A quaranta anni di età, nel 1909, Gandhi scrisse un piccolo libro[1] al quale era molto affezionato e che fu anche inviato al grande Lev Tolstoj[2] ottenendone un vivo apprezzamento. Secondo il russo il tema che lo scrittore indiano vi affrontava era quello della “resistenza passiva”; tema “della massima importanza non solo per l’India, ma per l’intera umanità” (dalla lettera di Tolstoj del 1910[3]).
In effetti Gandhi aveva avviato da tre anni la sua prima grande
campagna satyagraha di disobbedienza civile.
Ma il libro è molto di più, e in effetti è molto più difficile da
digerire. In sostanza è completamente indigeribile per la nostra sensibilità
modernista e intrisa di cultura del progresso. Anche se ci sono delle letture
non testuali che possono renderla meno ostile; Gandhi, ad esempio, nel 1939,
risponderà ad uno dei suoi numerosi critici che “non intende proporre il
ritorno ai cosiddetti tempi bui dell’ignoranza, ma [il mio scritto] è un
tentativo di vedere la bellezza nella semplicità volontaria, nella povertà e
nella lentezza. Vi ho descritto quello che è il mio ideale”[4].
Ci sono scrittori contemporanei, come Vandana Shiva[5]
che sono completamente incomprensibili senza questa tradizione. Ma forse anche
Ivan Illich[6].
In effetti non si riesce a comprendere quella particolare forma di
religiosità nella prassi trasformativa rivoluzionaria, che segue una strana
lebile traccia, probabilmente ancorandosi in più antichi modelli cinici
(indimenticabile l’analisi che ne fa Foucault, ad esempio in Il coraggio
della verità[7]),
passa per la grande figura di Lev Tostoj, recuperando la lezione
di Mazzini, e poi riemerge appunto in Ellul, Illich, Shiva.
La dura posizione di Gandhi, in Hind Swaraj, contesta
alla civiltà moderna nel suo insieme di aver dimenticato ed ignorato il
dharma e con ciò di essersi squilibrata verso la materialità, scindendo i
fini spirituali dai mezzi materiali della vita. Ciò rende necessaria una
nuova scienza morale che curi questa frattura, ristabilisca una nuova
razionalità e un rapporto corretto tra mezzi e fini. Si tratta di
richiamare il swaraj (“autocontrollo” e “autogoverno” insieme),
dunque dominio di sé insieme a libertà politica. Rispetto a
visioni religiose più abituali, ad esempio quella cristiana, in Gandhi c’è
questa enfasi sull’azione, sulla purificazione attraverso l’azione politica,
che lo collega con la tradizione citata (si noti, specificamente occidentale).
Ci sono specifici motivi mazziniani come l’etica del sacrificio, e la priorità
dei doveri sui diritti, che si innestano quindi su una forma di religiosità
eminentemente politica anche questa in sintonia con il grande rivoluzionario
italiano. Nel 1859 Giuseppe Mazzini scrive un breve opuscolo Dei doveri dell’uomo[8],
nel quale viene proposta abbastanza esplicitamente una politica inteclassista,
volta a modificare ed innovare le classi svantaggiate gradualmente, passo a
passo e mentre si educano alla libertà nel quadro di un sistema ordinato di
valori. Nel testo ricorrono Dio 235 volte, Patria 112 volte, Nazione, 53 volte,
Famiglia 68 volte e Popolo 72 volte. Questo testo è una sorta di snodo,
da una parte ribadisce un’agenda nella quale la Nazione assurge a compito
centrale, anche a spese di qualsiasi altra priorità (incluse le istanze sociali
che altri compagni di lotta, come Pisacane, o il vecchio amico/nemico
Buonarroti, giudicavano almeno pari o prevalenti), dall’altra avvia
un’enfasi sulla funzione trasformativa della religione che sarà ripresa ed
enfatizzata da grandi figure come Tolstoj e, appunto, successivamente
Gandhi. Mazzini parla di ‘doveri’ e non di ‘diritti’ (il tema che più
colpirà Gandhi) perché occorre promuoversi attraverso la virtù, il
miglioramento morale, l’educazione e “non il ben essere materiale”.
I diritti (che esistono, come quello al ben essere) devono essere
sottoposti ad un principio superiore, perché dal loro scontro non derivi la
sopraffazione del più debole. Gli uomini dei diritti, invece, una
volta che hanno ottenuto il loro personale risultato, dice Mazzini, dimenticano
tutto e si adagiano in essi (questa accusa rivolgerà contro Crispi qualche anno
dopo), ad essi “la conquista dei loro diritti individuali, togliendo ogni
stimolo, basta perché s’arrestino”, gli uomini dei doveri (per la “Patria, la
società, la moltitudine dei fratelli”) non s’arresteranno mai, “qui in terra
che colla vita”.
Un tema centrale, che ritroveremo trasfigurato, è nel forte
richiamo al vero fine. Gli interessi materiali contano, ma come mezzi, mai
come fine. Infatti “i miglioramenti materiali sono essenziali, e noi
combatteremo per conquistarceli; ma non perché importi unicamente agli uomini
d’essere ben nutriti e alloggiati, bensì perché la coscienza della vostra
dignità, e il vostro sviluppo morale non possono venirvi finché vi state
com’oggi, in un continuo duello con la miseria”. Quindi va cercato il ben
essere, ma come mezzo, “per senso del dovere, non unicamente come diritto;
per farvi migliori, non unicamente per farvi materialmente felici”
(p.34). Farsi migliori è lo scopo della vita per Mazzini.
È in Dio, infatti, non nel benessere materiale o in una
astratta eguaglianza, che poggia il dovere comune, è qui che un paese potrà
trovare le indispensabili “credenze comuni” e fare della terra il “luogo del
nostro lavoro per il fine di miglioramento, del nostro sviluppo verso un grado
di esistenza superiore”. I doveri sono quindi verso Dio, verso l’umanità
(che è “un corpo solo”); verso la Patria. Questa ultima non è un territorio, ma
“l’idea che sorge su quello”. Seguono i doveri verso la famiglia[9] e
verso se stessi (per ultimi). In questa accezione, in questo intreccio di doveri
trova posto, e solo qui, il progresso, legge della vita connessa con la
libertà, ma solo nella misura in cui è necessaria per compierli, i doveri.
Abbiamo fatto una deviazione nella lettura di un testo che precede
di cinquanta anni Hind Swaraj, e viene scritto in un contesto del tutto
diverso, in un contesto non coloniale, perché parte della sua ispirazione
ricorre in Gandhi (che peraltro lo cita espressamente).
Quale è il punto in cui precipita tutto ciò? Alla fine nell’ideale
della vita rurale decentrata, per piccoli gruppi autosufficienti,
che il nostro ritrova in Carpenter (un autore inglese dell’inizio del secolo),
ma anche in Rousseau, Thoureau e Emerson (ad esempio, La semplice verità,
citati, insieme a Ruskin, nella prefazione) che si articola in alcune semplici
posizioni: “l’uomo dovrebbe limitarsi a soddisfare i suoi bisogni
fondamentali e diventare autosufficiente. Se non si acquisisce tale controllo
non ci si può salvare” (lettera a Nerhu, 1945). Oppure, poco dopo, “l’uomo
non è nato per vivere isolato, ma è essenzialmente un animale indipendente e
intraprendente. Nessuno può o dovrebbe montare sulle spalle di un altro. Se
cerchiamo di costruire le condizioni necessarie per una tale vita, noi siamo
obbligati alla conclusione che l’unità della società dovrebbe essere un
villaggio, o chiamarlo un piccolo e maneggevole gruppo di persone che vorrebbe,
secondo l’ideale, essere auto-sufficiente in rapporto ai propri bisogni
fondamentali, come un’unità tenuta insieme da legami di mutua cooperazione e
interdipendenza” (lettera a Nerhu, 12 dicembre 1945).
Naturalmente un simile “villaggio” non è fisico, è un luogo
della mente, un “villaggio dei sogni” nel quale “abiteranno esseri umani
intelligenti, liberi e capaci di difendersi”, … un luogo in cui “nessuno
sarà disoccupato e nessuno vivrà nel lusso”, in cui “tutti dovranno
contribuire con la propria parte di lavoro manuale”. Vivere di quello che
Mazzini chiamava il lavoro associato, nel quale il futuro sociale fosse fatto
del riparto dei suoi frutti in proporzione al lavoro compiuto da “liberi
produttori” e fratelli.
Un ideale di tipo dunque comunitario e comunistico.
Un “luogo” in cui la ragione, l’intelligenza, possa andare insieme
alla più completa assenza di violenza e sopraffazione. Per questo Gandhi
chiarisce[10]
che lo scopo della liberazione dagli inglesi dell’India non è di avere la
ricchezza che questi sottraggono, ma liberarsi dello spirito
dell’occidente. Cosa che include anche la forma di governo, in cui il
Parlamento “è come una prostituta”, perché soggetto a politici che cambiano
ogni volta. Esso è “solo un costoso giocattolo per la nazione”, che dovrebbe
essere affidata invece a “pochi uomini saggi”.
Certo, queste parole sono state scritte nelle colonie (a Ioannesburg)
e nel 1909. Ma esprimono uno spirito rigorosamente antiliberale. Gandhi cerca
“un vero capo”, ma credo intenda uno spirito guida, fermo e religioso, l’ancòra
ad un ideale permanente che possa guidare la nazione verso fini più alti e
stabili. Verso un movimento “regolare”. In questi anni in cui lo scontro tra
principi di governo liberali (e quindi anche individualisti) e principi di
organizzazione comunitari e teocratici (o comunitari e laici, nella versione
orientale) si riaccende.
Invece a cosa porta il modo di vita e governo inglese? A fare
“del benessere materiale lo scopo della vita”, per vivere in case, vestirsi
meglio e disporre di strumenti più potenti. Un giorno, scrive Gandhi, “tutto
sarà fatto da macchinari”, e allora premendo bottoni si potrà avere ogni cosa,
ma ciò indebolirà l’uomo, fisicamente e moralmente. Una civiltà che “non tiene
in alcun conto né la morale, né la religione” appare infatti a Gandhi vana e
vuota. Una civiltà che “è irreligione”. In cui “mancano la vera forza fisica e
il coraggio”. Una società che è preda di una “malattia” contagiosa che sta
contagiando la stessa India. Questo spirito corruttivo si diffonde attraverso
le ferrovie, gli avvocati, i medici stessi. Le prime inducono maggiori
movimenti, continui e vani pellegrinaggi, diffusione di malattie, promiscuità.
Esse “propagano il male”. “E’ nella natura dell’uomo la necessità di limitare i
suoi movimenti fin dove glielo permettono mani e piedi”[11];
in altre parole questa limitazione motoria naturale deriva da Dio, che “ha
posto un limite all’ambizione motoria”. Cosa succede quindi se l’uomo abusa di
questo dono e viene in contatto con differenti nature, o religioni? Che ne
resta confuso. L’attacco alle istituzioni della modernità continua con avvocati
(che istigano le liti) e medici che ci fanno diventare deboli ed effeminati.
Nel capitolo XV viene ricordata espressamente la citata azione di
Mazzini e di Garibaldi, che vengono definiti uomini ammirevoli dai quali si può
apprendere molto. Come detto, del primo viene richiamata la lezione sul dovere
dell’uomo[12];
egli “ha mostrato nei suoi scritti sul dovere dell’uomo, che ogni uomo deve
imparare come governare sé stesso”. Mentre la strada del secondo, le armi, hanno
portato a cambiare solo servitù. Dunque, non bisogna seguirne in questo
l’esempio, l’India si deve liberare dell’europeizzazione e non degli
inglesi in quanto tali.
Questa pagina chiarisce completamente il senso della lotta non
violenta che è diverso da quel che normalmente si comprende. Il punto è che la
lotta violenta presuppone l’uso di tecnostrutture e meccanismi e quindi
l’adozione di una civiltà industrializzata, con le sue parole: “l’India può
combattere come l’Italia solo disponendo di armi. Gli inglesi sono
splendidamente armati; non che questo mi spaventi, ma è chiaro che, per opporci
a loro con le armi, milioni di indiani devono essere armati. Se fosse possibile,
quanti anni ci vorranno? Inoltre, armare l’India su larga scala vuol dire
europeizzarla. La sua condizione diventerà, allora, pietosa quanto quella dell’Europa.
Questo significa, in breve, che l’India dovrebbe accettare la civiltà europea” [13].
All’obiezione, che si può vincere anche con la guerriglia ed il
terrore, Gandhi oppone il suo fondo morale e religioso: “questo significa
dissacrare la sacra terra dell’India. Non temi al pensiero di liberare l’India
con l’assassinio? Ciò che dobbiamo fare è sacrificare noi stessi. E’ da codardi
pensare di uccidere gli altri. Chi credi di liberare uccidendo?”[14]
Escluse entrambe, la guerra ed il terrorismo, la strada è la
resistenza passiva (già proposta da Tolstoj e da Etienne de la Boétie), che è
“la forza dell’anima” ed è “invincibile”. È naturalmente superiore alla forza
delle armi. L’unica cosa che richiede è il controllo della mente, controllo
che, come chiarisce subito dopo, richiede la più perfetta castità (anche se
sposati) e povertà.
Questa resistenza si vede allargare anche alla civiltà delle
macchine (ed alla relativa istruzione); si tratta, infatti, di una civiltà che
“ha devastato l’Europa” e ora bussa alla porta dell’India. Il riferimento, è
chiaro: si tratta di denunciare le sofferenze indotte dalla rivoluzione
industriale, che ha distrutto le tradizionali produzioni artigianali diffuse e
indotto lo sradicamento dal lavoro agricolo manuale in favore del lavoro di
fabbrica. “Le macchine sono il simbolo principale della civiltà moderna;
rappresentano un grande peccato”[15]. Ciò
che bisogna fare è allora non farla crescere, e tornare al “sacro telaio a
mano” nelle diverse case (cioè la pratica del lavoro a cottimo casalingo). Promuovere
tecnologie ‘intermedie’, adatte a creare un lavoro diffuso, lento, tale da
creare un rapporto tra fine e mezzo, tra uomo e prodotto.
La cosa si estende all’intera civiltà delle macchine: “le macchine
sono come la tana di un serpente che ne può contenere da uno a cento. Dove ci
sono le macchine ci sono le grandi città; e dove ci sono le grandi città ci
sono tram e ferrovie, e solo là si può trovare la luce elettrica. … non riesco
a trovare una sola nota positiva connessa alle macchine”[16].
Il punto sollevato non è, bisogna fare attenzione, che le
macchine siano in sé male, ma è che lo sia l’effetto di concentrazione di
potenza e di emarginazione che possono implicare nel loro uso.
Riprendendo un intervento di qualche anno successivo (del 1924) si legge: “mi
oppongo alla ‘follia’ della macchina, non alla macchina come tale. La follia
riguarda le cosiddette macchine risparmiatrici di lavoro. Gli uomini continuano
a ‘risparmiare lavoro’ fino a che migliaia di individui rimangono senza lavoro
e sono gettati sulle pubbliche strade a morire di fame. Voglio economizzare
tempo e lavoro non per una frazione dell’umanità. ma per tutti; voglio
l’accentramento dei beni non nelle mani di pochi, ma nelle mani di tutti. La
macchina oggi serve solo a far salire i pochi sulla schiena delle moltitudini.
L’impulso che sta dietro tutto questo non è risparmiare lavoro per amore degli
uomini, ma avidità […] le macchine hanno il loro posto, si sono affermate. Ma
non bisogna permettere che sostituiscano il necessario lavoro umano. Un aratro
perfezionato è una bella cosa. Ma se, per caso, un tale da solo grazie ad una
sua invenzione meccanica riuscisse ad arare tutto il terreno dell’India e
controllasse tutta la produzione agricola e se gli altri milioni di individui
non avessero altra occupazione essi sarebbero in pericolo di fame e nell’ozio,
diventerebbero dei somari, come molti sono già diventati”[17].
Il punto è quindi politico, e riguarda lo spirito del
capitalismo, la cui tensione è ad estendere lo sfruttamento e l’intensità
dell’uso delle risorse qualunque esse siano.
Nel contesto dello scontro prima con la Gran Bretagna e poi, in
una brevissima stagione, con i problemi posti dalla ottenuta indipendenza,
questa posizione non poteva che andare in urto con quella di chi aveva il
dovere di costruire la nazione nel contesto difficilissimo del dopoguerra.
Quindi con Nehru, che spingeva per una rapida industrializzazione pesante come
unica via per raggiungere l’indipendenza. L’opinione del leader politico era
che un’industrializzazione socializzata sarebbe state esente dai difetti del
capitalismo. Quella del Mahatma era diversa: i mali erano inerenti
l’industrialismo in quanto tale, e non erano eliminabili da nessuna
quantità di socialismo[18].
Dopo la guerra con la Cina del 1963 Pandit Nehru, ormai vicino
alla morte, riconobbe che la ricchezza equilibrata, data da uno sviluppo più
diffuso, e condotto con tecnologie “intermedie” a bassa meccanizzazione, come
via per la diffusione e non la concentrazione (in poche cattedrali tecniche)
poteva essere una via più saggia. Una via per portare con sé una parte maggiore
della popolazione.
Il punto per noi è che, malgrado elementi di difficile lettura
dalla nostra distanza di tempo, spazio e cultura, la posizione di Gandhi
contiene alcune importanti intuizioni: la continua ricorsa alla soddisfazione
dei desideri attraverso il benessere materiale e la produzione di cose e
simboli, è per sua natura illimitata e sempre più compulsiva, per questo non
esistono “bisogni naturali” di base, cui ancorare la felicità. Questa sfugge
sempre, come un miraggio sulle dune. Man mano che raggiungiamo un livello di
soddisfazione la macchina della produzione dei desideri ne ha già prodotto
altri, più lontani. Non è quindi lo sviluppo materiale ad essere la chiave dei
problemi economici dell’umanità (e della sua felicità). Senza che questo
implichi affatto che questo sviluppo sia da fermare, la soluzione è
nell’uomo.
Gandhi è una sorta di enigma, formatosi alla cultura
Occidentale almeno tanto quanto a quella Orientale, esterno ad entrambe[19], privo
di una teoria sistematica che definisca una società alternativa, non moderna o
non Occidentale, rifiutava di questa principalmente la cosmologia scientifica
secolare e la pratica di potere ad essa connessa. Precisamente rifiutava l’idea
che in questa si serbasse la superiorità di una cultura sulle altre. Come nei
casi migliori Gandhi è un pensatore per l’azione, un politico tanto
quanto è un mistico e un organizzatore.
Questo è un punto cruciale, che in un certo senso gli costò anche
la vita[20].
Per il Mahatma la scienza moderna galileiana non può che, per sua natura e
logica, secolarizzare aree sempre più ampie della vita. Costringendo
tutti a: separare la conoscenza dai sentimenti e dall’etica; dividere
emotivamente dagli oggetti dell’indagine. Questa critica ha qualcosa della
posizione di Michael Polanyi in La conoscenza personale,[21]
ma la soluzione di Gandhi si muoveva verso la conoscenza diffusa e popolare e
contro la ricezione brahnimica del nesso scienza-potere. Ciò significa che, in
questo con somiglianze con il suo vecchio maestro Tolstoj, insieme alla
razionalità tecnica rifiutò anche le teorie secolari della liberazione, vedendo
nella religione e nelle tradizioni gli strumenti migliori per la critica
dell’esistente e la sfida alle strutture dominanti. La religione come sospiro
dell’oppresso e cuore di un mondo privo di esso.
Ma, secondo un interprete come Ashis Nandy, egli al contempo non
era né solo un mistico che crede lo spirito assolutamente superiore alla
materia, né un romantico amante della superiorità della natura sui manufatti.
Bensì, piuttosto, un “accorto, scettico, concreto bania [mercante], sospettoso
di tutti i profeti, delle risposte finali e delle chiavi della storia, cioè di
tutti i concetti di totalmente buono e di infinitamente cattivo. Egli doveva
rigettare l’idea di una tecnologia universale, cumulativa, imperiale, che si
sviluppa secondo le leggi del progresso lineare.”[22]
Esiste probabilmente un nesso abbastanza politico tra questa
posizione, non priva di ragionevolezza, ed il contesto di aspro razzismo
coloniale nel quale si trovò ad operare. L’ideologia del “liberalismo liberale”
inglese partiva, infatti, da una classificazione gerarchica con concretissime
conseguenze sulla vita dei popoli colonizzati, implicante un giudizio
unilaterale circa il livello di “modernità” e “maturità” rispetto ad
un’implicita scala del progresso (fondato alla fine sulla tecnica e sulla
scienza); il tutto letto secondo i rigidi parametri della filosofia della
storia dell’Occidente. Un messaggio che quindi colpiva tutti i livelli della
società inglese; fondendo l'idea di superiorità storica britannica, elementi di
etica cristiana, nozioni di progresso industriale (e relativa missione),
concezioni di promozione culturale e atteggiamenti razzistici sottostanti, fusi
tutti in una nozione compatta di autorità morale e razziale da trasmettere: “la
missione civilizzatrice”.
Rifiutare questo paradigma, che aveva avuto modo di conoscere
profondamente negli anni di formazione a Londra e vedere senza veli in Sud
Africa, significava perciò disvelare il funzionamento delle tecnologie
che (ma in questo non dissimilmente da Marx), incorporavano l’uomo nella
produzione e lo rendevano fruitore passivo delle merci. La tecnologia, e la
tecnicizzazione, doveva, in altre parole, essere giudicata sia per il suo
funzionamento come per il suo significato. Per questa ragione, sia teorico
culturale, come pratico-politica, durante la sua azione politica Gandhi prestò
sempre grande attenzione alla tecnica, ed alla selezione delle tecniche più
idonee alla società come concretamente si dava (di qui la preferenza, nelle
condizioni dell’India di metà secolo, per tecnologie ‘intermedie’, come
l’arcolaio). Il problema era di non riprodurre, per il tramite della
concentrazione della ricchezza (sia essa pure socializzata, ma concentrata in
grandi agglomerati tecnici), quegli effetti di corruzione, tecnicizzazione e
secolarizzazione che erano la cifra del dominio e della povertà spirituale Occidentale.
Anche il tema, poi ripreso da autori come Illich ed Ellul, della
lotta contro il dominio degli “esperti”, aveva concretamente il significato che
l’affidamento esterno a terzi, sacerdoti della tecnica, lavora nella direzione
della perdita, ovvero la frammentazione in tanti ambiti distinti e non
comunicanti, del concetto di auto-realizzazione. Nel contesto dato è
possibile collegare anche questa critica direttamente alla pretesa
dell’Occidente di presentarsi come scientifico, tecnico, abile, responsabile e
civilizzante. E di fondare su questa pretesa il suo potere. Per cui il
colonizzato è, di converso, l’ostinato, l’inetto, il reprobo o capriccioso, il
bambino da correggere. Si collega con la ricerca di una pienezza unitaria
dell’esistenza che non passa per l’aderenza a questa o quella dimensione
tecnica, questa o quella prestazione, riconoscimento parziale, successo.
Come anche il tema della storia e del progresso, altro caposaldo
indispensabile della tecnica del dominio mentale dell’Occidente e
giustificazione della sua postura. Si tratta di un principio (quello evolutivo
e lineare) che il Mahatma rifiuta in favore della guida incerta dei miti, dei
purana (“antichità”, o testi della mitologia indù).
L’ideale era Ramarajya, il regno del mitico re-guerriero Rama,
esiliato nel deserto che, alla testa di un esercito di primitivi pastori,
combatte il re dei demoni Ravana. Ma nel mito Ravana non è completamente cattivo;
al contempo era brahmarakshasa, il più pericoloso dei rakshasa, ma civile. Educato,
istruito, di grandi capacità tecnologiche e Brahman, un chiaro senso del potere
e capace di realismo. Il demone combatte Rama perché crede nel progresso, e
questi lo combatte non perché lo considerasse il male in sé, piuttosto perché
aveva una visione più larga e migliore dei fini della vita. Della particolare
pienezza che è lo scopo della vita, se pure fatto, come per Ravana di bene e
male intrecciati.
Ravana viene rigettato, combattuto e sconfitto, conservandone il
rispetto, perché in sostanza era portatore di un disegno di persona
inaccettabile. Troppo limitato ed incompleto.
La critica di Gandhi alla cultura razzistica, e insieme ristretta
e sviata, del colonizzatore inglese (nel mito chiaramente rappresentato dal
demone Ravana), non retrocedeva semplicemente in una tradizione che,
contemporaneamente tradiva. Piuttosto avanzava verso una forma di vita politica
e post-contemporanea, eticamente orientata. Tentando di riformulare il mondo in
cui visse sia nel versante demoniaco, sia in quello eroico, cercando di
identificare esattamente il male nel rovescio del bene che veniva offerto. Egli
non era estraneo all’Occidente e non era estraneo all’India, non rinnegò
nessuno dei due a ben vedere, ma si sforzò di comprendere e mostrare (utilizzando
le risorse del pensiero Occidentale stesso, nella figura dei suoi migliori
critici) il patto che questo aveva fatto, e di cui era prigioniero.
Patto del quale era prigioniero il senso della vita e della sua
pienezza, per gli inglesi stessi. Irretiti e ubriacati dalla immane collezione
di merci del capitalismo. Dai suoi molti spiriti.
[1]
- Mahatma Gandhi, Vi spiego i mali della civiltà moderna. Hind Swaraj,
Pisa
[2]
- Conte Tolstoj che, superati i sessanta anni, divenne un potente centro di
irradiazione di una posizione deista dai forti toni anarchici, comunitari e
fortemente sospettosa verso la società industriale che si andava affacciando.
Nato nel 1828 e morto nel 1910, il grande romanziere russo attraversa la grande
crisi sociale e politica del ventennio 1848-70, che vede alla fine nascere lo
stato unitario italiano e tedesco, e sente chiaramente arrivare la tempesta del
primo ventennio del Novecento. Sotto alcuni aspetti può essere legato al
movimento anarchico (di autori come Kropotkin) e sotto altri con il naturalismo
individualista del coetaneo Thoureau (1817-1862) di dieci anni più giovane.
Attraverso queste linee (e la determinata, complessa e ramificata opera di
diffusione condotta durante tutta la sua vita) il grande russo lascia tracce
fino nella contemporanea cultura ambientalista, almeno in alcune versioni
comunitarie, antimoderniste e naturalistiche. In linea genera in molte opere
(si veda in particolare Guerra e rivoluzione, del 1905) Tolstoj si
oppone alla secolarizzazione e, nella misura in cui questa la contempla, la
modernità, la rivoluzione francese e socialista, la stessa democrazia. Incoraggia
alla ‘non obbedienza’ ed al senso del ‘dovere’ prima dei ‘diritti’ (Mazzini).
Uno dei suoi riferimenti è Etienne de la Boétie, scrittore e cortigiano
francese del Seicento, amico di Michel de la Montagne, che scrive: Se non
gli si consegna niente, se non si obbedisce affatto, senza combattere, senza
colpirli, ecco che restano nudi e sconfitti, non sono più nulla, come rinsecca
e muore il ramo che non riceve più linfa dalle radici.
[3]
- Citata in Gianni Sofri, Gandhi tra Oriente e Occidente, Sellerio,
2015.
[4]
- Citato nella prefazione, p.7
[5]
- Vandana Shiva, Il bene comune della terra, Feltrinelli, 2006 (ed or
2005).
[6]
- Ivan Illich, La convivialità, Boroli Editore, 2005; I fiumi a nord
del futuro, Quodlibet 2009 (ed. or. 2005);
[7]
- Michel Foucault, Il coraggio della verità, Feltrinelli 2009 (corso
1983).
[8]
- Giuseppe Mazzini, Dei doveri dell’uomo, in Scritti politici,
Utet Torino 1972.
[9]
- Mazzini, cit, p. 900
[10]
- Hind Swaraj, cit., p.47
[11]
- Idem, p. 64
[12]
- Giuseppe Mazzini, Dei doveri dell’uomo, cit., p. 851
[13]
- Hind Swarai, cit., p. 84
[14]
- Idem
[15]
- Hindi, cit., p. 104
[16]
- Idem, p. 106
[17]
- Postfazione, p. 123
[18]
- Posizione del 1940.
[19]
- Gli studiosi indù, accademici o religiosi, sono abbastanza concordi nel
ritenere errata la sua interpretazione dei testi della cultura indiana e
idiosincratica e non perfettamente informata la sua scelta.
[20]
- L’assassino,
Godse, rifuggiva proprio il misticismo di Gandhi, a suo parere incapace di
portare l’India lontano dalla ragione e quindi dalla via della costruzione di
uno stato moderno.
[21]
- Michael Polanyi, La conoscenza personale. Verso una filosofia post-critica,
Rusconi 1990 (ed. or. 1958).
[22]
- Ivi, p. 149
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