Scopo del testo e articolazione
Questo articolo è diviso in tre parti, di cui il presente
rappresenta la terza. Si tratta di una riflessione che attraversa e mette a confronto
due diverse forme di universalismo, riassumibili (pur con le commistioni
storiche che si sono date nel tempo) in “Occidentale” e “Orientale”. Prestando
la dovuta attenzione al carattere politico e ricostruttivo di queste due
etichette affrontare questo nodo richiede valutazioni sulla filosofia della
storia, le diverse ontologie sottostanti e antropologie filosofiche, la teoria
politica e culturale, la geopolitica e i diversi pensieri critici che nel tempo
sono stati prodotti intorno ai due centri tematici, quello marxista e quello
decoloniale. Naturalmente sullo sfondo di tutto ciò è da considerare il
conflitto ibrido in corso tra i due principali egemoni dei due campi, gli Stati
Uniti e la Cina.
L’articolo è stato redatto in vista di un dibattito dal titolo “Pianeta
Cina. Appunti per il futuro”, organizzato da L’interferenza, che si terrà a
Roma, sabato 17 maggio, a Largo dello Scoutismo 1, e vedrà la presenza in
mattinata di Fabrizio Marchi, Vladimiro Giacchè, Alessandro Volpi, e nel
pomeriggio di Giacomo Rotoli, Carlo Formenti, Andrea Catone e mio.
Nella Prima Parte abbiamo letto nella battaglia di Xi per
il “Grande ringiovanimento” della nazione cinese lo sforzo di promuovere
nel paese una “modernizzazione selettiva”, nel contesto di un crescente
confronto ideologico, culturale, economico e di potenza con l’Occidente e la
sua nazione-leader, gli Stati Uniti d’America. Scontro che prende la forma di
“guerra ibrida” senza risparmio, che ha come posta la forma che il mondo
prenderà in questo secolo.
Si tratta di agire per la conquista del cuore della modernità operando
una “decolonizzazione dell’immaginario” che lavori entro quel particolare orizzonte
universalista con modalità cinesi rappresentato dalla formula della “Comunità
umana dal futuro condiviso”. Dunque, verso l’esterno, per proporre una
nuova logica post-coloniale alle relazioni internazionali intorno a progetti
strategico-epocali come i Brics e le “vie della seta”. D’altra parte, verso l’interno,
per sconfiggere le correnti “liberali” nel Partito e nella società, e, a tal
fine, dare una prospettiva diversa della modernizzazione che contrasti il ‘soft
power’ Occidentale. Un potere che passa attraverso le sue merci glamour, le
immagini e gli stili di vita connessi. Si potrebbe dire, in base ad una
illustre tradizione ermeneutica occidentale[1],
che passa attraverso la ‘tecnica’. Senza entrare in questo complesso tema, che
richiederebbe ben altri approfondimenti, sono qui necessarie alcune glosse: la
tecnica non è un’impresa occidentale, la quale arriva quindi dall’esterno
alla società e cultura cinese, e non lo è neppure la forma di produzione
industriale (che è stata potenziata dentro un ecosistema di enorme potenza in
occidente a partire dall’Ottocento, ma aveva antesignani nel mondo orientale e
arabo, e nel Rinascimento si è sviluppata da Sud a Nord[2]); non
è neppure specificamente connessa con il capitalismo, perché se lo fosse se
ne dovrebbe concludere che questo è ubicuo e coincidente con la storia dell’umanità,
la parola perderebbe senso; ne consegue che il solo fatto di usare delle
tecniche, e ormai si dovrebbe dire essersi portati al confine della maggior
parte delle tecniche, non rende di per sé il paese occidentale e capitalista; né
le tecniche sono necessariamente incompatibili con le diverse forme dell’umano,
rappresentando unica fuga l’arte o la depense[3].
Un interessante tentativo, che esula per la complessità dei temi a questo breve
testo, è compiuto da Yuk Hui[4] ed
il suo orientamento verso il superamento della tecno-logia universale (che, in
effetti, è mera proiezione razzistica dell’Occidente) in diverse ‘cosmotecniche’,
che riapproprino le categorie metafisiche proprie di ogni cultura (come vedremo
non schermata ed esclusiva) adottando in essa la tecnologia e le sue forme.
Tornando a
Xi, in altre parole, la posta in gioco del “Grande ringiovanimento” è di
costruire una sorta di barriera selettiva alla modernità occidentale nel
quadro di una guerra “ibrida” che segnerà il destino del secolo. Ma si tratta
anche di innestare nel corpo del marxismo di matrice occidentale uno spirito
‘confuciano’ che per molti versi gli è profondamente alieno. Interpretare, quindi, lo spirito dialettico-materialista
dell’hegelo-marxismo con elementi relazionali ed armonici che sono
profondamente alieni alla logica del conflitto.
Nella Seconda Parte abbiamo messo a confronto un abbozzo
della logica dell’universalismo ‘verticale’, quindi anche gerarchica, lineare e
conflittuale, dell’Occidentale, su cui torneremo più specificamente in questa
Terza Parte, e la logica ‘orizzontale’ e relazionale della Tianxia che
contraddistingue l’universalismo sui generis cinese. In effetti nella lingua
italiana si dovrebbe piuttosto parlare di cosmo, o di spazio della
compresenza nella differenza. L’universalità riconduce necessariamente la
molteplicità al dominio dell’Uno: sia nella forma cristiana della “via di
salvezza” per l’intera umanità, alla quale ogni soggettività è chiamata a
conformarsi, sia nella sua secolarizzazione moderna, incarnata nella “ricetta”
liberale e progressiva del mondo unico del mercato (o dell’impero delle merci).
L’orizzonte del tianxia riconosce la legittimità di una pluralità
non riducibile di tempi incarnati e trasformazioni, soggettività relazionali,
dialogo tra mondi, pratiche e civiltà, forme di verità inscritte nei viventi
concreti e spinta all’armonia. Non si tratta, quindi, di imporre (o
riconoscere) un telos al mondo, quanto far risuonare tra di loro i molteplici
ordini fattualmente esistenti e aprire lo spazio per la loro co-esistenza
creativa. Al posto dell’aufhebung (che nega, conserva e supera) mette la
hua (trasformazione graduale) e il ganying (risonanza). L’universo
comanda dall’alto; il cosmo risuona dall’interno. Se vogliamo provare ad
esplorare i limiti del linguaggio si potrebbe confrontare, non già opporre, ad
un universalismo dell’Uno, occidentale, un cosmocentrismo della relazione e
risonanza, orientale. Due ordini diversi della normatività e della gerarchia,
modi diversi di pensare l’unità nella molteplicità.
In questa Terza Parte approfondiremo il confronto tra le
concezioni di storia e universalismo proprie dell’Occidente moderno e quelle
emergenti da altre tradizioni, tenendo al centro quella cinese ed accennando
solo, nell’economia di questo testo, ad altre che occorrerà riprendere altrove.
L’universalismo occidentale, forgiato nella sua forma classica nel
crogiolo dell’idealismo tedesco e del marxismo (ma anche del liberalesimo
anglosassone), si fonda su una filosofia della storia chiaramente escatologica.
Il movimento della libertà, e della ragione, si dispiega in modo necessario,
cumulativo, ed orientato verso un telos finale. Questa concezione, se da un
lato, quando è stata presa sul serio ha alimentato lotte emancipative fornendo
un punto di vista ideale, dall’altro, e principalmente, ha giustificato pratiche
imperialiste e colonizzatrici, proiettando l'Occidente come unico soggetto
legittimo della Storia universale. Si è trattato, comunque, di uno strumento
per il potere (o il contropotere).
Questa tensione interna tra emancipazione e dominio è una
contraddizione reale, ma contiene anche il rischio di saturare ogni
alternativa. Ovvero di naturalizzare l’universalismo occidentale come unica
forma possibile, impedendo il riconoscimento di altre genealogie storiche e
culturali. O, in altre parole, di altre “logiche della liberazione”. Oppure, in
altri termini, di altre “cosmotecniche” o “cosmologie”.
È quindi necessario, e lo faremo in questa Parte, esplorare la
possibilità di concepire una cosmologia plurale:
-
non imposta come modello unico,
-
non frammentata in relativismi statici e reciprocamente
rivendicativi o schermati,
-
ma emergente dal dialogo tra mondi, tempi e soggettività storiche
diverse.
In quest’ottica, il pensiero cinese del Tianxia, insieme ad altre
tradizioni del Sud globale (andina, africana, islamica), suggerisce modelli di
coesistenza e trasformazione che superano la dialettica egemonica della
Aufhebung occidentale, senza negare la possibilità stessa di un comune
orizzonte di liberazione. La sfida, dunque, non è ripudiare l’universalismo
come tale, ma reinventarlo come apertura relazionale, come tensione incompiuta
tra differenze, come memoria viva delle lotte e dei mondi negati. Come scoperta
ed invenzione.
Procederemo in questo modo:
-
in una prima sezione espliciteremo ancora una volta le implicazioni dei diversi
modelli, in una chiave più esplicitamente geopolitica;
-
in una seconda, torneremo sul nodo cruciale, anche per la stabilità interna del
progetto di Xi di un ‘marxismo sinizzato’, sul tema della contraddizione tra
dominio e liberazione nella modernità Occidentale che rischia di rimanere
invischiato nel ‘provvidenzialismo’ della tradizione cristiana, e in elementi
di determinismo ed evoluzionismo profondamente connessi con la storia del
continente europeo;
-
infine, la conclusione la spenderemo nella ricerca di una sorta di via mediana, che si
ritrae da ogni astrazione cercando al contempo di riconoscere le diverse
traiettorie culturali senza reificarle e quindi si sforza di creare le premesse
per disimplicare in esse quelle premesse di libertà e liberazione che sono
presenti. Ciò che va compreso ed accettato è che non
esistono valori, principi e culture universali, se non per effetto di una
decisione, di un’imposizione. Che la creazione di unità e universalità è sempre
potere. Un’imposizione in primo luogo, interna, volta a ridurre la pluralità e
la storia dei conflitti che sono stati dati. Si tratta, in altre parole, di
divenire coscienti della differenza incolmabile, per tutti, tra interpretazione
e verità, ma anche della necessità di coltivare la tensione a percorrere il
cammino della sua ricerca. Di ricostruire cosmi internamente plurali ma densi
di senso. Comprendere, infine, che la ricerca stessa è possibile solo nel
decentramento e solo se si coltiva lo stupore curioso per l’apertura
all’altro da sé, possibile solo perché anche il sé è un altro. Un
altro da scoprire.
Alcune implicazioni nel confronto tra modelli geopolitici
Per iniziare
si può ricordare il discorso alla sessione plenaria del Forum economico internazionale
di San Pietroburgo[5] nel
quale Xi ha sottolineato che un autentico multilateralismo significa
“rispettare e sostenere tutti i paesi nell'intraprendere un percorso di
sviluppo adatto alle loro condizioni nazionali”. È questa mossa che crea un
“ambiente favorevole allo sviluppo” di tutti e aiuta a “costruire un'economia
mondiale aperta”. Per farlo il Presidente cinese propone, riecheggiando i toni
che Zhou Enlai nel 1955 propose a Bandung[6], di
“rafforzare la rappresentanza e la voce dei paesi dei mercati emergenti e dei
paesi in via di sviluppo nella governance economica mondiale” (ovvero
sostituire al G7 un modello di cooperazione alternativo) e promuovere
“equilibrio, sviluppo coordinato e inclusivo”. Il concetto di “sviluppo
coordinato” (促进全球平衡) è uno dei due concetti chiave (in
quanto dal contesto si comprende trattarsi di sviluppo orizzontale e sul piano
di complementarità ed equilibrio). Quindi si tratta, concretamente, di
rafforzare la cooperazione Nord-Sud, e Sud-Sud, mettere in comune le risorse in
cooperazione, garantire reti e piattaforme per lo sviluppo, aumentare
l'assistenza allo sviluppo, formare sinergie e colmare i divari. In terzo
luogo, promuovere la globalizzazione economica (推动经济全球化进程), ma
attraverso la “connessione morbida” (l'altro concetto-chiave, Ruǎn lián 软 联) delle politiche di sviluppo; quindi la condivisione
di regole e standard internazionali (lo strumento principe del dominio
occidentale, grazie al fermo controllo degli organismi di standardizzazione);
l’abbandono del disaccoppiamento, dei tagli all'offerta, delle sanzioni
unilaterali, le barriere e pressioni; per mantenere la stabilità delle catene
industriali (la cui interruzione provoca una crescente inflazione in
occidente), e lavorare insieme per la crisi alimentare ed energetica. Infine,
per aderire all'innovazione guidata, sfruttare il potenziale dell'innovazione e
della crescita, approfondire gli scambi scientifici, condividere i risultati.
La Cina,
ha concluso Xi, è disposta su queste basi a collaborare con i paesi di
tutto il mondo, inclusa la Russia e gli Usa, per creare insieme prospettive di
sviluppo, condividere opportunità di crescita e dare contributi
all'approfondimento della cooperazione allo sviluppo globale ed alla promozione
di quella che chiama “una comunità con un futuro condiviso per l'umanità”.
Attraverso questi toni la Cina, ma in linea con una lunga tradizione del ‘paese
di mezzo’ (chung-kuo), cerca di qualificarsi come centro immobile del mondo,
come difensore e costruttore dell’ordine internazionale (concepito
implicitamente nella forma della relazione con il ‘cielo’). Per essa aderire al
multilateralismo significa mantenere una “stabilità strategica globale”, e
fornire attivamente beni pubblici internazionali[7].
Ciò che
rende per noi difficile comprendere questo modo di dire, e ce lo fa
interpretare come semplice inautenticità e retorica vuota, è, come abbiamo
visto nella Prima e Seconda parte, la forma di universalismo astratto che è
profondamente connotata nella nostra tradizione (o in alcune nostre tradizioni,
se non in tutte). Come abbiamo invece visto la civiltà cinese è universalista
in altro modo, e lo rivendica anche in chiave di progetto politico. È il Tianxia
(la “via del cielo” o il “tutti sotto il cielo”) che connota più profondamente
lo spirito del pensiero filosofico, religioso e geopolitico cinese. La formula
“futuro condiviso per l’intera umanità” non è altro che questo segno.
Non si tratta di una “finalità”, quanto di un orientarsi “nella direzione della
luce” (Ér guāngmíng suǒ xiàng); di dirigersi verso la propensione della
situazione che produce, se accolta, un “vantaggio” (li). Ma bisogna
notare che per un cinese, essendo derivante dalla situazione, e non da un
piano, il “li” è sempre morale ed è sempre per tutti. La questione è di
individuare, scoprire, nella situazione i fattori favorevoli e farli crescere,
adattandosi ad essi e adattandoli ad un tempo. Ovviamente, far crescere i
fattori favorevoli e far decrescere, o disattivare, quelli favorevoli
all’avversario. Si tratta, in altre parole, di fare in modo che l’avversario
sia trascinato, senza azione, dalla situazione stessa, progressivamente e
inavvertitamente nella destrutturazione. In modo che perda il proprio
potenziale. Non combattere è la regola fondamentale della Grande Strategia
cinese. O meglio “non agire” (wu wei), tuttavia, ed allo stesso tempo,
in modo che alla fine “niente non sia fatto” (er wu bu wei). I cinesi,
quindi, non combatteranno mai per dominare il mondo (se non costretti),
lasceranno che tutto, per la sua propensione, si trasformi (hua)[8].
Questo
consente di comprendere in modo più profondo il concetto cinese di comunità
dal destino condiviso dell’umanità (人类命运共同体), spesso frainteso in Occidente come
mero slogan.
L’idea è
semplicissima, e sta avvenendo davanti ai nostri occhi. Senza agire
davvero, al più difendendosi (che la lezione delle Guerre dell’Oppio è ben
ricordata), questa strategia fa perdere contegno all’Occidente. Se alla fine la Cina non si vedrà agire, se sembrerà
del tutto immobile, la perfezione sarà stata raggiunta. Perfezione che ha a che
fare con il concetto di “cielo”; una alternanza regolata che si rinnova sempre
senza esaurirsi mai. L’opposto, in un certo senso, della nozione assolutamente
occidentale di ‘progresso’.
Ovviamente,
questa posizione non è priva di tensioni interne e di scarti, e non esclude che
possano esserci momenti di azione diretta, anche di grande momento. Così come
non esclude che l’armonia alla fine sia disegnata per forza delle cose e della
dinamica sul modello cinese, o da questo fortemente influenzata. È una delle
possibili declinazioni del concetto di Tianxia. Se tutto deve orientarsi ad un
‘cosmo’ comune, questo può ben avere al centro l’equilibrio cinese.
Le tradizioni critiche e l’universalismo occidentale
Dopo aver prestato attenzione al contesto geopolitico si può
tornare ai nodi profondi che sono implicati. A tal fine è forse utile fare un
passo indietro e farsi carico della classica obiezione marxista occidentale per
la quale l’eurocentrismo, o l’Occidentalismo, non è solo ideologia o cultura
quanto un processo contraddittorio ma ascendente. Da una parte è dominio e
sfruttamento legato all’affermazione del modo di produzione capitalistico, ma al
contempo esso, secondo una classica mossa hegelo-marxiana, in quanto in sé
contraddittorio produce sia dominio sia liberazione. Nel senso che la
sua dialettica interna contiene lo sfruttamento, ma anche la
razionalizzazione; quindi, con essa, il potenziamento delle forze produttive,
il sapere scientifico e tecnico, e, quel che più conta, la potenziale
eguaglianza formale. Eguaglianza che si può rivoltare in dignità e
riconoscimento umano o essere tradita (il ‘freddo calcolo’ di Marx, o dei due
suoi interpreti primo novecenteschi Werner Sombart[9] e Max
Weber[10]).
In questo snodo teorico-politico normalmente la ricostruzione storica (o
meglio, la lettura storica alla luce di una teoria) precipita immediatamente,
per effetto della coppia organizzatrice cruciale emancipazione/reazione, in
un interdetto politico: secondo questa lettura, essere contro il dono dell’Occidente non
è semplicemente insensato, è reazionario.
Messo in questi termini siamo di fronte allo snodo
teorico fondativo del dominio occidentale, e delle sue giustificazioni anche
critiche. Inoltre, ed al contempo, ad un elemento solido, non privo di
riscontri difendibili. Un elemento da interrogare sulla base di questo quesito:
la contraddizione tra sfruttamento ed emancipazione è espressione di un
contenuto dialettico la cui dinamica procede da sé, per sua stessa natura, o
non rappresenta, piuttosto, solo un potenziale che può, o meno, essere attivato
dalle lotte? Ovvero reso effettivo dalla volontà, dagli eventi. Un’azione che
si dà in un progetto, ma non discende necessariamente da una dynamis?
Il rischio intrinseco, infatti, a questa grande mossa
hegeliana e poi marxiana, perfettamente comprensibile nel suo contesto, è di
affidare il futuro alla ‘provvidenza’ laica dei destini progressivi della
tecnica (nel senso di incorporati in essa)[11].
Ovvero in un solo blocco, del capitalismo e della classe che questo
suscita ed incuba. La mossa di stabilire il Vero e Falso in sé, o il Giusto e
l’Ingiusto, riconducendoli ad una totalità che dispone di leggi immanenti nel
divenire, rischia sempre di scivolare inavvertita (soprattutto quando
estrapolata dal contesto della lotta vissuta biograficamente da Marx che si
svolse nella dialettica concretissima delle formazioni che si agitavano alla
metà dell’Ottocento, tra giacobini tramontanti, liberali, fabiani, anarchici,
mazziniani e più oltre[12]) nel
determinismo ed evoluzionismo. Labriola[13]
ricordava che per attivare il potenziale della formazione e
trasformazione della società servono condizioni specifiche e
contemporaneamente è indispensabile la forza di intenderle, queste condizioni,
come mutabili. “Potenziale” è, insomma, sia potentia[14] sia
possibilità, quindi evento.
Qui, in genere, nella tradizione marxista viene
introdotta una distinzione tra la forma storica e la forma sociale.
Per cui il capitalismo, l’Occidentalismo (e persino il colonialismo), avrebbero
una forma sociale di oppressione e sfruttamento, da condannare e
combattere, e, allo stesso momento, un contenuto materiale, o storico,
nel quale è dialetticamente connaturato un potenziale di eguaglianza e lo
scatenamento delle forze produttive. Secondo l’accusa standard, senza considerare
questa distinzione hegeliana, si rischia di scivolare semplicemente nella
riattivazione di contenuti trasmessi dalla tradizione romantica o dalle forme
di nazionalismo più reattive che non mancano anche nelle lotte di liberazione anticoloniale
più generose (o nelle forme più idiosincratiche delle “politiche
dell’identità”[15]). Non
è irragionevole, lo stesso Dipesh Chakrabarty, nel suo importante Provincializzare
l’Europa[16]
ha questa preoccupazione al suo centro. Quindi si può cadere in forme di
anticapitalismo romantico (che hanno antesignani nel pensiero aristocratico
Sette-Ottocentesco, ma si impongono anche nel Novecento e tracimano fino ad
oggi), varie versioni di ‘primitivismo’ (particolarmente attive nei margini dei
movimenti metà-Novecenteschi della cosiddetta ‘controcultura’, ed anche questi
tracimati in forma irriconoscibile fino ad oggi), o di ‘terzomondismo’ (che
muove dagli anni della seconda metà del Novecento, e si sviluppa in forma di
rivendicazione di un non ben chiaro ‘altro’ dal capitalismo[17]).
È proprio a partire da questa tensione che si apre lo
spazio per una comparazione tra universalismi storici, e per un’interrogazione
delle forme della storia che essi presuppongono. Mentre, in estrema
sintesi, la dialettica hegelo-marxista immagina una totalità che si realizza
attraverso la contraddizione e il superamento (Aufhebung)[18],
altre tradizioni – per esempio, come abbiamo visto, quella confuciana o quella
taoista – vedono la storia piuttosto come una trasformazione graduale, non
lineare, armonica, spesso invisibile, in cui la forza non si manifesta nella
rottura, ma nella capacità di adattarsi alla propensione delle cose. Allo
stesso modo, il pensiero andino[19], o
le filosofie africane[20]
della relazione, propongono immagini del tempo e del cambiamento che non
presuppongono un fine universale, ma una coesistenza plurale di direzioni e
soggettività. Tutte queste cosmologie rappresentano anche modelli
alternativi di pensare la liberazione. In questo senso, si potrebbe dire
che la questione dell’universalismo non si risolve opponendogli il relativismo,
ma cercando di articolare un “universalismo dal basso”, o dalla periferia;
delle cosmotecniche o discorsi sui diversi orizzonti cosmologici che emergano
concretamente, insieme all’attivazione di soggettività suscitate nei conflitti
e nei dialoghi, da esperienze storiche, culturali e spirituali diverse.
Esperienze capaci di riconoscersi in un orizzonte di liberazione, ma senza
fondarsi su un unico modello di razionalità o di storia già dato[21]. Un
orizzonte che non può essere anticipato in una teoria, o una dottrina.
A questa visione può essere opposta un’altra possibile
interpretazione per la quale non si è “eurocentrici”, se, pur ritendo che i
valori europei siano di fatto universali si accetta che la cultura fiorita nel
sette-ottocento in Europa non sia legittimata per questo solo fatto a dominare
e opprimere. I valori ‘scoperti’ per la prima volta in Europa sono, quindi, da
difendere verso il particolare e il molteplice erga omnes in quanto portatori
(anche) di emancipazione sul piano, per così dire, oggettivo (o universale). Oppure
se si ammette che il capitalismo possa e debba piegare tutto il mondo alla sua
valorizzazione perché più efficace nella valorizzazione delle forze produttive
(se mai fosse vero). Chi non fosse del medesimo avviso avrebbe, allora, la
colpa di coltivare un “multiculturalismo astratto”. In sostanza quella di
fuggire dal conflitto e dalla necessità di mettere a confronto le diverse
prospettive di “libertà”. Ovvero di promuovere una forma di dottrina filosofica
che può essere il “cavallo di troia” nel quale può passare un “regresso”
culturale, travestito da anticapitalismo. Secondo questa influente ipotesi l’equazione
da contrastare sarebbe lo schiacciamento di ‘capitalismo’ in ‘universalismo’ e
quindi ‘progressismo’ i quali, tutti, si rovesciano inevitabilmente in
‘imperialismo’.
Una versione sofisticata ed interessante di questa
tesi si potrebbe attribuire all’ultimo Domenico Losurdo in La questione
comunista[22].
In quello che doveva essere il secondo volume di una trilogia (il primo, Il
marxismo occidentale[23],
era uscito nel 2017 ed il terzo, mai scritto, doveva trattare del comunismo
cinese[24]) il
nostro sostiene che l’impresa
comunista può essere rivitalizzata solo se ha pieno rispetto del ‘movimento
reale’ e impara a muoversi nel ‘conflitto delle libertà’. Dunque, se
impara a non avere timore della necessità di gestire il potere, e quindi il
conflitto. L’ultimo lavoro di Losurdo è costantemente diretto a combattere la
duplice tenaglia che neutralizza il potenziale di liberazione della
tradizione marxista occidentale: una tenaglia data dalla socialdemocrazia e dal
radicalismo messianico come forme, entrambe, della fuga dal conflitto.
Il punto è che nel ‘groviglio’ che fattualmente si dà nella realtà sociale si è
spesso costretti a scegliere tra diverse libertà.
Ora, secondo la visione di Losurdo, a ben vedere capitalismo
e imperialismo sono connessi intimamente, ma non così universalismo
e progressismo. In altre parole, la cultura progressista e universalista
non sarebbe connessa necessariamente con lo sfruttamento capitalista, ma
rappresenterebbe piuttosto la sua contraddizione dialettica; al contempo
contenuta e superante nel movimento delle lotte storiche. Per cui anche
l’atteggiamento anti-universalista, in linea generale (di nuovo per
l’incomprensione della sua relazione di contraddizione dialettica con il
moderno capitalismo), porterebbe alla fine, e necessariamente, ad esiti
“reazionari”. Finendo, ad esempio, di valorizzare l’autogoverno comunitario,
una delle “libertà”, contro le rivendicazioni individuali, le altre “libertà”.
Non sono di questo parere,
ritengo che questo interdetto, anche in questa forma attenuata che contiene
molte ottime ragioni, sia, a ben vedere, profondamente incorporato nella
cultura che condividiamo in quanto figli della tradizione escatologica e
messianica giudaico-cristiana. Questa cosmotecnica che si pensa universale, con
le sue stringenti camicie di nesso (originate dall’esistenza di un unico Dio,
da un’unica storia della salvezza, e dalla fratellanza umana sotto un unico
Padre), è indissolubilmente intrecciata alla nozione di progresso/salvezza. Una
nozione laicizzata nel corso dell’Ottocento in sviluppo delle forze produttive
e dell’impresa razionale tecnico-scientifica. Di qui l’horror vacui che questa
struttura nativa e culturale produce davanti a nozioni come “multiculturalismo”
e “relativismo” (in tutte le sue versioni). Questo orrore, causato dalla
preminenza della nostra forma di vita e delle logiche che porta con sé, ha un’enorme
forza di oscuramento delle alternative. Dove queste non ci sono si deve
affermare l’Uno.
In sostanza, questa interpretazione, anche la sua forma apparentemente così
educata e domesticata, individua nel nesso sviluppo
tecnico/modernità/capitalismo una posizione centrale e decisiva. L’impresa
tecnico-scientifica, nel momento in cui dissolve il mondo tradizionale e le sue
cosmotecniche, è intrinseca nell’affermazione del capitalismo come destino e
coincide in effetti con la modernità. Tutte queste sono caratteristiche che si
sono date in Occidente e rappresentano quindi il suo lascito al mondo. La
cosmotecnica Occidentale è dunque universale. Questa interpretazione, in
effetti affermatasi nel tardo Ottocento europeo si identifica nell’impresa
della modernità e nell’affermazione della sua forma universale, grazie all’intenzionale
dimenticanza delle origini plurime e cooperative, ed ai prestiti, della impresa
tecnico-scientifica moderna, e, d’altra parte, anche tutte le tradizioni
razionaliste presenti nelle altre culture (in quella araba, intanto, e poi
anche in quella indiana). Si tratta di una complessa costruzione: la tecnica
viene vista come esito della razionalizzazione e disincanto del mondo; la modernizzazione
come esito della secolarizzazione e dell’illuminismo, insieme all’urbanizzazione
e all’industrializzazione, con il correlato della crescita della borghesia e
quindi dell’individualizzazione; il capitalismo come esito ultimo della
razionale valutazione di mezzi e fini e dell’orientamento alla massimizzazione.
Nessuna di queste caratteristiche, se pure hanno visto un’accelerazione che ha
prodotto dirompenti effetti di potenza nell’Ottocento, sono uniche ed esclusive
dell’Europa[25].
Ad
esempio, in Orizzonti, libro recente di James Poskett[26],
viene raccontato il contributo della medicina azteca, della scienza islamica,
del rinascimento ottomano, dell’astronomia africana o cinese, ed indiana, dei
navigatori del pacifico, delle relazioni di Newton con gli scienziati russi,
dei naturalisti occidentali con quelli Tokugawa, del dawinismo Meiji o Qing,
dell’ingegneria ottomana e della fisica giapponese, dei viaggi di Einstein in
Cina e delle genetiche indiane, russe. Sono state oscurate le tavole di al-Tusi
e al-Battani, cui l’astronomia copernicana deve molto, la medicina di Avicenna[27]
(Ibn Sina), gli studi di Ibn al-Haytham e le sue relazioni con fisica ed ottica
moderne, le tecniche polinesiane di navigazione e tante altre.
La
scienza moderna coltiva, in effetti soprattutto a partire dall’Ottocento, il
mito di essere stata inventata da poche menti e tutte europee in un periodo che
va dal 1500 al 1700. Al contrario, Copernico riprese procedimenti matematici
che individuò in testi arabi e persiani, mentre astronomi ottomani percorrevano
l’Europa per scambiare visioni e teorie. D’altra parte, la scienza occidentale era
anche debitrice della tradizione ellenistica, III secolo a.C., cosiddetta
“Alessandrina”[28]. Ad Alessandria studiò
anche Archimede come Eratostene. Crisippo invece ad Atene, mentre bisogna
ricordare anche Filone di Bisanzio, Apollonio di Perga e Ipparco di Nicea del
secolo successivo[29].
Tutto questo fervore terminò con la conquista romana[30],
anche se tracce si registrarono fino al tardo impero ed alla vittoria del
cristianesimo. Si trattava di scienza, perché non riguardava oggetti concreti
ma enti teorici specifici, ed aveva struttura rigorosamente deduttiva, si
applicava con regole di corrispondenza. Questa struttura non era presente nella
tradizione filosofica classica (Platone e Aristotele), ma si addensò solo a
partire dalla conquista macedone della Persia e dell’Egitto. Questa è la tesi
di Russo, in quanto al momento della conquista macedone la civiltà greca venne
intimamente in contatto con la superiorità tecnica delle ben più antiche
civiltà mesopotamica ed egiziana. D’altra parte, non era una cosa completamente
nuova. Le civiltà più antiche erano state in costante contatto con la
civilizzazione greca[31],
ma quando i macedoni dovettero gestire economie e tecnologie enormemente più
complesse, con metodi gestionali e di analisi razionale in parte propri, comparve
una nuova capacità di connessione tra il livello astratto delle teorie e
l’azione concreta.
La
ripresa della prospettiva scientifica, in un nuovo e più potente contesto e
sotto motivazioni molto più forti (negli anni in cui l’Europa si allargò al
mondo, ed ebbe bisogno di mettere a frutto il dominio che si presentava e via
via consolidava) avvenne poi nei ‘rinascimenti’[32]
anche come riscoperta, spesso tramite manoscritti arabi, dell’ottica, delle
maree e gravitazioni, delle cosmologie, etc. ellenistiche[33].
Insomma,
la cultura è sempre stata trasmissione e contaminazione, ed è sempre stata
connessa con contesti ed obiettivi, condizioni materiali e possibilità. Negarlo
è uno specifico dispositivo di potere, che si affaccia ogni volta si viene
sfidati. I cosiddetti “valori europei” sono, essi stessi, opera del mondo[34].
L’Occidente ha invece voluto, dal XIX secolo, che razionalità e quindi progresso
fossero suoi monopoli, se mai esito ultimo del “miracolo” greco; ha preteso che
le altre culture fossero statiche o irrazionali; dichiarato la modernità come prodotto
esclusivamente europeo e frutto autonomo delle sue invenzioni
tecnico-scientifiche. In alcune versioni prodotto del capitalismo stesso.
Tuttavia, le più recenti storie delle tecniche e della loro diffusione
evidenziano come l’impresa tecnica e scientifica non sia affatto appannaggio
dell’Occidente europeo, né la forma di fabbrica. Come riporta Goody, nel 1175
più di mille operai lavorano nella fabbrica di Hangzhou in Cina, spesso altre
migliaia nei mulini per la carta nello Jiangxi, e l’importazione di questa carta
prodotta industrialmente a basso costo fa del mondo arabo il luogo di maggiore
cultura dell’epoca prerinascimentale e rinascimentale[35].
In Occidente questa tecnica arriva a Fabriano nel 1268 e in Francia nel 1348,
in Inghilterra solo nel 1495. Ma non è solo carta, la seta, lacca, la ceramica,
il bronzo, sono tutti prodotti in fabbriche che vedono divisione del lavoro,
controllo qualità, organizzazione del personale, standardizzazione che in
Occidente saranno importati (a volte con vere e proprie operazioni di
spionaggio, come per il filatoio a telaio a pedale importato dalla Cina a
Bologna nel 1500, o come le descrizioni di padre d’Entrecolles che vengono
tradotte da Wellgwood nella fabbrica dello Staffordshire del 1769).
Peraltro,
anche nel principale monumento del pensiero occidentale moderno, l’idealismo
tedesco, non mancano le influenze cinesi (come nell’illuminismo francese). Ad
esempio, l’ultimo grande filosofo della tradizione rinascimentale, a cavallo
con la modernità, Leibniz era un grandissimo ammiratore della civiltà cinese ed
intrattenne rapporti con i gesuiti missionari in Cina (come Bouvet[36]),
molto sensibili al confucianesimo. La inquadrava in effetti come un modello di
saggezza pratica e quindi dimostrazione della possibilità di una razionalità
etica naturale[37].
Quindi Kant, come diversi illuministi anche critici (Voltaire, Rousseau,
Montesquieu) considerava i cinesi un esempio di civiltà stabile, fondata sul
senso morale, ma anche una civiltà “ferma”. La sua idea, secondo la quale
l’ordine morale deve basarsi su una ragione pratica universale (e non
un’autorità esterna al soggetto individuale), può avere qualche assonanza con
il Tianxia, se pure in diverso contesto. Ancora Hegel descrive ampiamente la
civiltà cinese nella sua Filosofia della storia[38],
ma propone l’argomento per il quale questa non ha sviluppato una libertà
individuale realmente piena, pur avendo un ordine morale naturale profondamente
unificante. Per individuare possibili influenze, la caratterizzazione dello
Stato potrebbe risentire della concezione del mandato dal Cielo (天命), ma anche la stessa idea dello sviluppo dinamico,
sia pure conflittuale, dell’equilibrio può avere una assonanza (ma in qualche
modo anche opposizione[39],
come abbiamo visto) con il Tianxia.
Conclusione, contaminazioni
Per trarre una linea da questo complesso di problemi
che abbiamo dispiegato ci si può riferire al significativo ed interessante
dibattito scaturito dall’esperienza delle lotte anticoloniali e delle
successive esperienze statuali, con i relativi fallimenti e delusioni; un
dibattito che, attraversato correttamente, ci aiuti a ragionare sottraendoci
sia alla reificazione identitaria, sia al provvidenzialismo occidentale[40]. Molta
critica è stata semplicemente volta a comprendere gli effetti culturali della
colonizzazione, o della influenza imperiale ai diversi livelli dell’Occidente
sul resto del mondo. Ma lo ha per lo più fatto in termini di critica letteraria
(ad esempio le interessanti opere di Said) o, spesso, rifugiandosi
nell’accademia. L’approccio più utile è quello che mette a confronto la pretesa
occidentale di vedersi come universale, e autorizzata a fare del mondo la
propria immagine, con la storia della reazione, altamente differenziata, a
questa pretesa. Quindi la storia della denuncia cinese del ‘secolo
dell’umiliazione’ e dei successivi “movimenti di autorafforzamento” (di cui la
stessa rivoluzione è parte), della rivendicazione della ‘negritudine’, pur nel
suo rischioso essenzialismo, del marxismo alla Mariategui, delle epistemologie
del Sud di De Sousa, della battaglia di Fanon[41] e Césaire[42], e
via dicendo. Il punto centrale è che le ‘tradizioni’ e le ‘forme di vita’
cambiano sempre e che costantemente si ibridano e contaminano; è dunque del
tutto errato considerarle astrattamente come compatte unità. Ad esempio, in
Iran, e più in generale nel mondo arabo, si può registrare, parlando con le
persone, come il vasto mondo culturale persiano sia da sempre attraversato da
secolari conflitti tra modernisti/tradizionalisti, religiosi/laici, molteplici
forme religiose (ci sono in pratica tutte le religioni note, con minoranze
anche di milioni di persone) e grandi differenze regionali; tutto è sempre in
evoluzione, anche per vie interne. Ma se le cose cambiano non lo fanno
necessariamente perché qualcuno porta “buone e ragionevoli argomentazioni”.
Forse di più perché porta buoni esempi, o perché nella dialettica interna il
potenziamento di relazioni ben riuscite induce la prevalenza di tendenze già
esistenti. Tendenze le cui radici e premesse sono contenute nella pluralità
interna custodita in ogni “tradizione”. Al contempo,
In questo processo di trasformazione e traduzione,
contaminazione e identificazione (nel quale l’ego si definisce sempre a fronte
dell’altro e sempre contenendolo), si definiscono anche le “libertà” che
reciprocamente si riconoscono i soggetti e i relativi “diritti”. Insomma,
secondo una lettura della stessa posizione di Losurdo, prima citato, nel
contesto della sua traiettoria, “libertà” e “diritti” sono costituiti nel
conflitto e nel confronto, dalla scelta, e dal processo, e non prodotti prima e
fuori in un “catalogo” posto una volta per tutte. Sono un prodotto delle
cosmologie e non dell’universalismo astratto.
Si tratta di una mossa simile a quella che compie
l’ultimo Thomas Khun in L’incommensurabilità nella scienza[43], nel
momento in cui rinuncia alla necessità di un fondamento neutro, slegato dalla
cultura entro la quale si dà l’enunciato. Secondo la sua proposta, per
convalidare il contenuto conoscitivo sarà sufficiente un fondamento
localizzato, purché sia possibile in via di principio, trasferirlo. Ovvero
trasferire insieme il significato e le cose o situazioni che lo rendono
pertinente, nel corso di un processo[44]. Trasferire
significato è, a sua volta, parte di un processo di socializzazione o
ri-socializzazione. In altre parole, significati e soggetti si formano insieme.
Secondo un processo di traduzione che prevede necessariamente: perdita di
informazione; aggiunta di nuove informazioni o distorsione di altre presenti.
Per Khun, tuttavia, sapere che le traduzioni sono
sempre imperfette, non deve portare a scivolare verso l’assolutizzazione
dell’intraducibilità o incommensurabilità. Pretendere, infatti, di avere
un’identità pienamente scelta, formata e indiscutibile dall’esterno,
un’identità che basta a sé stessa ed è impermeabile a chi non vi appartenga (ovvero
non abbia fatto le medesime esperienze e sofferto i medesimi lutti), è la
strada perché solo la forza si esprima. Incidentalmente questo non vale solo
per le nazioni o le “culture” (la cui lotta sarebbe l’unica verità), ma anche
per le sub-culture che si schermano per affermarsi/difendersi (delle quali la
‘guerra civile’ occidentale è piena, si pensi ai ‘gender studies’, a diverse
forme di ambientalismo o femminismo radicali, oggi anche ai traumatizzati da
questa o quella crisi di cui è piena la storia recente).
Ogni totalità è, in definitiva, attraversata dalla
pluralità e queste dalle proprie contraddizioni; in esse ci sono, al contempo e
sempre, delle potenzialità che possono essere riscattate. Questa formulazione è
in linea con la migliore tradizione hegelo-marxiana, ma occorre renderla più
modesta. Espungendo la tentazione di trarne una teleologia che trovi forma in
una filosofia della storia decisa anticipatamente. Bisogna quindi piuttosto,
dall’interno e dall’esterno, compiere la mossa di disimplicare le premesse di
libertà e liberazione incorporate nelle diverse traiettorie culturali, o
suscitabili in esse; fare lo sforzo rimemorarle e sollecitarle. E fare ciò
senza esercitare il ruolo del maestro che indica una soluzione che possiede una
volta e per tutte, una soluzione astratta e oltre la storia. Ma direi di più,
occorre ritrarsi da ogni astrazione data (il che non significa da ogni teoria,
o discorso), sapendo che il proprio di ogni cultura è quello di non essere
identica a sé stessa (perché la sua stessa nozione è il risultato di una lotta
provvisoriamente vinta, di un’egemonia e delle sue necessarie astrazioni). Se
questo è vero, essa stessa al suo meglio non si può dare senza l’altro da sé;
senza specchiarsi in esso. Questa apertura all’altro da sé è, d’altra
parte possibile perché il proprio sé, e quello con cui ci si specchia, sono
entrambi rimandi di riflessi di ‘altro’[45].
Non esistono, in altre parole, valori, principi e culture universali, se
non per effetto di una decisione, di un’imposizione. In primo luogo, interna,
volta a ridurre la pluralità e la storia dei conflitti che sono stati dati. Che
serve a far tacere il suono dei morti. Che serve a ridurre le diverse
cosmotecniche e cosmologie al silenzio. Bisognerebbe allora con una sola mossa,
doppia, dimenticare l’universalismo ma non la tensione all’apertura, all’allargamento
del cosmo in modo che diventi comune.
Mettere a confronto l’universalismo occidentale, e la sua pretesa di
centralità imperiale, e la spinta cinese alla “Comunità umana dal futuro
condiviso”, significa attraversare le dinamiche del moderno che suscitano e
riattivano potenzialità silenti, sfidano le cosmologie stratificate e plurali
di cui è pieno il mondo, individuano e dissolvono soggettività, creano nuove
relazioni, dialoghi e pratiche, creano nuove verità e mettono alla prova la
tianxia e l’aufhebung. Si tratta di conservare/superare negando, o di risuonare
e trasformare? Come raggiungere l’unità nella molteplicità, e l’armonia senza
ridurre all’Uno?
Senza naturalizzare l’universalismo e chiudere alle altre cosmotecniche,
alle “logiche della liberazione” e genealogie storiche e culturali. Aprendolo
alla tensione incompiuta tra differenze, memoria viva delle lotte e dei mondi
negati, scoperta ed invenzione.
Capire che le modernità sono molte, non sono il lascito dell’Occidente come
non sono la conquista dell’Oriente, restare coscienti della differenza
incolmabile, e per tutti, tra interpretazione e verità, ma, al contempo, della
necessità di coltivarne la tensione a percorrere il cammino della sua ricerca.
Comprendere, infine, che la ricerca è possibile solo nel decentramento e solo se
si coltiva lo stupore curioso per l’apertura all’altro da sé, possibile
solo perché anche il sé è un altro.
[1]
- Il cui esponente principale nel Novecento è Martin Heidegger che in “La
questione della tecnica”, una conferenza del 18 novembre 1953 a Monaco interpreta
la tecnica non come insieme di strumenti, bensì come svelamento dell’essere, o
come forma della vita che riduce tutto a fondo disponibile (Bestand), ovvero
risorsa calcolabile e quindi manipolabile. Molto semplicemente, e banalmente,
la tecnica è una delle vie di rivelamento dell’essere che orienta il modo di
rapportarsi con gli altri, ma anche al mondo stesso. In un certo modo è un
compimento della metafisica occidentale (e qui, in questa formula è presente l’eurocentrismo
anche di Heidegger), in quanto la tecnica è un’opera non occidentale, ma del sistema
mondo e policentrica. Esprime una verità del mondo e fa sì che l’uomo stesso diventi
risorsa da organizzare, quindi anche consumare (e in questo riverbera anche la
critica dell’alienazione nel primo Marx). Altra fonte primaria, oltre allo
stesso Marx, è Dialettica dell’illuminismo di Max Horkheimer e Theodor
Adorno, edito nel 1947. In questo influente testo i due francofortesi
individuano nella tecnica la razionalità strumentale e in essa una forma di
pensiero orientata al dominio, per cui individuano nell’illuminismo
(occidentale) la via per creare una nuova forma di soggezione che riduce il
mondo ad oggetto di controllo. In questa accezione, e questo è particolarmente
importante, la tecnica è inseparabile dallo sviluppo del capitalismo e conduce
necessariamente alla reificazione dei rapporti sociali. Le vie di fuga sono in
Heidegger un altro svelamento dell’essere (esempio quello artistico) e in
Adorno il pensiero negativo e non conciliato e nuovamente l’arte.
[2]
- Non è qui possibile fare una storia dello sviluppo industriale, ma il
pregiudizio sostanzialmente razzistico per il quale si tratti di una ‘invenzione’
anglosassone si scontra con la presenza di fabbriche con migliaia di lavoratori
e avanzata divisione del lavoro nel XI secolo in Cina e poi nel mondo arabo nei
secoli seguenti e poi nell’Italia centrale, soprattutto Venezia e Bologna, ma
anche Firenze. Pratiche che nel XVI e XVII secolo si generalizzato e
trasferiscono in Gran Bretagna, dove trovano alcune condizioni potenzianti,
come la disponibilità di risorse energetiche abbondanti ed buon mercato e un
fiorente mercato coloniale in grado di assorbire le eccedenze e fornire materie
prime, senza dimenticare il puro e semplice saccheggio di risorse monetarie e
umane dal resto del mondo.
[3]
- George Bataille, in due saggi del 1933 (La nozione di dépense) e del
1949 (La parte maledetta), ha introdotto l’idea, abbastanza
aristocratica, che se l’essere umano e la intera società sono strutturati
secondo l’utilità perdono qualcosa di essenziale. Piuttosto la mera vita trova
senso fuori di questo, nella dépense (il dispendio), necessariamente improduttiva
ed anche distruttiva di valori materiali (il sacrificio sacro, le feste, la
stessa guerra, l’erotismo e l’arte). Ciò che è da mettere al centro è l’eccedenza
da ogni funzione, l’inutile, l’esuberante.
[4]
- Yuk Hui, Cosmotecnica. La questione della tecnologia in Cina, Nero 2021.
[6]
- La Conferenza di Bandung è il punto intermedio di un lungo processo che parte
con il Congresso dei popoli dell’oriente a Baku, nel 1920, del quale parleremo
in seguito, e il successivo Congresso dei popoli oppressi di Bruxelles nel
1927, oltre che la Asian Relations Conference convocata da Nehru nel 1947 nella
quale fu deciso di dotarsi di una organizzazione permanente. Nell’aprile del
1954 i capi di governo di Ceylon, India, Pakistan, Birmania, Indonesia si
riunirono a Colombo (Ceylon) per organizzare una grande conferenza
afroasiatica. Conferenza che fu convocata appunto a Bandung, invitando
venticinque Stati con l’esclusione dei movimenti di liberazione, con qualche
anomalia (come i due Vietnam e l’esclusione delle due Coree, oltre il mancato
invito ai paesi latino-americani e soprattutto dell’Unione Sovietica).
Parteciparono paesi socialisti, come la Cina, e filoccidentali, come il
Giappone, o neutralisti. Con qualche compromesso, mediato da Chou En-Lai da una
parte e da Nehru dall’altra si arrivò a una dichiarazione di condanna del solo
colonialismo “tradizionale” (mentre alcuni paesi volevano condannare anche
quello sovietico). Bandung è l’anello di congiunzione tra la sconfitta di Dien
Bien Phu e l’evento di Suez. Tutti e tre insieme fecero precipitare il
colonialismo europeo.
[7]
- Per questi temi si veda, ad esempio, “Dal Grande Gioco triangolare alla
polarizzazione. Circa la posizione diplomatica e strategica cinese: Qin Gang e
Yongnian Zheng”, tempofertile 19 aprile 2022.
[8]
- Si veda su questo concetto e la sua articolazione, in chiave comparata, il
lavoro di Francois Jullien, in particolare Trattato sull’efficacia,
Einaudi 1998 (ed. or. 1996); Pensare l’efficacia. In Cina ed in Occidente,
Laterza, 2006 (ed.or. 2005), Contro la comparazione. Lo ‘scarto’ e il ‘tra’
un altro accesso all’alterità, Mimesis 2014; L’identità culturale non
esiste, Einaudi 2018.
[9]
- Werner Sombart, Il capitalismo moderno, Ledizioni 2020 (ed. or. 1902).
La biografia intellettuale di Sombart, un autore ormai del tutto dimenticato, è
singolare: definito da Engels come l’unico professore tedesco in grado di
capire “Il Capitale”, coniò il termine “capitalismo” con questa opera.
Il lavoro di quello che all’epoca era percepito dai colleghi come un autore di
estrema sinistra (poi diventato di estrema destra) è connesso con la scuola
storica tedesca, ed è uno dei pochissimi tentativi di leggere lo sviluppo
storico dell’economia in modo sistematico (tracce di questo approccio sono
nella scuola degli Annales di Braudel e da questa via in
Wallerstein e poi Arrighi). Dal 1917 al 1940 ricoprirà la cattedra di
sociologia a Berlino e si spostò verso destra durante la Repubblica di
Weimar, muore nel 1941. Nel suo lavoro sono presenti temi chiaramente
tradizionalisti che negli anni Venti lo allontaneranno dal socialismo delle
origini per avvicinarlo al nazismo (con il quale intrattenne un ambiguo
rapporto).
Per Sombart, in confronto con il mondo tradizionale, il
capitalismo si afferma su basi del tutto diverse. Esso è un sistema economico
che ha le seguenti caratteristiche: “è una organizzazione economica di
scambio, in cui collaborano, uniti dal mercato, due diversi gruppi di
popolazione, i proprietari dei mezzi di produzione, che contemporaneamente
hanno la direzione e costituiscono i soggetti economici, e i lavoratori nullatenenti
(come soggetti economici), e che è dominata dal principio del profitto e dal razionalismo
economico” (p.162). In esso i principi economici dominanti sono, quindi,
“il profitto ed il razionalismo economico che prendono il posto dei principi
della copertura del fabbisogno e del tradizionalismo”. Dunque lo scopo
dell’agire economico diventa il semplice aumento della somma di denaro
disponibile. Un obiettivo che Sombart definisce come “immanente l’idea di
organizzazione capitalistica”, il suo “scopo oggettivo”.
Evidentemente il nostro ha letto Marx per il quale il
capitalismo (anzi il “modo di produzione capitalista”) si contraddistingue per
l’accumulazione di “lavoro morto” (ovvero di denaro) del tutto indifferente ai
suoi mezzi. La formula di San Tommaso d’Aquino è rovesciata, il fine ultimo
dell’economia non è più “vivere bene” (nel proprio ruolo), ma creare “valore”,
in linea di principio indefinito ed illimitato. Il “valore” per il capitalismo
non è dettato da una struttura antecedente di ruoli, o dalla parola di Dio, è
una forma sociale, un modo di creare unità e dissolvere le differenze (la cui
potenza detradizionalizzante sarà evidente, ed alla quale alla fine Sombart
reagirà) che diventa visibile nella metrica del “denaro”. La finalità di tutto
diventa creare la massima quantità possibile di valore, cioè
di denaro che lo rappresenta.
[10]
- Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli
1991 (ed. or. 1904). Il “capitalismo”, nell’accezione che qui Weber usa (e che
è più larga di quella di Braudel), è connesso con la sistematica affermazione
della impresa borghese, con la nascita di questa classe centrale e con la
maturazione di possibilità tecniche. Con l’affermazione, quindi, di una
“razionalità [che] è condizionata in modo essenziale dalla calcolabilità dei
fattori tecnicamente decisivi, che sono i supporti di un calcolo esatto; ma,
invero, ciò equivale a dire che è condizionata specificamente dalla natura
peculiare della scienza occidentale, in particolare dalle scienze della natura
matematicamente e sperimentalmente esatte e razionalmente fondate” (p,45).
Razionalità e razionalizzazione sono qui termini non specifici del mondo
scientifizzato ed oggettivato, come ricorda subito “si può rendere razionale
una cosa da molti punti di vista”; quindi ciò che conta è “quali sfere sono
state razionalizzate e in che direzione”. Gli uomini, in tal modo, sono
diventati “specialisti senza spirito, edonisti senza cuore: questo nulla si
immagina di essere asceso a un grado di umanità non mai prima raggiunto”.
[11]
- Qui sarebbe utile un confronto più profondo con le tradizioni africane o
andine, ed autori come Mariategui ed altri.
[12]
- Si veda, ad esempio, Gregory Clayes, Marx e il marxismo, Einaudi, 2020
(ed. or. 2018); o il vecchio ma valido Storia del marxismo, Vol 1. Il
marxismo al tempo di Marx, Einaudi, 1978.
[13]
- Si veda la lettura del grande filosofo marxista condotta in Alessandro
Visalli, Classe e Partito, Meltemi 2023.
[14]
- Come capacità, idoneità in sé a conseguire un dato risultato.
[15]
- la politica delle identità è piena di
mosse reattive che, se pur psicologicamente ed umanamente comprensibili,
finiscono per produrre disumanizzazioni simmetriche.
[16]
- Dipesh Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, op.cit.
[17]
- Si veda Jean-Loup Amselle, Il distacco dall’Occidente, Meltemi 2009
(ed.or.2008).
[18]
- Si veda, ad esempio, Vladimiro Giacché, Hegel. La dialettica, Diarkos
2019.
[19]
- Ad esempio, in Sumak Kawsay il tempo è ciclico e relazionale; il cambiamento
non mira a un fine, ma all’equilibrio tra comunità, natura e spiriti
(Pachamama).
[20]
- Per l’ubuntu l’universale non è un principio astratto ma emerge dalla
reciprocità concreta (secondo la formula “io sono perché noi siamo”).
[21]
- Si veda ad esempio, Stuart Hall, Il soggetto e la differenza. Per
un’archeologia degli studi culturali e postcoloniali, Meltemi, 2006
[22]
- Domenico Losurdo, La questione comunista, Carocci 2021.
[23]
- Domenico Losurdo, Il marxismo occidentale, Laterza 2017.
[24]
- I contenuti del terzo libro, indispensabile per comprendere la parabola
dell’impresa tentata da Losurdo, si potrebbero intuire dal progetto del
capitolo 4, presente nell’Indice 1 del secondo libro, che ne trattava.
Leggendolo troviamo, all’avvio del progetto di capitolo, una frase di enorme
peso: niente di meno che “Pensare la Cina [significa] pensare il
postcapitalismo”. Proseguendo, scopriamo che questo implica ragionare sulle
nozioni di ‘capitalismo autoritario’, anziché ‘democratico’ (quale è l’uno e
quale l’altro? Potrebbe non essere scontato se si fa caso alla nozione
losurdiana, centrale, di “conflitto delle libertà” la quale gioca nel
non rendere scontato che quando Losurdo, in un indice di prova mette a
confronto tra occidente ed oriente cinese da una parte un “capitalismo
autoritario” e dall’altro uno “democratico” intenda, come dovrebbe essere
scontato ad un occhio abituato alla retorica occidentale, attribuire il primo
alla Cina ed il secondo all’occidente. Infatti, la questione non è se sia ‘autoritaria’
una forma di governo, se reprima delle libertà, ma verso chi sia
autoritario e quale libertà reprima, in favore di quale altra
libertà. Dunque, potrebbe benissimo darsi che sia quello cinese ad essere una
forma di capitalismo in transizione che coltiva germi democratici e forme di
libertà estese a parte decisiva del popolo, mentre quello occidentale sia
autoritario verso le medesime componenti popolari. Che la democrazia sia dove
meno si vede, in quanto la sua forma e la sua sostanza non coincidono); ma
anche individuare la differenza cruciale tra la ‘espropriazione politica’, e
quella ‘economica’; quindi, di ‘economia di mercato non capitalistica’, o di
‘socialismo riformato’; infine comprendere se si è davanti una forma di
‘capitalismo di Stato’ o dello ‘stadio iniziale del socialismo’. Ancora,
ragionare sui sindacati (dei padroni i dei lavoratori); l’eguaglianza (‘più
perfetta’, o ‘rozza’, anziché ‘radicale’). Infine, nei capitoli finali
progettati nell’Indice 1, vediamo che pensare la Cina ed il postcapitalismo
significa anche trarre conclusioni su ‘politica ed economia’ guardando a ‘la
Cina e il mondo’; ovvero che si tratta di inquadrare il tema in una cornice
geopolitica realista, cara al nostro. E, infine, per comprendere la traiettoria
e l’orizzonte dell’impresa, alla luce delle tracce rimaste, dobbiamo concludere
che bisogna cercare di definire due domande aperte alla dinamica del ‘conflitto
delle libertà’ e quindi delle ‘lotte di classe’: la prima è se in Cina
è in gioco una forma di ‘capitalismo autoritario’ o piuttosto una ‘transizione
difficile e dall’esito incerto’? Ancora, se è in questione la
‘democratizzazione’ o la ‘plutocratizzazione’? Dalla risposta alla seconda
domanda, sembra capire, deriva quella alla prima.
Tentando una sintesi la traccia si potrebbe leggere
nel seguente modo: la Cina è la più plausibile traccia, o cantiere, del
post-capitalismo, ma la cosa passa per un conflitto “delle libertà”, che passa
per i difficili e dialettici rapporti tra politica ed economia e il contesto
dei conflitti mondiali tra autonomia e dipendenza (ovvero per la transizione
egemonica). Il progetto è in bilico tra ‘capitalismo autoritario’ e
‘plutocratico’ e una transizione difficile ed incerta, ma possibile, a una
effettiva democratizzazione di una economia di mercato, ma non capitalista che
è, in effetti, un possibile stadio iniziale del socialismo (ovviamente, ‘con
caratteristiche cinesi’).
[25]
- Si veda, tra molti, Jack Goody, Capitalismo e modernità. Il grande
dibattito, Raffaello Cortina Editore 205 (ed. or. 2004); ma anche Jack
Goody, Rinascimenti. Uno o molti?, Donzelli Editore, 2010 (ed. or.
2010); Jack Goody, Eurasia. Storia di un miracolo, Il Mulino 2012
(ed.or. 2010).
[26]
- Poskett, J., Orizzonti. Una storia globale della scienza, Einaudi,
Torino 2022 (ed. or. 2022). Si vedano anche Joseph Needham sulla scienza cinese
e George Saliba sulla scienza islamica.
[27]
- Si veda Frederick Starr, L’epoca geniale. Avicenna, Buruni e l’illuminismo
perduto, Einaudi, 2025.
[28]
- Dove lavorarono Euclide, Ctesibio, Erofilo di Calcedonia, contemporanei del
fondatore della teoria eliocentrica, Aristarco di Samo.
[29]
- Lucio Russo, La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la
scienza moderna, Feltrinelli, Milano 1996.
[30]
- Lucio Russo, Il tracollo culturale. La conquista romana del Mediterraneo (146
-145 a.C.), Carocci, 2022.
[31]
- Talete e Pitagora avevano debiti riconosciuti con l’Egitto (il secondo anche
con il più lontano oriente).
[32]
- Si veda per la pluralità dei “rinascimenti”, Jack Goody, Rinascimenti. Uno
o molti?, Donzelli Editore2010 (ed. or. 2010).
[33]
- Lucio Russo, La rivoluzione dimenticata, op.cit., p. 401 e seg. Si
veda anche, Russo, L., Santoni E., Ingegni minuti. Una storia della scienza
in Italia, Feltrinelli, Milano 2010.
[34]
- Si veda l’opera di Jack Goody, ad esempio Rinascimenti. Uno o molti?
Donzelli 2010; Eurasia. Storia di un miracolo, Il Mulino 2012; Capitalismo
e modernità. Il grande dibattito, Raffaello Cortina Editore 2005.
[35]
- Jack Goody, Capitalismo e modernità, op.cit., p. 164
[36]
- Si vedano in particolare le “Lettres édifiantes et curieuses” (1702-1776)
[37]
- Si veda Gottfried Wilhelm Leibniz, Novissima Sinica historiam nostri
temporis illustratura in quibus de Christianismo publica nunc primum autoritate
propagato missa in Europam relatio exhibetur, deque favore scientiarum
Europaearum ac moribus gentis & ipsius praesertim monarchae, tum & de
bello Sinensium cum Moscis ac pace constituta, multa hactenus ignota
explicantur. 1697.
[38]
- Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni di filosofia della storia,
Laterza 2003 (ed. or. 1837).
[39]
- Tra la dialettica e l’armonia organica del Tianxia.
[40]
- Si tratta del dibattito postcoloniale, erede della Teoria della Dipendenza di
cui ho trattato nel mio libro del 2020. Un campo di critica e di studi letteralmente
figlio della delusione degli anni Ottanta ed esploso negli anni Novanta e
Duemila. Autori come Edward Said e Stuart Hall, Robert Young, Garyarti Spivak,
Homi Bhabha, rappresentano una costellazione altamente divergente, tra approcci
postmoderni, e ‘meticci’, diasporici e cosmopoliti, ad altri neomarxisti, con
influenze che vanno da Foucault a Lacan o Althusser e Derrida. Si veda, Edward
Said, Orientalismo, Einaudi 2001 (ed. or. 1978); Edward Said, Cultura
e imperialismo, Feltrinelli, 2023 (ed.or. 1993); Robert Young, Introduzione
al postcolonialismo, Meltemi 2005 (ed.or. 2001); Miguel Mellino, La
critica postcoloniale, Meltemi 2021; Stuart Hall, Il soggetto e la
differenza, Meltemi 2006; Jean-Loup Amselle, Il distacco dell’Occidente,
Meltemi 2008; Alessandro Visalli, Dipendenza, Meltemi 2020; Dipesh
Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, Meltemi, 2004 (ed. or. 2000);
Boavenura De Sousa Santos, Epistemologie del Sud. Giustizia contro
l'epistemicidio, traduzione di Samuele Mazzolini, Roma, Castelvecchi, 2021;
Achille Mbembe, Critica della ragione negra, Ibis 2016 (ed.or. 2013);
Achille Mbembe, Emergere dalla lunga notte, 2018 (ed. or. 2012).
[41]
- Franz Fanon, Pelle nera maschere bianche, Edizioni ETS, 2015 (ed. or.
1952); Franz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, 1962 (ed.or. 1961);
Franz Fanon, Scritti politici I e II, Hydra, 2006 (ed. or. 2001)
[42]
- Aimé Césaire, Discorso sul colonialismo, Ombre corte, 2010 (ed. or.
1955)
[43]
- Thomas Khun, L’incommensurabilità nella scienza, Raffaello Cortina
Editore, 2024 (ed.or. 2022).
[44]
- Khun cit., p. 216
[45]
- Riprendendo la critica di Derrida, per il quale il proprio di ogni cultura è
di non essere identica a sé stessa, ma anche ricordando che la nozione stessa
di “cultura” (occidentale come ogni altra) è solo un’astrazione, il risultato
di una lotta provvisoriamente vinta, di una egemonia. L’identità stessa è
provvisoria e contaminata. Usando le parole di Vincenzo Costa, “ciò non
significa che la cultura non ha una identità, ma semplicemente che una cultura
può identificarsi solo attraverso l’altro; non vi è identità senza il gioco
delle differenze” (Vincenzo Costa, L’assoluto e la storia, Morcelliana,
Brescia, 2023, p.131)




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