tempi trascorsi e quindi da superare (ovviamente incorporandola).

[4] - Il riferimento è alla nota formula di Preve. Acuta e perspicace, ma connessa ad anni che sono passati (se mai alcune forme di ‘fascismo’ oggi si possono intravedere, anche se non tutte, forse nessuna, nelle ossessioni della sinistra).

[5] - Con l’antropomorfizzazione che la formula trascina quasi inevitabilmente con sé.

[6] - Non è sempre facile comprendere esattamente cosa Preve intendesse con una formula sintetica come “post-borghesi” e “post-proletarie”, se non un altro modo di ribadire l’analisi sociologica e politologica dei Dahrendorf, Giddens, Rorty, Bauman, Beck, Crouch, ma anche Habermas, Inglehart, etc. Tutti sincroni con il fallimento del “compromesso keynesiano” che il nostro vede definitivo. L’impressione è che, da una parte, sia una diagnosi strettamente occidentale (principalmente europea), dall’altra che sia una sorta di fascinazione-estremizzazione del pirotecnico spettacolo delle cosiddette “classi medie globali” che sembravano il fenomeno emergente.

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