Tra
il novembre 2024 ed il marzo 2025, sul blog di Carlo Formenti, Per un
Socialismo del Secolo XXI sono stati pubblicati una serie notevole di
letture di testi relativi ad autori africani. Questi consentono di aprire una
finestra su un enorme e storico dibattito legato alle trasformazioni del ciclo
di lotte anticoloniali e al loro esito nell’età unipolare. Lotte che oggi
potrebbero trovare l’occasione di una nuova stagione nell’era multipolare che
si sta aprendo. Ciò a patto di comprendere gli errori, le compromissioni e le
dimenticanze che si sono date.
Apre
la serie, composta da sette post, l’analisi di tre autori caratterizzati dal
loro impegno marxista: Said Boumama[1], Kevin Ochieng Okoth[2], Amilcare Cabral[3]. Segue la lettura della
posizione di Walter Rodney[4], quindi la lettura di
alcuni “classici”, ovvero intellettuali militanti della generazione precedente,
come Du Bois, Padmore, Williams, James, Césaire[5], quindi la posizione di
Cedric Robinson[6].
Infine, il marxismo nero e femminista di Angela Davis[7].
Due
correnti: la prassi e la critica del discorso
L’insieme
di queste letture illumina una tensione tra due modi di affrontare, dal punto
di vista degli attori ‘periferici’, l’apertura critica determinatosi prima
nella mobilitazione contro il colonialismo e razzismo occidentale (du Bois, Williams,
Césaire, Fanon) e nel contesto delle lotte di liberazione nazionali,
influenzate dal ‘socialismo arabo’ e dal marxismo (Okoth, Cabral, Rodney), da
una parte, e l’ampia e maggioritaria corrente formatasi in seguito, soprattutto
negli anni Novanta, intorno alla reazione alle delusioni e fallimenti della
decolonizzazione (Said, Spivak, Bhabha, Hall, Mignolo, Quijano, Mbembe ed
altri). Si tratta di una divaricazione su più piani: tra studi (decoloniali)
che trovano la loro collocazione essenzialmente entro una svolta epistemologica
(circa il modo di definire la verità) e politico-culturale che prende forza in
quegli anni nel contesto dell’accademia americana e diventa particolarmente
forte nei dipartimenti di letteratura, il post-modernismo; e, dall’altra, in
contesti più impegnati nelle lotte contro il neocolonialismo e la sua base ‘razzialistica’
(in base alla distinzione di Cedric Robinson che vedremo tra breve). Una
dialettica (in termini del lessico marxiano, tra “critica critica”[8] e “pensiero della
prassi”[9]),
che si radica in una “falsa coscienza necessaria”[10] strettamente connessa con
i meccanismi di riproduzione sociali e del potere nell’accademia e nella
società, in particolare anglosassone. Abbiamo quindi sia una condizione
materiale, che influenza la piega del pensiero e dell’azione, come un paradosso
politico. Nelle condizioni materiali delle università occidentali di alto e
altissimo rango (Harvard, Columbia, NYU, Yale, etc.) molti teorici
postcoloniali scrivono per un pubblico già convertito, e di nicchia, usando per
necessità un linguaggio specializzato che esclude di fatto i
subalterni di cui parlano; per paradosso, dunque, la loro critica al potere resta funzionale al
sistema che denunciano, anche perché di fatto legittima l’Occidente come spazio
di “libera discussione”[11].
Se
si può anche concedere, tutti noi ci siamo passati, che nel contesto della
mondializzazione ascendente e nella fase della “fine della storia” e dell’unipolarismo
trionfante, il postmoderno apparisse come unico e residuale, al contempo più
profondo, spazio di resistenza almeno culturale (esemplare, come vedremo, la
posizione di Stuart Hall), oggi la storia si è rimessa in moto. Allora si
era in un contesto nel quale i riflussi erano nel pieno della loro forza, entro
e fuori le società occidentali, e le ripetute sconfitte dei movimenti del terzo
mondo, seguiti al crollo sovietico ed alla conversione cinese determinavano il
tono appropriato. Oggi, invece, nel contesto del tramonto dell’Occidente, e
della sfida multipolare ascendente, si riapre lo spazio per una critica che
conservi il rigore e la radicalità culturale, ma guardi all’azione. La sfida
torna quella indicata dall’ultimo Said: leggere il mondo per trasformarlo,
sapendo che il potere imperiale è anche fuori dei testi e ruggisce nel mondo.
Quel
che oggi serve è, in altre parole, un “pensiero nell'azione” che è quello che
si forma e si sviluppa all'interno dei movimenti sociali e politici. Un pensiero
che nasca con l'obiettivo esplicito di mobilitare, connettere e suscitare nuovi
soggetti e nuove forme sociali. Questo approccio, che valorizza la concretezza
degli effetti e si concepisce come una vera e propria arma per il cambiamento,
si deve contrapporre alla mera analisi discorsiva, radicandosi invece nella
vita e nelle esperienze. Bisogna, con una sola mossa, rifiutare quindi sia l’eurocentrismo
sia le derive essenzialiste o estetizzanti. Questa divergenza abita talvolta i
medesimi soggetti, e per certo il loro campo discorsivo. Ma attiene nella sua
essenza alla posizione di enunciazione, alle condizioni materiali della
formazione teorica, attiene a chi parla, soprattutto per chi e per
cosa, e da dove.

Lumbumba catturato dai golpisti
Panafricanismo
e oltre
La
linea di faglia che attraversa questi scritti è quindi sintetizzabile come opposizione
tra due progetti: il “panafricanismo”, da una parte, e la critica
culturale allo sviluppo ed all’Occidentalismo in esso implicato, dall’altro. Il
“Panafricanismo” è un ben specifico progetto geopolitico, che si ancora alla
intuizione dei W.E.B. Du Bois degli Stati Uniti d’Africa. Durante gli anni
Sessanta, nel contesto della decolonizzazione, viene portato avanti ad esempio da
Kwame Nkrumah, presidente del Ghana, incontrando la gelosia e gli scontri tra
il Gruppo di Casablanca e quello di alcuni leader gelosi delle speciali
relazioni con i paesi ex colonizzatori. Nel 1963 il movimento ripiega sulla Organizzazione
della Unità Africana (OAU), fondata ad Adis Abeba da 31 paesi africani. Dal
2002 l’organizzazione viene sostituita dalla Unione Africana. Fino alla
morte del presidente del Burkina Faso Thomas Sankara[12], l’organizzazione si
impegna nella prospettiva panafricanista e la lotta, quindi alle forme di
dominazione anche monetarie (al Franco CFA[13]). Seguiranno i tentativi
della Guinea di Ahmed Sékou Touré, il Mali di Modibo Keita, il Togo di Sylvanus
Olympio, tutti deposti o uccisi. Finì per unire nel comune destino
continentale, anche movimenti regionali, come quelli di Nasser (Gamāl ʿAbd
al-Nāṣir Ḥusayn[14]),
Ben Bella[15]
e Gheddafi[16].
Durante questo processo di aggregazione nel comune progetto di liberazione e
indipendenza dal dominio Occidentale, panafricanismo e socialismo svilupparono
una certa tendenza a fondersi. Il movimento aveva, quindi, un orientamento
tendente a forme africane di socialismo anticoloniale e venne preso nella polarità
tra il “movimento dei paesi non allineati” e la fedeltà sovietica ed al
marxismo. Nasser, ad esempio, fu sempre ostile al marxismo ed ebbe quali
principali oppositori, da una parte, la sinistra comunista, dall’altro il
fondamentalismo religioso rappresentato dai Fratelli Mussulmani[17].
La
reazione a questo progetto interna al movimento anticoloniale passa per la
denuncia del socialismo stesso come “eurocentrico”, mentre, quella esterna, passa
dall’eliminazione dei movimenti stessi e dei loro leader da parte delle potenze
europee e degli Stati Uniti. Si passò dall’omicidio di Lumumba a quello di
Cabral, a strategie di potenziamento dell’indipendenza economica, tramite
l’indebitamento e istituzioni come il Franco CFA, o tramite la fomentazione di
lotte interne.
Said
Boumama, contro l’essenzialismo
Said
Boumama, nato nel
1958, appartiene al primo polo della divaricazione. Autore di alcuni
libri in francese sul panafricanesimo rivoluzionario e marxista[18], l’autore francese di
origine magrebina spende una prima parte della sua opera per contrastare le
retoriche di copertura delle guerre coloniali. Tra queste spicca quella per la
quale l’Africa (insieme, di volta in volta, all’India, la Cina, il Sud e Centro
America) sarebbe un “continente senza storia”, caratterizzato in particolare
dall’essere solo l’area geografica di insediamento di società “primitive”, non
strutturate politicamente e senza stato, ancora allo stadio dei clan familiari
e delle tribù. Una visione che, come noterà Formenti, è stata rispecchiata per
reazione in una linea di critica vernacolare e comunitaria, essenzialista, la
quale reagisce ai fallimenti e le distorsioni dei tentativi di costruzione
nazionale post-indipendenza, tuttavia in sostanza prestandosi ad indebolirli e disarmarli.
Questa tesi è contrastata vigorosamente da Boumama il quale ha facile gioco a
ricordare come nell’immenso continente Africano (trenta milioni di chilometri
quadrati, tre volte l’Europa, e inferiore solo all’Asia, che ne misura
quarantaquattro, e alle Americhe, che ne misurano quarantadue) sono stati
presenti grandi realtà statuali e anche imperi, sia in Africa Settentrionale
(basti ricordare l’Egitto) come in quella Subsahariana[19]. Casomai si dovrebbe
parlare quindi di interruzione violenta della storia. Né si può contrabbandare
la colonizzazione francese dei popoli berberi come “liberazione” dagli arabi,
o, paradossalmente e crudelmente, dallo schiavismo endemico centroafricano.
Esiste una cruciale differenza tra le forme di sfruttamento, anche comunitarie
ed articolate, e di tratta, precapitaliste e autoctone e quella che la sete di
manodopera servile delle colonie d’oltremare ‘aspira’ per circa due secoli dal
continente: l’illimitatezza della pulsione all’arricchimento personale, e
l’agency del capitale stesso, votato al suo autoaccrescimento. Questo spirito
pervade le élite locali e le corrompe, contribuendo alla destrutturazione
dall’interno delle società locali, anche molto ricche e strutturate.
L’universalismo
‘occidentale’ nasconde tali effetti corrosivi tramite due linee retoriche: da
una parte afferma che non ci sono ‘civilizzazioni’ oltre a quella europea;
dall’altra pretende l’autosufficienza di questa. Criticando entrambe, che assimila
a linee di sottomissione, Boumama si sforza di porre in evidenza come il mito
di società precoloniali armoniose, integrate nella natura e senza conflitti
interni di classe, non sono altro che una delle forme dell’assorbimento
inconsapevole della narrazione coloniale. Assorbimento tradotto in un
“essenzialismo”, di cui fu campione Leopold Senghor, e spesso tradotto nella
formula di “negritudine”. Con esso si finisce per vedere il nero come
“uomo della natura”, in comunione con terra e cosmo. I neri sarebbero per
propria natura caratterizzati da un modello di razionalità
“intuitivo-partecipativo” (e non logico-discorsivo) e non antagonistico. Questa
reazione identitaria, anche utile in una primissima fase per sollecitare una
sorta di orgoglio comune, si presta tuttavia a frammentare e isolare le
rivendicazioni, (divise in “negritudine”, “arabitudine” e “berberitunine”) le
une contro le altre.
Dunque,
per Boumama, questo identitarismo essenzialista deve essere contrastato sulla
base della riaffermazione del progetto “panafricano” che si riconosce e fonda
nell’esperienza opposta dello sradicamento e nella comune esperienza della
dominazione razzistica e coloniale. In definitiva la proposta di Boumama è di
rilanciare un panafricanismo politico ed economico, volto alla valorizzazione
della lezione di Samir Amin[20], per economie più
interconnesse internamente all’Africa e più autonome, con istituzioni anche
statuali forti, le quali si ancorino in élite capaci di federarsi e creare
stati plurinazionali unitari, sulla base del modello bolivariano. La questione
posta da Samir Amin, nel suo testo del 1973, Lo sviluppo ineguale[21],
individua i tipi ideali di cinque “modi di produzione” che si intrecciano e in
parte sovrappongono o sostituiscono nella storia africana, cinque: la forma
comunitaria primitiva[22]; la forma tributaria[23];
il modo schiavistico di produzione[24]; il modo mercantile
semplice[25];
il modo di produzione capitalista[26].
La maggior parte delle società precapitaliste sono delle formazioni
“tributarie” in cui persistono ambiti “comunitari” e “mercantili”. Il punto è
sempre di comprendere quale forma è dominante e quindi di che surplus vive
la società. In particolare, se il surplus che rende possibile la forma
sociale sia proprio o trasferito. Quindi, prima della piena affermazione
del capitalismo si può dire sia un surplus generato in proprio nelle
società “tributarie” ricche, ovvero fondate su un’economia interna ricca (come
l’Egitto, la Cina), è invece trasferito nelle società fondamentalmente
“commerciali” (come il mondo arabo o in parte greco) o “schiaviste” (come il
mondo romano). La questione diviene capire quale forma di alienazione rende
possibile il prelievo del surplus senza fare esclusivo riferimento alla
violenza, dato che nessuna società può essere ridotta alla sua infrastruttura.
Nella forma di società capitalista, fondata sulla produzione industriale e gli
scambi a lunga catena di dipendenze, la razionalità è, per Amin, limitata “dal
rapporto sociale fondamentale che definisce il saggio del plusvalore, cioè il
saggio dello sfruttamento del lavoro; per un altro verso, dai rapporti sociali
secondari che definiscono le relazioni fra la borghesia e i proprietari
fondiari che controllano l’accesso a talune ricchezze naturali”[27]. In conseguenza, la
risultante del calcolo economico è “irrazionale dal punto di vista sociale”, in
quanto resiste alla necessità che il livello di sviluppo delle forze produttive
(enormemente elevato) sia posto a servizio dell’intera società. Ne consegue, e
qui trova senso la “sostituzione delle importazioni” (che è un altro modo di
dire “delinking”), che un diverso calcolo economico deve prendere a orizzonte
il tempo lungo, deve ricercare sistematicamente le soluzioni che riducono al
minimo il tempo di lavoro socialmente necessario ed essere orientato alla
produzione utile per i bisogni della società. Il fine del sistema non deve
essere più la massimizzazione del plusvalore, ma del prodotto effettivamente
utile e tale da conservare le risorse sociali e naturali[28]. Per Amin la teoria della
specializzazione internazionale (la teoria dello sviluppo) nasconde
semplicemente il fatto che l’interesse superiore di un paese è sviluppare
centri produttivi che possano innescare una crescita autosostenuta e sfuggire
allo “sviluppo ineguale”[29]. E questa dipende
essenzialmente dalla crescita dei redditi reali per una quota maggioritaria
della popolazione, in conseguenza dall’espansione della domanda interna.
Nel
secondo libro[30]
Boumama si occupa della Francia, con riferimento all’esperienza migratoria,
sottolineando la funzione stabilizzatrice dell’importazione di forza lavoro
debole funzionale alla riproduzione capitalista. In esso viene ricostruita una
storia delle diverse ondate migratorie, sia interne (tra le regioni depresse e
quelle dinamiche, ad esempio quella dei bretoni) sia esterne (europee in un
primo momento, quindi africane). In questo contesto il razzismo assume una
veste funzionale specifica. È, in effetti, una modalità essenziale di
classificazione sociale, che si nutre della tesi per la quale le eredità
culturali sono reciprocamente intraducibili, per cui nelle Banlieu, ad esempio,
francesi di seconda e terza generazione continuano ad essere osservati e
considerati in fondo stranieri. È la “linea del colore” che attraversa la
società francese. In base a questa tesi influente la società, prima di
disgregarsi, potrebbe accettare solo una piccola parte di immigrazione
culturalmente diversa.
Okoth,
lottare per l’internazionalismo nero
Nel
secondo post[31]
Formenti illustra la figura di Kevin Ochieng Okoth che aggiunge a questa
prospettiva, in un libro di prossima pubblicazione per Meltemi[32], il rafforzamento del
rifiuto a rigettare integralmente il marxismo solo perché “Eurocentrico” (una
frettolosa liquidazione molto comune nel contesto dei “cultural studies”
postcoloniali[33])
e un inquadramento delle lotte nel continente come fattore determinante per
l’affermazione di uno spirito ‘panafricanista’. Il focus dell’autore è
l’internazionalismo nero che, una cinquantina di anni fa, a partire dal lascito
delle mobilitazioni degli anni Sessanta e quindi Settanta, determinò una
stagione di grandi speranze sulle due sponde dell’atlantico. Ciò che si chiede
Okoth è se questa stagione, e quel che ha seguito (si pensi, da ultimo, al
movimento Black Live Matter, “Le vite nere sono importanti”), sia
specifica della “blackness”, o possa dialogare con le altre lotte anticoloniali
e antimperialiste, reciprocamente traducibili; in secondo luogo, se la teoria
marxista resti in grado di interpretare l’insieme delle rivendicazioni
(economiche, razziali e coloniali, di genere) o sia inficiata da una “whitness”
(come dice Robinson) che alla fine la inficia; in terzo luogo, se i residui
comunitari rivendicati, da parte del movimento dei “cultural studies” in Africa,
siano da considerare regressivi o possano essere ritenuti portatori di un
potenziale anticapitalistico utile e mobilitabile; in quarto, se la nascita di
stati-nazione in Africa sia da considerare a sua volta una parte del retaggio
eurocentrico e coloniale, e quindi un “dono avvelenato” dei dominatori – come
sosteneva Toni Negri[34] – oppure sia una tappa
ineludibile sulla via dell’indipendenza.
Si
tratta di domande cruciali e centrali. Okoth ricorda il cruciale periodo che
intercorre tra il secondo decennio del dopoguerra, al termine della Guerra di
Corea, nella quale gli Stati Uniti sono arrestati dalla lotta congiunta del
popolo coreano del Nord e cinese, e la Conferenza di Bandung[35]
del 1955 e la crisi petrolifera, avvio della ristrutturazione capitalista degli
anni Settanta e della crisi sovietica. Un periodo nel quale prende corpo il
tentativo dei molti movimenti anticoloniali e nazionalisti di mettere in campo
un “Movimento dei paesi non allineati”[36] che si fondasse sulla
solidarietà anticoloniale, anziché su inesistenti affinità razziali e
culturali. Ovvero, su una lotta politica e non essenzialista (né in senso
razziale, né culturale o ideologica). Si oppose allora a questo progetto una
sorta di doppio movimento: l’arretramento combattendo del vecchio colonialismo
europeo e l’avanzata di una forma di dominio indiretto e mediato dalle grandi
aziende multinazionali del nuovo neo-colonialismo statunitense. Un neo-colonialismo
fatto di basi, dinastie compiacenti, classi ‘compradore’ premiate dai flussi
estrattivi, esportazione della ‘cosmotecnica’ occidentale. Nel laboratorio di
questo ventennio troviamo quindi contaminazioni positive, come Malcom X[37] che viaggia per l’Africa
attraversata dai fermenti di liberazione e riporta un nuovo spirito nelle lotte
antirazziste che lo vedono impegnato in patria (azione che gli costerà, di lì a
poco, la vita). Oppure come il Black Campus Movement[38]
del decennio 1965-75 in cui un originale miscuglio di marxismo, nazionalismo e
panafricanismo preoccupa l’establishment statunitense. Ancora, i Black
Studies[39],
che negli anni Ottanta si sforzano di formare intellettuali organici a questo
clima di lotta.
Malgrado
questi fermenti le due reazioni che Okoth descrive, sul transito tra gli anni
Settanta e Ottanta, sono svolte sul piano della sistematica neutralizzazione
della leadership militante (in parte incarcerata, in parte uccisa dentro e
fuori le carceri), in parte marginalizzando gli intellettuali più radicali e
sostituendoli con moderati. Le coordinate culturali di questa restaurazione
sono, per Okoth, gli Studi decoloniali e un clima pessimistico che
chiama “Afropessimismo 2.0”. Frank Widerson e Jared Sexton, che ne sono
gli alfieri, mettendo in campo una tesi apparentemente radicalissima, ma come
quella di Michel Foucault con implicazioni disattivanti: la soggezione dei neri
non è dovuta a meccanismi economici o politici, bensì ad una necessità
intrinseca ed ineliminabile della modernità stessa. Una ‘necessità ontologica’.
Studi
decoloniali, lottare per il linguaggio
Invece
gli Studi decoloniali sono espressione del coevo clima postmoderno, non
per caso emersi negli anni Novanta e nei Dipartimenti di Letteratura, sulla
base di una critica per radicalizzazione ai Black Studies e agli Studi Post-Coloniali,
giudicati ancora troppo eurocentrici; per essi, la lotta deve andare più in
profondità e radicarsi nel linguaggio e nella cultura, anziché nel politico e
nell’economia. Ciò da cui bisogna sconnettersi non sono tanto le banche o le
imprese occidentali, quanto il suo episteme occidentale (a partire dalla
nozione di “sviluppo”. Walter Mignolo, un intellettuale argentino che insegna,
come in pratica tutti (e non per caso[40]) nelle università
statunitensi, parte dal presupposto, dominante negli anni del riflusso, che il
movimento anticoloniale ha fallito, in parte in quanto riassorbito ed in parte
tradottosi in governi nazionalisti e corrotti. Quello da cui bisogna liberarsi
non è dunque il controllo dell’economico occidentale, creando proprie
traiettorie di “decollo”, quanto la concettualità della “cosmotecnica”
occidentale, e dunque, tra l’altro dalla stessa nozione di economia e di
sviluppo. Gli esponenti di queste scuole, che, come detto, proliferano
in particolare nei dipartimenti di letteratura tendono a liquidare il marxismo
ed ogni forma di statualità (accusata di ‘statalismo’). Per essi la colonia è
costruita essenzialmente nel linguaggio e nell’immaginario (come sostengono
Said[41], Bhabha[42] e Spivak[43]), occorre dunque
rifiutare dell’occidente il suo episteme e recuperare i saperi degli “Altri”
(Mignolo e Quijano), valorizzare le ibridazioni diasporiche (Stuart Hall[44], Achille Mbembe[45] e Mudimbe). Le accuse a
questa influente ed interessante (piena di intuizioni importanti) corrente, è
di astrazione ed accademismo, negare il marxismo, anarchismo e disancoramento
dalle lotte. Secondo una immagine nota, rischiano di “gettare il bambino con
l’acqua sporca”.
Contro
la “negritudine”
L’effetto,
per Formenti e per Okoth, di questa egemonia, che vede il marxismo come
irrimediabilmente eurocentrico e con esso tutte le teorie critiche
dell’Occidente collettivo (ed arriva a rigettare in toto anche momenti di
autocoscienza come quello rappresentato da Bartolomeo de Las Casas,
chiedendogli di pensarsi fuori del suo tempo) contribuisce, nel suo
funzionamento materiale e al di là delle lodevoli intenzioni, a rafforzare
l’egemonia delle neoborghesie postcoloniali.
In
Africa viene particolarmente sottolineata la posizione di Senghor e della sua
“negritudine”, che sulla base delle intuizioni di Aimée Césaire ed altri, di
fatto ha rappresento una via di fuga dal socialismo e dal marxismo verso non
ben chiare specificità “africane” ed un comunitarismo presunto e radicalmente
Altro. D’altra parte, si è trattato di una linea di conflitto interna anche al
campo socialista: leader come Kenyatta, Touré e Nyerere si sforzarono di
“africanizzare” il socialismo, non per caso sincronicamente alla perdita di
influenza sovietica, e finirono per respingere in toto il marxismo come
ideologia contaminata dall’eurocentrismo.
Okoth
ha una tesi drastica su questo movimento, come rileva Formenti, “liquida questo
approccio accusandolo senza mezzi termini di essere una mascheratura
ideologica delle borghesie nazionali per giustificare la propria resa agli
interessi imperialisti occidentali, come dimostra il fatto che tutti questi
regimi hanno represso le opposizioni di sinistra”[46]. Al contrario, i
movimenti delle ex colonie portoghesi, Guinea Bissau, Capoverde e Mozambico,
che chiama “Red Africa”, influenzate dalla loro composizione di classe e
dal “Movimento dei Garofani” che nel 1974 rovesciò il fascista Salazar
in patria, conservarono una lettura marxista e sulla spinta di leader come
Amìlcar Cabral cercarono di sperimentare forme di democrazia diretta e
partecipativa avanzate.
In
definitiva Formenti estrae dalla critica di Okoth al nesso tra transizione
socialista e culture tradizionali il difficile quesito se il valore universale
di un’esperienza rivoluzionaria si possa misurare “in relazione alla sua
approssimazione a un qualche dogma teorico”, anziché per i suoi risultati. Ovvero
se sia possibile individuare “un criterio universale di giudizio che non sia il
prodotto ‘locale’ della razionalità occidentale”. Sulla questione dello
stato-nazione, una delle cartine di tornasole di questa domanda, Okoth, ad
esempio, da una parte critica l’esaltazione neo-anarchica dei “maroons” e delle
loro comunità autosufficienti e autogestite (tutte troppo deboli per resistere
alle offensive coloniali e statuali, e quindi distrutte, prima o poi)
valorizzate da Robinson, dall’altra non sembra allontanarsi dalla posizione
negriana sul punto[47], arrivando al punto di
esaltare Andrée Blouin[48], una femminista nera che
sostiene che, se avessero comandato le donne, la rivoluzione anticoloniale
avrebbe avuto tutt’altro esito. Come sostenevo altrove[49], riemerge quella tendenza
al messianismo, ovvero ad una sorta di trasfigurazione secolarizzata della
pressione per il riscatto completo ed immediato, quindi per la purezza. Come
scrivevo:
“Quello che il messianismo, spinta
naturale e perfettamente comprensibile in chi dalla vita ha avuto sempre e solo
sconfitte, promette è, niente di meno, che il nuovo mondo non assomiglierà in
nulla a quello passato. In esso si avrà un ‘totalmente altro’. Alcuni esempi
propri della tradizione comunista sono rappresentati dall’eterno ritorno del
mito della dissoluzione dello Stato. Quello Stato di cui i ceti popolari vedono
normalmente solo la faccia matrigna e del quale quindi non comprendono il
funzionamento complesso. Chi ha spesso subìto tende spontaneamente a essere
antiautoritario (senza fare distinzione tra autorità, autorevolezza,
oppressione e potere), ma in questo modo, se ha successo, spinge senza volere
verso un rovesciamento. Dopo aver vinto rende impossibile qualsiasi decisione
secondo regole generali, fondata sul consenso e le ragioni appropriate, quindi
sul controllo democratico, e, con ciò, finisce di fatto con il favorire
l’esercizio del potere arbitrario di una stretta minoranza. Quello che si
identifica come ‘anti-autoritarismo’ si rovescia quindi spesso nel ‘comunismo
di caserma’. Questa attesa del ‘totalmente altro’, ovvero di ciò che, per dirla
con Benjamin, fa saltare il continuum della storia, torna sempre a galla”[50].
Antonio
Negri, e la corrente post-operaista che rappresenta, ma anche buona parte della
Nuova Sinistra Radicale nella prima fase, quindi, quando le rivolte
anticoloniali stanno prendendo il potere, ma sono nella fase eroica (anni
Cinquanta e primi Sessanta), appoggiavano romanticamente ogni lotta. Ma quando
il potere è preso e va gestito, allora il marxismo diventa “eurocentrico”, lo “sviluppo”
pure, e la “tecnica” coincide con l’Europa, come la “modernità”. Allora si
passa a dire che “dall’India all’Algeria, da Cuba al Vietnam, lo Stato è il
regalo avvelenato della liberazione nazionale”[51].
Evidenziando unilateralmente questo rischio e dilemma reale[52],
gli autori concludono che: “il nazionalismo delle lotte anticoloniali e
antimperialiste funziona effettivamente al contrario e i paesi liberatesi dal
dominio coloniale si ritrovano infine sottomessi all’ordine economico
mondiale”. Dunque, per Negri il concetto di sovranità è ambiguo, “se non
completamente contraddittorio” (in ciò si manifesta il passaggio dal dominio
diretto, coloniale, all’impero che è oggetto del testo).
Come
proseguivo:
“Il paragrafo che ha titolo ‘Il
regalo avvelenato della liberazione nazionale’, contenuto in Impero, è
da questo punto di vista esemplare: parte dal riconoscimento che la sovranità
nazionale, nel contesto delle lotte di liberazione coloniale, ha significato
libertà dal dominio straniero e autodeterminazione dei popoli. Ma, ottenuta la
sconfitta del colonialismo, denuncia la circostanza per cui ‘la funzione
progressista della sovranità nazionale è sempre stata accompagnata da potenti
strutture di dominio interno’. Da qui, trascurando di prendere in carico la
funzione di questo ‘dominio’ verso le forze interne Negri e Hardt proseguono
concludendo che, quindi, lo sforzo dei leader post-coloniali, da Gandhi a Ho
Chi Minh, di modernizzare il Paese sia solo un ‘trucco perverso’.”[53].
Questa
influente posizione è del tutto sincrona con l’emergere del clima ‘decoloniale’
e lo accompagna con i successivi libri della “trilogia”, ovvero Comune. Oltre
il pubblico e il privato[54],
del 2009, e Assemblea[55],
del 2017.
Cabral,
la rivoluzione
Infine,
per terminare il primo ciclo delle letture di Formenti, troviamo Amílcar Cabral,
nato in Nuova Guinea nel 1924 e assassinato nel 1973, subito prima del trionfo
della rivoluzione anticoloniale per la quale si era speso. Cabral riteneva che
il percorso della rivoluzione che promuoveva contro il Portogallo di Salazar
dovesse trovare il proprio percorso intorno alle caratteristiche specifiche
della situazione man mano che queste si definivano nell’azione. E in fondo
sulla base di pochi principi: liberarsi del dominio straniero, trovare la
strada per uno sviluppo economico e sociale, ma senza perdere il controllo
popolare su di questo. In particolare, l’azione insurrezionale fu sempre
strettamente connessa con le condizioni sociali del Portogallo (una nazione
povera dalla quale partivano molti coloni, anche al fine di riduzione delle
tensioni interne) e dei diversi ambienti sociali locali. Le città, definite da
una segmentazione sociale a strati, la quale assicurava il controllo dall’alto
al basso, ma perdeva spesso la fedeltà della piccola borghesia indigena (tra la
quale Cabral stesso) che in molti casi si è piuttosto connessa agli strati
popolari. Questo è stato il carburante e, allo stesso tempo, il nucleo organizzativo
della mobilitazione. Nel resto del paese insistevano larghe masse di contadini,
i quali non avevano, tuttavia, tradizioni di rivolte contro il potere urbano
(le campagne non assediavano le città), e restavano divise in numerosi gruppi
etnici e religiosi: i Balantes, tribali e comunitari, i Fula, mussulmani e
gerarchicamente strutturati, con una sorta di nobiltà e vincoli di corveè per i
contadini. I primi furono mobilitabili, i secondi molto meno. L’aggregazione
necessaria per raggiungere la massa necessaria a condurre la lotta fu raggiunta
dall’azione insistita di un partito (il PAIGC) che si ispirò all’esempio cubano,
sforzandosi in una prima fase di attivare i settori patriottici della piccola
borghesia urbana, per poi arrivare solo in seguito alle masse contadine. L’azione
di Cabral valorizzò la cultura nazionale, pur nella sua eterogeneità, come
fattore decisivo di resistenza alla dominazione coloniale. Ciò può avere
portato ad una certa assonanza con i teorici della “negritudine” e della “blackness”,
ma in realtà l’agronomo guineiano era perfettamente cosciente del rischio di un’esaltazione
acritica della realtà sociale e delle tradizioni precoloniali (per lo più “inventate”)
di una tendenza comunitaria, egualitaria e connessa armonicamente con la natura.
“Return to the source” e “ri-africanizzare” sono slogan cabraliani, ma
intendono la ripresa di una traiettoria entro le mutate condizioni, non il
ritorno impossibile ad una purezza mitica. Tuttavia la cultura locale, se pure
sistematicamente colpita dalla dominazione coloniale, ha innescato entro di sé
i movimenti di resistenza e conservato una qualche continuità. Continuità sulla
quale fare leva per attivare le energie popolari e alimentare la guerriglia,
che si è mossa dall’occupazione del territorio interno verso l’esterno. Dalle zone
occupate fu quindi costruito il nuovo stato liberato, e le sue istituzioni, man
mano che si affermavano. E queste nuove istituzioni presero l’avvio dalla
connessione tra piccola borghesia e classi contadine, attesa la debolezza della
vera e proprio classe operaia.
Cabral,
Okoth e Abumama, sono, per Formenti, uniti dalla loro critica all’universalismo
occidentale, al mito dei “popoli senza storia” e la pretesa di attribuire alle
tradizioni greco- latine o ebraico-cristiane il monopolio del progresso, sia
esso culturale, sociale o politico. D’altra parte, in tutti e tre i casi, ciò
non ha significato aderire acriticamente alla narrazione essenzialista e al
culturalismo della tradizione decoloniale letteraria. Né si sono abbandonati ad
assumere la critica al marxismo in quanto “eurocentrico”.
Walter
Rodney, la dipendenza
La
ricognizione di Formenti prosegue con la lettura di un altro importante militante
e teorico, Walter Rodney, autore di The Russian Revolution. A View from the
Third World[56]
e di Decolonial Marxism. Essays from the Pan-African Revolution[57].
Il primo è una raccolta postuma di appunti e lezioni tenute all’Università
di Dar es Salaam, sulla rivoluzione Russa, il secondo è una raccolta di saggi
inediti sul marxismo decoloniale e sulla rivoluzione panafricana, il Black Power
i villaggi Ujamaa e le lotte anticoloniali. Rodney, si mosse molto tra i
diversi paesi in via di mobilitazione, fino a che fu ucciso a trentotto anni
nel 1980. Storico e docente universitario, fu espulso dalla Jamaica nel 1968 e fu
fondatore del Working People’s Alliance. Fu autore anche di How Europe
Underdeveloped Africa, del 1972[58], una estremamente
influente opera nella quale sostiene che il sottosviluppo non è una condizione
originaria o naturale dell’Africa, ma il risultato dell’intervento europeo con
la tratta atlantica prima e la colonizzazione diretta, dopo. Infine, con l’inserimento
subalterno nei circuiti del capitalismo internazionale. Il saggio, che è la sua
opera più importante, è chiaramente connesso con le teorie della dipendenza[59] e legge la storia
africana da una prospettiva marxista che riesce ad influenzare autori decisivi
come Ngũgĩ wa Thiong’o, Amílcar Cabral, Samir Amin, Angela Davis. Una famosa citazione
è:
“The question
as to who and what is responsible for African underdevelopment can be answered
at two levels. First, the answer is that the operation of the imperialist
system bears major responsibility for African economic retardation. Second, one
has to deal with those who manipulate the system and those who are either
agents or unwitting accomplices of the system.”[60]
Secondo
la tesi di Rodney le società africane erano dunque autonome, altamente
complesse, dinamiche e diversificate, avevano una propria specifica cultura e
politica ed erano in grado di sviluppare forme di commercio intercontinentale
(alcuni esempi, l’impero del Mali, il Ghana e Songhai). L’immagine di un’Africa
“primitiva” è in sostanza una costruzione coloniale di legittimazione della stessa
accumulazione originale europea, largamente fondata sulla schiavitù africana. Peraltro,
anche nella fase successiva, della dominazione coloniale diretta, le economie
africane, destrutturate dall’estrazione schiavistica, sono state ristrutturate per
servire gli interessi europei e quindi in termini di monocolture di esportazione,
infrastrutture di trasporto connesse, lavoro forzato e imposizione fiscale
opprimente. Anche dopo la liberazione le dipendenze sistemiche sono spesso
rimaste attive, e sono state coltivate tramite élite ‘compradore’ interne e
aiuti volti a conservare i paesi in stato di costante indebitamento.
Rodney
si riferisce al marxismo come quadro di senso generale, ma non manca di
riconoscerne e criticarne l’eurocentrismo. Il testo di Rodney è stato a lungo
il manifesto dei movimenti panafricanisti e anticoloniali negli anni Settanta e
Ottanta.
Nei
due testi analizzati da Formenti Rodney parte da una discussione della
rivoluzione Russa come risposta contestuale e creativa alle condizioni specifiche
del paese, sostenendo che la medesima creatività va applicata alla condizione
africana, senza aver paura di appoggiarsi anche a forze nazionaliste, che
possono anche non essere sempre reazionarie, ma vanno valutate nelle condizioni
specifiche e date. Ad esempio, il nazionalismo africano spesso affonda le sue
radici nella resistenza opposta alla prima penetrazione del potere europeo, e
può essere un potente fattore culturale di resistenza. D’altra parte, il cosiddetto
‘comunitarismo africano’ è spesso servito, per Rodney, per nascondere teorie pseudo-socialiste,
alla Senghor, che evitano di fare i conti con i rapporti di classe nella
società postcoloniale e danno vita a narrazioni romantiche.
Classici:
Du Bois.
Dopo
la lettura di Rodney viene una ricognizione della generazione precedente, i “classici”
Du Bois, Padmore, Williams, James e Cesaire. Il primo è Du Bois, nato nel 1868
nel Massachussetts da immigrati, fu il primo afroamericano a conseguire il
dottorato ad Harvard e divenire professore di storia, insegnando nell’Università
di Atlanta. Fino agli anni Trenta restò di orientamento
democratico-progressiste e poi si avvicinò al marxismo, aderendo solo nel 1961,
ad oltre novanta anni, al Partito Comunista Americano. Sarà l’esperienza del permanere
della condizione di segregazione a fargli progressivamente mutare posizione, ma
anche l’allineamento delle élite nere che progressivamente diventano una
minoranza conservatrice. Raggiunta una più matura consapevolezza, Du Bois si
rende conto che la “linea di colore” che attraversa la società americana rende
necessario capire lo schiavismo come sottosistema dello sviluppo capitalistico
internazionale. Ovvero, come sottolineerà anche Robinson dopo di lui, che è in
quanto lavoratori inseriti nel ciclo di valorizzazione che i neri trovano un
posto nel sistema americano. Bisogna, dunque, capire lo schiavismo moderno,
alla scala imposta dalla valorizzazione del capitale. Ovvero come sottosistema
del più generale ciclo di produzione di prodotti primari (cotone, caffè,
zucchero) inseriti nel processo di produzione di merci e nel commercio
internazionale, e connessi con la disponibilità di capitali di investimento. In
altre parole, come parte del modo di produzione capitalista esteso al sistema-mondo
pertinente (non a tutto il pianeta, ma a quegli insiemi di relé economici e
sbocchi di consumo che sono effettivamente connessi strettamente con l’ecosistema
produttivo americano). Fare ciò rende possibile, per Du Bois, comprendere la
parzialità del punto di vista “essenzialista” che isola astrattamente il
conflitto razziale e lo naturalizza. Naturalizzare la differenza svolge la
funzione di impedire la ricomposizione degli interessi di classe (determinati,
quindi, dalla posizione strutturale nel sistema di valorizzazione per come
concretamente si dà ed evolve).
La
seconda parte del contributo che la lunga vita di Du Bois è riferibile alla descrizione
della soggettivazione dei neri americani. In opere come The Souls of Black Folk[61],
riesce a fondere insieme l’analisi sociologica (ante litteram), la memoria
personale e il lirismo, individuando una soggettività in evoluzione. Identità
in bilico tra l’esperienza dolorosa della discriminazione e del razzismo
sistemico e violento e la dignità, l’eredità culturale (di sintesi e diasporica)
e la forza spirituale comunitaria. Il tema fondamentale è la cosiddetta “doppia
coscienza”, una peculiare sensazione che passa per il “guardare sempre se
stessi attraverso gli occhi degli altri” (“this sense of always looking at
one’s self through the eyes of others”). Occhi che sono come oltre un “velo”
che impedisce al bianco di vedere il nero e rinvia al nero l’immagine di sé che
il bianco ha di un essere minore, infantilizzato e incompleto. The Souls viene
considerata la prima grande opera letteraria e politica dell’identità
afroamericana. L’influenza dell’opera si rintraccia ovunque, da Ralph Ellison,
James Baldwin, Toni Morrison, Bell Hooks, e, ovviamente, Fanon in Pelle
nere, maschere bianche[62]
(1952) come in I dannati della terra[63]
(1961). L’uomo nero non è più per sé, ma immaginato e deformato, quindi
colonizzato dal punto di vista del bianco; per cui il nero è portato a negare
se stesso e mettere “la maschera bianca”. Quando un bambino bianco, ad esempio
su un treno, grida “guarda un negro!” lui si trasforma in un oggetto e la
razzializzazione viene incisa nella carne.
Classici:
Eric Williams e Robert James
L’analisi
continua con Eric Williams e Robert James, entrambi di Trinidad, di cui il
primo fu primo ministro dopo l’indipendenza, mentre il secondo esponente di
spicco della diaspora londinese e membro eminente del movimento trotskista. Il libro
più importante di Williams è Capitalismo e schiavitù[64],
del 1944, scritto come tesi di dottorato nel 1938. L’opera introduce alcuni elementi
che resteranno nel dibattito: il primo è che la schiavitù fu introdotta per
sostituire la forza lavoro nativa, decimata dalla conquista e dalle condizioni
di lavoro, e per le migliori condizioni psicologiche e di soggezione ricavabili
da una popolazione sradicata molecolarmente (individui separati ed estratti
dalle loro culture, ma abili nella gestione agricola); quindi che la schiavitù
si impose sulle alternative perché il capitale andò incontro ad un processo di
concentrazione che impose la forma della grande piantagione industrializzata,
rispetto alla produzione decentrata, nella quale il modello migliore era dato
dal lavoro bianco povero; ancora, che la successiva abolizione non fu l’effetto
di una rivolta morale (che ci fu), quanto del mutamento del sistema di
valorizzazione capitalista in mutate condizioni internazionali; che,
soprattutto, è stata la necessità di razionalizzare e giustificare il fatto
della produzione schiavista a far nascere il razzismo, e non il contrario (di
qui il concetto di “razzialismo”, introdotto da Cedric Robinson); che il modo
di produzione basato sulla grande piantagione con schiavi fu decisiva per l’affermazione
del capitalismo industriale, e non viceversa. Per fondare tali tesi, nel
contesto di evidenti feedback, Williams allarga l’analisi al commercio “triangolare”
europeo, nel quale Inghilterra e Francia forniscono le navi negriere, mentre l’Africa
“fornisce” la forza lavoro e le colonie le materie prime (zucchero, tabacco,
cacao) che in contesto di monopolio imposto dalle armi determina la vigorosa
crescita economica e quindi industriale (per lavorare le materie prime, vendute
in altre colonie) dell’Europa del XVIII secolo. Ad arricchirsi furono quindi le
città portuali come Bristol e Glasgow, Liverpool o Bordeaux, ma anche i centri
di destinazione, come la Manchester centro della rivoluzione industriale e
visitata da Engels negli anni Quaranta dell’Ottocento. Il meccanismo determinò
una “causazione circolare e cumulativa”[65] che poi venne sopravanzata
e abbandonata, come una scala giù usata, dall’affermazione della rivoluzione
industriale avanzata, che richiese una forza lavoro diversa.
James
è, invece, l’autore di Giacobini neri[66],
straordinario libro dedicato alla storia della rivolta dei neri di Santo
Domingo, ovvero Haiti (1791-1804) che anticipò la rivoluzione Francese e,
grazie alla enorme produttività delle piantagioni che arricchivano gli ambienti
borghesi nella Francia continentale dai quali nasceranno i fermenti
rivoluzionari inserì nel contesto del tempo tensioni decisive. La rivoluzione
haitiana, nella lettura di James è una tradizione sommersa che rappresenta una
fondamentale cesura nella storia del colonialismo e razzismo. Una vera e
propria distruzione dell’ordine coloniale per mano di schiavi ribelli
rappresentò per la mentalità del tempo l’irruzione dell’impensabile nella
storia. Le quattro fasi[67] della rivoluzione
mostrarono l’imporsi di una soggettività politica nera nello spazio atlantico,
ma anche la nascita difficile di uno Stato post-coloniale con specifici
conflitti interni etnici e di classe e la forma di una inedita piantagione
post-schiavistica. Le conseguenze fu che la rivoluzione nera si propagò nelle
Americhe, provocando la rivolta in Venezuela del 1795, il tentativo di Gabriel
Prosser a Richmond in Virginia nel 1800, la cospirazione di Aponte a Cuba nel
1812 e l’imponente rivolta di New Orleans del 1811
Classici,
George Padmore
Infine,
George Padmore[68],
pseudonimo Malcom Nurse, il quale nacque nel 1902 e morì nel 1959; fu impegnato
nei movimenti anticolonialisti e dirette “The Negro Worker”[69], dopo l’adesione al Partito
Comunista, fino al 1934, e la sua espulsione da questo, si impegnò nel
movimento panafricanista e fu un consigliere di Kwame Nkrumah, il primo presidente
del Ghana. La sua figura è importante quindi per la transizione dal comunismo
di scuola stalinista al panafricanismo indipendentista e non allineato. La sua
tesi della somiglianza tra imperialismo inglese e fascismo. La rottura con il
movimento comunista internazionale avviene su un punto molto specifico, come
scrive Formenti:
“[ciò che] Padmore non poteva
tollerare era il disinteresse nei confronti delle lotte dei popoli coloniali.
L’incapacità di comprenderne le aspirazioni, sia da parte del Comintern che da
parte delle sinistre europee occidentali, era infatti un chiaro sintomo di altre
due incomprensioni: in primo luogo, del fatto che i relativi privilegi delle
masse dei Paesi occidentali si fondano sull’oppressione e lo sfruttamento di
centinaia di milioni di esseri umani degli imperi coloniali; secondariamente,
del fatto che la disillusione degli immigrati sbarcati in Gran Bretagna e negli
Stati Uniti in cerca di democrazia e di una vita dignitosa avrebbe potuto
rappresentare, assieme alle lotte anti-coloniali, un potente detonatore per la
rivoluzione mondiale. Una cecità cui non era estranea l’ideologia razzista che
le borghesie occidentali erano riuscite a inculcare nei lavoratori bianchi”[70].
Da
ultimo, Aimé Césaire che fu leader politico iscritto al Partito Comunista
Francese, nato nel 1913 e morto nel 2008, prese anche lui le distanze dal
movimento comunista nel 1956, accusandolo di sottovalutare il ruolo della lotta
anticoloniale per l’emancipazione dell’uomo. Fu l’autore che coniò, con Leopold
Senghor il concetto di “Negritudine”, diretto a contestare la pretesa
degli europei di superiorità culturale e civile. Si trattava di una cosciente apologia
sistematica delle civiltà distrutte dall’imperialismo, attribuendogli un’essenza
comunitaria e non gerarchica, fondata sulla cooperazione fraterna e non solo pre-capitalista,
quanto anti-capitalista. Anche Césaire connette Hitler all’albero genealogico
europeo, leggendolo come legittimo continuatore ed erede dell’imperialismo
francese e inglese. In una delle sue formulazioni più efficaci, in Discorso
sul colonialismo[71],
identifica l’opposizione degli alleati ad Hitler come rivolta non già
contro i crimini verso l’uomo, quanto verso l’uomo bianco.
Leggiamo
un passo:
“Sì, varrebbe proprio la pena di
studiare, clinicamente, in dettaglio, tutti i passi di Hitler e dell’hitlerismo,
per rivelare al borghese distinto, umanista, cristiano del XX secolo, che anch’egli
porta dentro di sé un Hitler nascosto, rimosso; ovvero, che Hitler abita in
lui, che Hitler è il suo demone e che, pur biasimandolo, manca di coerenza, perché
in fondo ciò che non perdona a Hitler non è il crimine in sé, non è il
crimine contro l’uomo, non è l’umiliazione dell’uomo in quanto tale,
ma il crimine contro l’uomo bianco, l’umiliazione dell’uomo bianco, il fatto di
aver applicato in Europa quei trattamenti tipicamente coloniali che sino ad
allora erano stati prerogativa esclusiva degli arabi d’Algeria, dei coolie
dell’India e dei negri dell’Africa”[72].
Una
tesi simile, peraltro, la avanza pure Hannah Arendt in Le origini del
totalitarismo, del 1951[73], nel quale dimostra che
le pratiche di dominio coloniale, in Africa e India, abbiano sia prefigurato
come reso possibili le tecniche totalitarie moderne. Tra queste tecniche la
nozione di “popolazioni inferiori” e la legittimazione derivante a dominarle “per
il loro bene”. Particolarmente interessante il capitolo sesto, “Le teorie razziali
prima dell’imperialismo”, nel quale Arendt anticipa di poco le tesi di Césaire,
ed anche quelle di Cedric Robinson (che, peraltro, la cita):
“la verità storica è che il
razzismo, le cui origini risalgono all’inizio del XVIII secolo, durante il XIX fece
la sua comparsa contemporaneamente in tutti i paesi dell’Occidente e all’inizio
del nostro secolo divenne poi l’autentica ideologia della politica imperialista.
Esso certamente resuscitò e assorbì i vecchi schemi razziali; ma questi
difficilmente avrebbero dato vita da soli, senza esigenze imperialistiche, a
una concezione unitaria”[74].
Tra
l’altro la medesima Arendt, in uno dei capitoli precedenti di un libro che
sarebbe da rileggere, sottolinea come la ragione prima e necessaria dell’affermazione
e del successo dell’imperialismo, sia l’alleanza tra le élite e la plebe. Un’alleanza
difficile da accettare anche per i Partiti Comunisti, i quali per ragioni
organizzative ed ideologiche idealizzavano la cosiddetta “classe operaia” (la
quale ha invece fornito appoggio all’Imperialismo britannico e francese, come
agli altri, e si è impregnata del razzismo necessario alla sua
giustificazione).
Cedric
Robinson, razzialismo e Occidente
Il
penultimo autore che Formenti tratta in questa sequenza è Cedric Robinson,
autore di un monumentale testo che è la sua tesi di dottorato, Black marxism.
Genealogia della tradizione radicale nera[75],
e fino alla sua morte, nel 2016, docente di Black Studies all’Università
della California. Il testo, ampia e importante ricostruzione
storico-genealogica della storia della schiavitù e della tradizione radicale
nera negli Stati Uniti, produce una serrata critica del marxismo eurocentrico e
della tesi implicita che sia il processo storico che dispiega dialetticamente,
per un moto interno, l’autosviluppo dei fattori produttivi (in sé anche sociali)
ad essere il motore della rivoluzione. Ne segue che le lotte concrete,
soprattutto le lotte periferiche e dei subalterni razzializzati, rischino di
dover essere rigettate (e considerate “reazionarie”), se intralciano il pieno
sviluppo dei rapporti sociali i quali devono passare per la concentrazione del
capitale e la creazione di ricchezza. Un altro concetto cruciale, anche qui con
una qualche assonanza con alcune intuizioni della Arendt, dove connette il
razzismo alla mentalità nobiliare, è il “razzialismo” come caratteristica
originaria della civilizzazione occidentale. Con questa mossa, che enfatizza il
razzialismo come dispositivo di controllo e gerarchia, e quindi sfruttamento
economico e politico, e non come ancoraggio biologico (di volta in volta si può
applicare, e si è applicato, agli irlandesi, agli slavi, agli abitanti del Sud,
o del Nord, o ai tedeschi tutti, a varie minoranze) Robinson rigetta ogni
tentativo di “essenzializzare” la razza e la “linea di colore”, mostrandola
come costruzione.
Angela
Davis, femminismi ed oltre
Infine,
Angela Davis, in particolare Donne, razza e potere[76],
nel quale la grande militante e femminista americana, attiva nel movimento
delle Black Panther negli anni Settanta, invita energicamente a non
farsi catturare da un’altra forma di ‘essenzialismo’, quello “femminista”.
Ovvero di non immaginare una figura della “donna” omogenea, per riconoscere l’inserimento
delle donne concrete, e delle loro azioni, entro i rapporti produttivi e
strutturali. Per cui frequentemente rispetto alla “linea del sesso”, prevale la
“linea di colore”, e, ancora più importante la “linea di classe”. Le donne nere,
in particolare delle classi popolari, e nella vicenda della schiavitù, hanno
lavorato fuori degli stereotipi di genere delle famiglie borghesi, fuori casa. Le
donne sono essenzialmente lavoratrici senza alcuna specificazione. Come sottolinea
Formenti, “Davis esamina la condizione della schiava nera in quanto forza
lavoro, prima di considerarne l’identità sessuale: in quanto entità lavorative
che generavano profitto, scrive, esse potevano essere prive di genere.”[77] Nelle comunità nere
schiaviste uomini e donne erano comunque lavoratori e venivano scoraggiate
tutte le catene di comando intermedie. Quindi, dopo il padrone, e i
sorveglianti che erano lavoratori bianchi poveri, tutti gli schiavi dovevano
essere rigorosamente eguali e senza alcun brandello di potere. Inoltre, spende
pagine molto forti a ricostruire ed accusare i movimenti femministi della prima
ora, di matrice borghese, come le “suffragiste” di essere parte del movimento
imperialista americano (che in quegli anni si spendeva verso le Filippine,
Hawaii, Cuba e Porto Rico) e del suo funzionale razzismo[78].
Conclusione,
linee di frattura e stagioni
Come
ricorda anche Miguel Mellino in La critica postcoloniale[79],
e in Marx nei margini[80],
esiste almeno una linea di frattura nella costellazione dei Post-colonial
studies o Decolonial Studies (due formule non coincidenti, anche
cronologicamente, in posizione diversa sul giudizio sullo sviluppo, lo stato e
la stessa tecnica): una linea politica, che si connette direttamente con le lotte
al colonialismo, ‘scendendo di un piano’ in un certo senso; una tendenza che segue
il riflusso e nasce da questo, quindi tra gli anni Ottanta e Novanta e prende
posto nei Dipartimenti di Letteratura anglosassoni, con il rischio, dice Mellino,
di “chiudere il reale entro le sue categorie” e ripiegare nell’astrazione
meramente discorsiva, seguendo un atteggiamento “narcisisticamente avvinghiato
al godimento delle proprie enunciazioni”. In questo caso si ‘esce in giardino’.
Alcuni autori della prima linea sono, oltre a quelli indicati da Carlo
Formenti, il secondo Robert Young[81].
Scrive
Young, molto correttamente:
“l’effetto principale della
globalizzazione del potere imperialista occidentale è stato quello di aver fuso
società con diverse tradizioni storiche in un’unica storia. Una storia che, al
di là di quel periodo caratterizzato dallo sviluppo di economie autocentrate,
ha costretto tli società a uniformarsi al modello economico dominante. Il mondo
intero opera oggi all’interno di un sistema economico diffuso e controllato
dall’Occidente, ed è proprio il persistere del dominio – politico, economico,
militare e culturale – occidentale a conferire ancora massima rilevanza a
questa storia. La liberazione politica non ha comportato la liberazione
economica – e senza liberazione economica non ci può essere liberazione
politica”[82].
Espressione
della seconda, e maggioritaria, tendenza sono Homi Bhabha, Spivak (che pure si
pensa come femminista marxista) e Chandra Mohanty[83], Achille Mbembe, Ariun Appadurai[84], che leggono il
linguaggio come il campo della battaglia culturale e si legano variamente all’ambiente
post-moderno. Una posizione decisiva in tale sviluppo la riveste Stuart Hall, principale
animatore dei Cultural Studies e figura rilevante della Nuova Sinistra
britannica, primo direttore della “New Left Review” [85]. Autore particolarmente
alieno alla sistematicità e singolarmente eclettico, impegnato, secondo le sue
formule ambigue in un “materialismo culturale non determinista”, o una “determinazione
non riduzionista”, poi via via sempre più vicino al decostruzionismo, sempre
sincronizzato con i toni del dibattito culturale corrente, una figura “mondana”[86], specchio dei vari
posizionamenti, di volta in volta, della “nuova sinistra” europea. Un lavoro
che pensa, e rivendica, “la pratica intellettuale come politica”, ed in questo
senso, ancora espressamente, “mondana” (nel senso di connessa, intrecciata, e
inseparabile dal mondo). Quel che questa “Sinistra” accetta, e espone, è molto
chiaramente una rinuncia. Quella alla trasformazione radicale del ‘sistema’
e la riappropriazione della vita in senso totale. Rinuncia al marxismo, palesemente,
o, almeno, sceglie di lottare con esso. Punta sulle micro-resistenze e sugli
antagonismi locali, che continuamente si disputano lo spazio sociale, l’egemonia
e la designazione, le contraddizioni, senza ridurle a progetto. La lotta si
svolge entro le “formazioni discorsive” (nel senso di Foucault) e delle
totalità “mai suturate” (Laclau), “indecidibili” (Derrida).
Mentre
in posizione intermedia sono Dipesh Chakrabarty[87], Paul Gilroy[88] e lo stesso Edward Said,
che negli ultimi interventi prese la distanza dalla tendenza alla
depoliticizzazione della corrente cui aveva contribuito enormemente negli anni
Novanta (con la pubblicazione di Orientalismo, che, pure, definisce il
campo), e al barocchismo estetizzante e accademismo astruso. Said, un
palestinese sempre impegnato nella lotta per il suo popolo, ricorda che l’imperialismo
esiste anche fuori dei testi. Dunque come sentisse più affine la critica del “primo
postcolonialismo” (quello descritto da Formenti) di James, Cabral o Fanon. Un
altro autore che si rifà al marxismo e alla lotta anticoloniale, avendoci anche
partecipato personalmente, è Ngũgĩ wa Thiong’o[89].
Per
guardare la cosa dall’alto si può sottolineare come molti autori postcoloniali parlino
da una posizione soggettiva (che non è una colpa) di membri borghesi delle
periferie imperiali trapiantati nel centro (anzi nel centro del centro della
riproduzione del potere americano, le grandi università). Condividono le
medesime condizioni sociali di produzione della loro teoria: producono un
discorso autoassolutorio e lenitivo che proviene da individui sradicati i quali
parlano da posizione di potere istituzionale ad una platea di ascoltatori (e
lettori) altrettanto sradicati, ed in una fase sospesa della loro vita. Le condizioni
di produzione sociale nell’Università anglosassone, infatti, e quindi la loro ‘falsa
coscienza necessaria’[90], non consentono di
produrre e non recepiscono che discorsi astratti, utili di fatto a posizionarsi
nel marketing universitario e culturale (come ricorda anche Mellino[91]); discorsi innocui e capaci,
casomai, con un rovesciamento sintomatico, di rilegittimare lo stesso Occidente
come luogo che fonda la sua verità sulla critica. E la fonda perché la libertà,
matrice dell’autorappresentazione individuale e sociale dell’uomo adulto
occidentale, è intimamente connessa con la possibilità di sottrarsi tramite la
critica. La libertà è pensata come disincarnarsi, come resurrezione.
Completamente
diverso è quel discorso che si forma per mobilitare ed attivare, che pensa la
sua efficacia per i suoi effetti e si vede e concepisce come arma. Pensiero e
discorso che si situano nei movimenti sociali, per connettere e suscitare,
creare nuovi soggetti e quindi nuova società, determinare la coscienza tramite
la vita (Marx, l’Ideologia Tedesca).
Sulla
base di questa distinzione, quel che in definitiva Formenti sembra dire, con
questa ampia cavalcata, è che nel contesto dell’emergenza multipolare la genealogia
di questi autori e pensieri può tornare ad essere centrale. Ciò, però, a
condizione che l’emancipazione africana in un continente conteso tra le vecchie
potenze coloniali (in cui la Francia appare in ritirata, ma l’Europa, da una
parte, e gli Stati Uniti, operano con energica determinazione) e i Brics, passi
per il confronto critico con gli errori passati, sappia distinguere tra critica
radicale e disattivazione postmoderna, sia in grado di creare una sintesi alta
delle dimensioni geopolitiche, economiche e culturali. Non si rifugi nella “critica
critica”, ma susciti nuovi soggetti, nuove forme sociali e nuova
coscienza.
[1]
- Carlo Formenti, “I
popoli africani contro l’imperialismo. 1. Said Boumama”, Nel Socialismo
del Secolo XXI, 6 novembre 2024.
[2]
- Carlo Formenti, “I
popoli africani contro l’imperialismo. 2. Kevin Ochieng Okoth”, Nel
Socialismo del Secolo XXI, 11 novembre 2024.
[3]
- Carlo Formenti, “I
popoli africani contro l’imperialismo. 3. Amilcare Cabral”, Nel
Socialismo del Secolo XXI, 18 novembre 2024
[4]
- Carlo Formenti, “Ancora
sull’Africa. Walter Rodney”, Nel Socialismo del Secolo XXI, 19
gennaio 2025
[5]
- Carlo Formenti, “Panafricanismo,
marxismo, comunismo. 1. I classici: Du Bois, Padmore, Williams, James, Césaire”,
Nel Socialismo del Secolo XXI, 25 febbraio 2025
[6]
- Carlo Formenti, “Panafricanismo,
marxismo, comunismo. 2. Cedric Robinson”, Nel Socialismo del Secolo XXI,
1 marzo 2025
[7]
- Carlo Formenti, “Ancora
sul marxismo nero. Angela Davis”, Nel Socialismo del Secolo XXI, 7
marzo 2025
[8]
- Usando la nota formula di Engels e di Marx un'analisi intellettuale che, pur
acuta e sofisticata, rischia di ripiegarsi su sé stessa, divenendo astratta,
autoreferenziale e disconnessa dalle concrete dinamiche di lotta.
[9]
- Un “pensiero nell'azione”, che si manifesta come una riflessione
intrinsecamente legata ai movimenti sociali e alle pratiche di trasformazione.
[10]
- Si intende per ‘falsa
coscienza necessaria’
un processo che il soggetto di pensiero compie al contempo sapendolo e senza
avere presenti le reali forze motrici, adattive, che sono inserite nei
meccanismi riproduttivi del sociale.
[11]
- Ciò accade perché, come osservava Marx, il discorso universalista occidentale
si legittima anche attraverso la capacità di includere la propria critica,
rendendosi così immune a una delegittimazione radicale.
[12]
- Thomas Sankara, eroica figura di capo di stato africano, salì al
potere nel 1983 e deposto ed assassinato nel 1987.
[13]
- Si veda Fanny Pigeaud, Ndogo Saba Sylla, L’arma segreta della Francia in
Africa, Fazi editore, 2018
[14]
- Nasser, Presidente dell’Egitto post coloniale, nato nel 1918 e morto
nel 1970, figura centrale nella storia moderna del Medio Oriente e del
Nordafrica del Novecento. Nazionalizzò il Canale di Suez, fondò con l’indiano
Jawaharal Nehru e il leader jugoslavo Josip Broz Tito il “movimento dei paesi
non allineati”, fu propugnatore del “socialismo arabo”, nell’ambito del quale a
partire dal 1961 avviò un grande piano di nazionalizzazioni e redistribuzione
delle terre ai contadini, fu creata l’assistenza sanitaria e rafforzati i
diritti delle donne, garantito un salario minimo e la riduzione dell’orari di
lavoro, oltre a promuovere un sistema di istruzione pubblico. L’Egitto ebbe
sempre un ruolo di primo piano nella Lega Araba e favorì la formazione dell’Organizzazione
per la Liberazione della Palestina (OLP). Fu sconfitto da Israele (e dagli USA)
nella Guerra dei sei giorni del 1967.
[15]
- Ahmed Ben Bella, nato nel 1916 e morto nel 2012, è stato l’esponente
di punta dell’area più radicale del Movimento di liberazione nazionale d’Algeria
e primo suo Presidente. Si riteneva “nasseriano” e ruppe con i comunisti
filosovietici, cercando una “via algerina”, fu rovesciato da un colpo di stato
il 19 giugno 1965 promosso dall’ex compagno d’armi Houari Boumédiène, e
imprigionato fino al 1980. Tornato in Algeria nel 1990 vi morì a novanta anni
nel 2012.
[16]
- Mu'ammar Muhammad Abu Minyar 'Abd al-Salam al-Qadhdhafi, nato nel 1942
è stato un militare, rivoluzionario, presidente della Libia fino alla morte,
avvenuta in drammatiche circostanze a seguito della rivolta appoggiata dalla
Francia e dalla Nato il 20 ottobre 2011. Vicino a Nasser ed al “socialismo
arabo”, fu promotore di una “terza via” tra il capitalismo e la lotta di
classe, decise di nazionalizzare la maggior parte delle proprietà petrolifere
straniere, di chiudere le basi militari statunitensi e britanniche e di
espropriare tutti i beni delle comunità italiana ed ebraica, espellendole dal
paese. In politica estera finanziò l’OLP e si fece propugnatore dell’unione dei
paesi arabi ed islamici. Giunto progressivamente in rotta di collisione
crescente con gli Stati Uniti viene fatto oggetto di un attacco militare nel
1986. Contribuì alla sconfitta dell’Apartheid in Sudafrica ed alla vittoria del
suo leader, Nelson Mandela. Fu un forte sostenitore della Unione Africana e
promotore del progetto di una moneta africana il “dinar”. Fu travolto dalla “Primavera
araba”, malgrado avesse apprezzato l’elezione di Obama.
[17]
- I Fratelli Mussulmani sono una enormemente influente corrente politico-religiosa
sunnita, fondata nel 1928 da Hasan al-Bannā in Egitto. Il suo maggior ideologo
fu Sayyid Qutb, impiccato da Nasser nel 1966, il quale sostiene la coincidenza
di marxismo e capitalismo nella “umiliazione dell’uomo comune” e la
teorizzazione della jāhiliyya, ribellione alla sovranità di Allah sulla
terra.
[18]
- Said Boumama, Pour un panafricanisme révolutionnaire, Syllepse, Parigi
2023.
[19]
- Si veda, ad esempio, Zeinab Badawi, Storia africana dell’Africa. Dall’alba
dell’umanità all’indipendenza, Rizzoli 2024.
[20]
- In particolare, la nozione centrale di “disconnessione” (delinking). Si veda,
per la figura centrale di Samir Amin il testo Alessandro Visalli, Dipendenza,
Meltemi 2020, in particolare da p. 237.
[21]
- Samir Amin, Lo
sviluppo ineguale. Saggio sulle formazioni sociali del capitalismo periferico, Einaudi
1977 (ed. or. 1973).
[22] - Un’organizzazione del lavoro
organizzata per famiglie, l’assenza di scambi mercantili, la distribuzione del
prodotto attraverso regole sociali.
[23] - Un’organizzazione del lavoro
che vede due classi, contadini organizzati comunitariamente e dirigenti che
percepiscono dai primi un tributo; quando si feudalizza, la proprietà della
terra passa ai secondi.
[24] - Dove il mezzo di produzione è
il lavoratore-schiavo.
[25] - Produttori e scambi tra di
loro; diverso lo scambio a lunga distanza, che provoca accumuli di forte
surplus.
[26] - Deriva dalla disgregazione
del modo tributario-feudale per effetto degli scambi su lunghe distanze e la
concentrazione di ricchezza che ne consegue, quindi, per la liberazione dei
lavoratori e la loro proletarizzazione che ne fa forza-lavoro.
[27]
- Samir Amin, Lo sviluppo ineguale, op.cit. p. 67
[28] - Ivi, p. 67.
[29]
- Effetto, a sua volta di uno scambio ineguale, fondato di Ragioni di Scambio
che risentono di rapporti di forza economici e non. Per come scrive: “lo
scambio è ineguale essenzialmente perché sono ineguali le produttività (e tale
ineguaglianza è legata a differenti composizioni organiche [del capitale]), e,
in via accessoria, perché le differenti composizioni organiche determinano, per
il tramite della perequazione del saggio di profitto, prezzi di produzione
differenti dei valori in isolamento” (ivi, p. 145). In questo modo, attraverso
gli scambi commerciali a prezzi internazionali sono mascherati trasferimenti di
valore dalla periferia verso il centro.
[30]
- Said Boumama, Des classes dangereuses a l’ennemi intérieur, Syllepse,
Parigi 2021
[31]
- Carlo Formenti, “I
popoli africani contro l’imperialismo. 2. Kevin Ochieng Okoth”, Nel
Socialismo del Secolo XXI, 11 novembre 2024.
[32]
- Kevin Ochieng Okoth, Red Africa, Meltemi 2025.
[33]
- I Cultural Studies postcoloniali sono un ambito di ricerca interdisciplinare
nato tra anni '70 e '90, che indaga le eredità culturali, simboliche,
linguistiche e politiche della dominazione coloniale e le forme della sua
sopravvivenza nel mondo contemporaneo. Nascono a cavallo tra sociologia
critica, studi letterari, filosofia, antropologia e teoria politica. Gli obiettivi
sono mettere in crisi e contestare il canone occidentale (in quanto eurocentrico
e universalista), valorizzare le epistemologie indigene, saperi subalterni,
pratiche di resistenza soprattutto culturale, promuovere ibridazione,
creolizzazione, sincretismo. Una figura chiave è Stuart Halle la Birmingham
School, Edward Said, Himi k. Bahabha, tutti operanti in contesto e spesso
università anglosassoni. Le principali tendenze africane, connesse con gli antesignani
Cabral, Fanon, Nkrumah, Césaire, nascono negli anni Novanta e vedono autori
come Ngũgĩ wa Thiong’o, Chinua Achebe, Wole Soyinka, Miriam Tlali, Nuruddin
Farah. In termini del pensiero filosofico bisogna considerare Achille Mbembe,
mentre altri esponenti di spicco sono Felwine Sarr, V. Y. Mudimbe, Oyèrónkẹ́
Oyěwùmí. Altri autori influenti di ambito latinoamericano sono Anibal Quijano,
Walter Mignolo, Ramón Grosfoguel.
[34]
- In Michel Hardt, Tony Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione,
Rizzoli, Milano, 2001.
[35]
- - La Conferenza di
Bandung è il punto intermedio di un lungo processo che parte con il
Congresso dei popoli dell’oriente a Baku, nel 1920, del quale parleremo in
seguito, e il successivo Congresso dei popoli oppressi di Bruxelles nel 1927,
oltre che la Asian Relations Conference convocata da Nehru nel 1947 nella quale
fu deciso di dotarsi di una organizzazione permanente. Nell’aprile del 1954 i
capi di governo di Ceylon, India, Pakistan, Birmania, Indonesia si riunirono a
Colombo (Ceylon) per organizzare una grande conferenza afroasiatica. Conferenza
che fu convocata appunto a Bandung, invitando venticinque Stati con
l’esclusione dei movimenti di liberazione, con qualche anomalia (come i due
Vietnam e l’esclusione delle due Coree, oltre il mancato invito ai paesi
latino-americani e soprattutto dell’Unione Sovietica). Parteciparono paesi
socialisti, come la Cina, e filoccidentali, come il Giappone, o neutralisti.
Con qualche compromesso, mediato da Chou En-Lai da una parte e da Nehru
dall’altra si arrivò a una dichiarazione di condanna del solo colonialismo
“tradizionale” (mentre alcuni paesi volevano condannare anche quello
sovietico). Bandung è l’anello di congiunzione tra la sconfitta di Dien Bien
Phu e l’evento di Suez. Tutti e tre insieme fecero precipitare il colonialismo
europeo.
[36]
- Movimento dei paesi non
allineati, nasce
a Bandung, intorno al leader come Nehru (India), Nkrumah (Ghana), Sukarno
(Indonesia), Nasser (Egitto), viene fondato ufficialmente nel 1961 a Belgrado
da 25 paesi che adottano i “5 principi di coesistenza pacifica”: 1. Rispetto
dell’integrità territoriale, 2. Non aggressione; 3. Non ingerenza negli affari
interni; 4. Uguaglianza tra Stati; 5. Pace e cooperazione. Il suo apogeo si ha
nel decennio 1960-70, quando cresce fino a 120 membri che includono Cuba, la
Jugoslavia e il Vietnam. Il Movimento sostiene la decolonizzazione e media in
alcuni conflitti, avanza proposte di redistribuzione delle ricchezze mondiali (UNACTAD).
I documenti storici di questa fase sono la Dichiarazione di Lusaka, del 1970, e
la Risoluzione per un NIEO nel 1074. La guerra Iraq-Iran e altre divisioni internazionali,
nel mutato clima degli anni Ottanta e Novanta, oltre alla defezione economica
dell’India, che passa a politiche neoliberali, ne segnano il declino. Di
recente sono venuti in primo piano membri come la Cuba, il Venezuela e il
Sudafrica che hanno portato ad un certo rilancio. Nel vertice di Kampala, nel
2023, ha criticato la “doppia morale” occidentale, in relazione alla guerra in
Ucraina e Gaza, e ricevuto l’adesione come osservatori di Messico e Filippine.
C’è una certa sovrapposizione con i Brics+. Come disse Evo Morales “Il non
allineamento non è morto: ha solo aspettato che il mondo tornasse multipolare”.
[37]
- Malcom X, è stato un importante leader religioso e antirazzista
americano, nato nel 1925 e morto nel 1965, che inizialmente aderì alla Nazione
dell’Islam (NOI), un movimento separatista ed essenzialista fondato da Elijah
Muhammad ed enormemente influente negli anni Sessanta. Il movimento si
caratterizza per il rifiuto dell’integrazione (“siamo ex africani e non ex
schiavi”), la richiesta di separazione razziale e l’autodifesa anche armata. Nel
1964-5 ha una svolta personale in direzione “panafricana” e dopo una visita alla
Mecca abbraccia un islamismo universalista e incontra sia Nkrumah, come Ben
Bella e Fidel Castro. Nel 1964 nel Discorso al Cairo chiede all’Unione Africana
di portare la questione nera all’ONU e fonda la OAAU, uscendo dalla Nazione
dell’Islam. Il 21 febbraio 1965 viene ucciso da membri della NOI che si giovano
di complicità della FBI. La sua eredità viene presa dalle Black Panther nel
1966 e la sua influenza si manifesta fino ad oggi. Per Angela Davis, che militò
nelle Black Panther e conobbe Malcom negli anni Sessanta, "Malcolm ci
insegnò che il razzismo non è un problema morale, ma un sistema di potere" (Angela
Davis, 1971).
[38]
- Il Black Campus
Movement, esplode
tra il 1965 ed il 1975 nelle università statunitensi e in atenei con minoranze
nere, come reazione alla discriminazione (quote, docenti bianchi e discorsi
eurocentrici),subisce l’influenza delle Black Panther e di Malcom X, ma gli
omicidi mirati di Fred Hampton, nel 1969, e di Martin Luther King, nel 1968,
radicalizzano la situazione. Richiedono, corsi su storia e cultura africana,
introdotti per la prima volta nel San Francisco State College nel 1968, l’assunzione
di docenti neri, il sostegno ai carcerati (come Angela Davis). Entro il 1973,
in relazione al movimento sono creati 20 dipartimenti di Black Studies. In questo
movimento si formano Stuart Hall e Paul Gilroy, e ne sono studenti figure come
Bell hooks, Cornel West e Sylvia Wynter, ma avviene uno spostamento dalle
questioni materiali a quelle simboliche.
[39]
- Subito dopo i Black Studies, che sono una conseguenza diretta del
Black Campus Movement, mirarono a decolonizzare il sapere e riaffermare cultura
e identità nere, tra i pionieri troviamo Nathan Hare e Maulana Karenga, negli
anni Ottanta si trasformano in Studi post-coloniali, nei dipartimenti
umanistici e solo in Occidente. I fondatori sono Edward Said, Gayatri Chakravorty
Spivak e Homi K. Bhabha.
[40]
- Okoth insiste molto su questo punto, si tratta in sostanza di una microcasta intellettuale
che cerca di farsi accettare in un milieu culturale molto particolare, ma del
tutto sconnessa dalle lotte nei paesi periferici. Di fatto è più influenzata
dal caso Statunitense, dove prevale l’effetto di un acculturamento di sintesi e
diasporico (una delle parole chiave del movimento) che dalle dinamiche diverse,
e storicamente molto più articolate, delle traiettorie di sfruttamento
colonialiste in paesi di antica colonizzazione (come l’America Latina, e qui
con decisive differenze tra aree urbanizzate come il Messico e non come
l’Amazzonia, l’Africa o il Mondo Islamico, o l’Est asiatico). La blackness è
una categoria accademica, con scarse relazioni con il mondo.
[41]
- Edward Said era nato nel 1935 ed è morto
nel 2003, uno dei più influenti intellettuali del secolo e fondatore degli
studi postcoloniali. Nato a Gerusalemme da famiglia palestinese, ma cristiana,
è stato attivo alla Columbia University unendo critica letteraria, teoria
politica ed impegno sociale per la causa palestinese. Ha creato un pensiero
potente contro il colonialismo, l’imperialismo e l’eurocentrismo culturale. È la
costruzione ideologica dell’Occidente, ad aver usato la nozione di
“Oriente” per definire sé stesso come razionale, moderno, superiore. E quindi
creando l’Orientalismo come dispositivo di sapere e potere che costruisce l’altro
in modo da dominarlo. Un dispositivo che è omogeneizzante, sessualizzante,
infantilizzante e riduce le società orientali a oggetti fissi, incapaci di
rappresentarsi.
[42]
- Homi K. Bhabha è un autore indiano, nato a Bombay e di origine parsi,
di formazione inglese, ora professore ad Harward e rappresentativo di una
lettura integralmente post-strutturalista che si rifà a Lacan, Derrida e
Foucault, in particolare in dialogo con Fanon, Marx e Freud. Nel rapporto tra
colonizzato e colonizzatore vige una mimesi che non è completa sovrapposizione,
ambivalente, ibridata ed eccedente al mero dominio e creatore di un “terzo
spazio”, nel quale le culture si contaminano, resistono, negoziano. Il linguaggio
è fortemente accademico, ipercitazionista, denso e difficile, astratto e avulso
da applicazioni pratico-concrete. Autore emblematico di una deriva letteraria
che usa solo strumenti filosofici occidentali.
[43]
- Gayatri Chakravorty Spivak è una accademica indiana trapiantata negli Stati
Uniti e traduttrice di Derrida in inglese. Autrice di un approccio che mischia
femminismo, marxismo, decostruttivismo e teoria della rappresentazione. Con Bhabha
e Said rappresenta la triade canonica degli studi post-coloniali. Riprende da
Gramsci il tema dei “subalterni”, cercando di focalizzare come la loro voce è
tradotta ed al contempo catturata e rappresentata dal potere. Quindi come ogni
subalterno sia sempre differito, contaminato ed instabile. Anche Spivak è
accusata di accademismo elitario per il suo linguaggio difficile e di immobilismo.
Anche se Spivak si autodefinisce “femminista marxista”, nella pratica il suo
discorso si muove interamente all’interno dei quadri del decostruzionismo
derridiano, rifiutando ogni progetto di emancipazione strutturata. Appare consapevole
della propria complicità, ma incapace di evadere dal frame accademico, e quindi
imprigionata in una falsa coscienza intellettuale, che descrive l’impossibilità
della rappresentazione senza mai organizzare la sua trasformazione.
[44]
- Stuart Hall è il Direttore del Contemporary Cultural Studies di Birmingham
dal 1969 al 1979 e sviluppa una critica diretta al materialismo, sulla base
dell’idea che il farsi della cultura è una forza attiva creatrice di
significato, oltre che di ambiguità nel posizionamento politico.
[45]
- Achille Mbembe, nato in Camerun nel 1957, ha studiato in Francia e ha
insegnato in università africane, europee e negli Stati Uniti. Influenzato da Foucault,
Benjamin, Fanon e Derrida, una delle sue tesi è quella della “postcolonia”,
nella quale il potere coloniale continua a vivere, esercitando forme erotiche,
spettacolari, violente e burocratiche, che coopta le élite locali. Il potere decide
chi muore, e produce, storicamente e discorsivamente anche il “nero”, figura
limite creata per giustificare la colonizzazione stessa. Il razzismo è dunque
una struttura della stessa modernità. Anche qui manca uno sbocco visibile. La scrittura è altamente letteraria,
filosofica, estetica. Mentre denuncia con forza i dispositivi di esclusione, non
propone strumenti politici concreti, e in alcuni casi ricade in un tono
rassegnato o contemplativo, che si adatta bene al consumo culturale occidentale.
[46]
- Carlo Formenti, “I
popoli africani contro l’imperialismo. 2. Kevin Ochieng Okoth”, Nel
Socialismo del Secolo XXI, 11 novembre 2024, p.3
[47]
-
[48]
- Andrée Blouin, congolese nata nel 1921 e morta nel 1986, fu militante
panafricanista, femminista ed attivista politica respinta in quanto di padre bianco
e madre nera, da entrambe le comunità partecipa dagli anni Cinquanta ai
movimenti anticoloniali, diventando segretaria politica di Sékou Touré in
Guinea, collaboratrice di Patrice Lumumba in Congo, critica anche il
maschilismo della leadership rivoluzionaria nera e viene riscoperta di recente
da femministe della diaspora come Amina Mama, Sylvia Tamale e Hakima Abbas.
[49]
- Alessandro Visalli, Classe e partito, Meltemi 2023, p. 371 e seg.
[50]
- Alessandro Visalli, Classe e partito, op.cit., p. 372.
[51]
- Michael Hardt, Antonio Negri, Impero. Il nuovo ordine della
globalizzazione, RCS libri 2001 (ed. or.2000), pp. 133, 112.
[52]
- Se non si sviluppano le forze
produttive si resta deboli e dipendenti, d’altra parte se ci si mette sulla
strada dello sviluppo accelerato di queste, come la Cina di Deng non nominata,
ma esempio primario, allora si entra in relazione con il mondo e questo può
determinare altre forme di dipendenza e interdipendenza economica.
[53]
- Alessandro Visalli, Classe e partito, op.cit., p. 373
[54]
- Michael Hardt, Antonio Negri, Comune.
Oltre il pubblico e il privato, Rizzoli 2010 (ed. or. 2009).
[55]
- Michael Hardt, Antonio Negri, Assemblea,
Ponte alle
Grazie, 2018 (ed. or. 2017).
[56]
- Walter Rodney, The
Russian Revolution. A View from the Third World, Verso Book, Londra 2018.
[57] - Walter Rodney, Decolonial
Marxism. Essays
from the Pan-African Revolution, Verso Book, Londra 2022.
[58]
- Walter Rodney, How Europe Underdeveloped Africa, Bogle-L’Ouverture
Publications, Londra e Dar es Salaam, 1972
[59]
- Si veda Alessandro Visalli, Dipendenza, Meltemi 2020.
[60]
- Walter Rodney, How Europe Underdeveloped Africa, op.cit. p.xii
[61]
- William Edward Burghardt Du Bois, The
Souls of Black Folk, A.C.
McClurg & Co. 1903 (tradi t. Le anime del popolo nero, Casa editrice
Le Lettere, 2007.
[62]
- Franz Fanon, Pelle nera, maschere bianche, Edizioni ETS, 2015 (ed. or.
1952).
[63]
- Franz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, 1962 (ed. or. 1961).
[64]
- Eric Williams, Capitalismo e schiavitù. Il colonialismo come motore della
Rivoluzione industriale, Meltemi 2024 (ed. or. 1944).
[65]
- Concetto di Gunnar Myrdal inizialmente introdotto per spiegare il circolo
vizioso, sottosviluppo, ignoranza, povertà, dei neri americani. In pratica,
secondo Myrdal, le forze del mercato, lasciate a sé stesse, tendono a
polarizzare lo sviluppo, favorendo le regioni o i gruppi già avvantaggiati e
peggiorando la situazione di quelli svantaggiati. Cfr. Alessandro Visalli,
Dipendenza, op.cit.
[66]
- James C.L.R., I giacobini neri [1938], Derive e Approdi, Roma 2015
[67]
- La lotta dei liberi, ma di colore, per i diritti politici tra il 1789 e il
1791, quella insurrezione che porta all’abolizione della schiavitù tra il 1791
e il 1793, l’ascesa di Toussaint Louverture e il tentativo di ridisciplinare il
lavoro di piantagione con relative lotte interne tra il 1794 e il 1801, infine
gli anni della guerra di indipendenza del 1802-1805.
[68]
- George Padmore, nato a Trinidad e con studi negli USA, aderente al
Partito Comunista, la sua azione insistette particolarmente sulla necessaria
alleanza tra lavoratori neri e bianchi e la critica dei riformisti. Nel 1934 fu
espulso dal partito comunista come “deviato nazionalista”, in quanto criticò la
svolta del Comintern verso i fronti popolari in chiave antifascista e la subordinazione
delle lotte anticoloniali alle esigenze sovietiche. Prese parte al movimento
panafricanista.
[69]
- Fu la rivista mensile ufficiale dell’International
Trade Union Committee of Negro Workers (ITUCNW), un organismo politico affiliato al
Comintern ed attivo dal 1928 al 1937. Mirava a diffondere analisi anticoloniali
e orientate al comunismo tra le popolazioni nere di Africa, Caraibi, USA e
America Latina. Messaggi: Condanna dei "riformisti" neri (es. Marcus
Garvey) considerati ostacolo alla lotta di classe; Chiamata ai lavoratori neri
affinché si unissero alla classe operaia internazionale contro il capitalismo e
l’imperialismo; Supporto a campagne anti-razziste, indipendentiste e
antifasciste (es. contro l’invasione giapponese della Manciuria).
[70]
- Carlo Formenti, “Panafricanismo,
marxismo, comunismo. 1. I classici: Du Bois, Padmore, Williams, James, Césaire”,
Nel Socialismo del Secolo XXI, 25 febbraio 2025, p.5
[71]
- Aimé Césaire, Discorso
sul colonialismo, Ombre Corte, 2010 (ed. or. 1955).
[72]
- Aimé Césaire, Discorso
sul colonialismo, op.cit., p. 57
[73]
- Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità,
1999 (ed. or. 1951).
[74]
- Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, op.cit., p. 221.
[75] - Cedric J. Robinson, Black
marxism. Genealogia
della tradizione radicale nera, Alegre 2023 (ed or 1983).
[76]
- Angela Davis, Donne,
razza e potere, Alegre,
Roma, 2018 (ed.or. 1981).
[77]
- Carlo Formenti, “Ancora
sul marxismo nero. Angela Davis”, Nel Socialismo del Secolo XXI, 7
marzo 2025, p.2
[78]
- Si veda Angela Davis, Donne,
razza e potere, op.cit.,
p. 158
[79]
- Miguel Mellino, La
critica postcoloniale,
Meltemi 2021.
[80]
- Miguel Mellino, Marx
nei margini, Alegre
2020.
[81]
- Robert Young è un accademico britannico centrale nei post-colonial
studies e noto per aver attaccato in un primo momento (1990) il marxismo
eurocentrico per poi, undici anni dopo (2001) ricondotto le vere radici della
corrente ai movimenti di liberazione e quindi alla Conferenza Tricontinentale
de l’Avana.
[82]
- Robert Young, Postcolonialism: a very short introduction, Oxford
University Press 2003, p.5
[83]
- Chandra Talpade Mohanty è nata in India e attiva negli Stati Uniti
alla Syracuse University, voce del femminismo postcoloniale mette in
discussione le letture universaliste del femminismo occidentale, facendo leva
su una prospettiva intersezionale che valorizza le donne del Sud globale.
[84]
- Arjun Appadurai è un antropologo indiano, nato a Bombay e insegnante a
Yale, Harvard, NYU e Berlino. Propone un modello di analisi della modernità che
non ha centro, ma si struttura attraverso flussi transnazionali, immaginari
collettivi e produzioni culturali de-localizzate. Strutture che sono
caratterizzate per la deteritorializzazione, cosa che costringe le società
postglobali a vivere un panico identitario, alimentato dalla frustrazione
economica e dalla crisi dello Stato-nazione. Anche lui è accusato da Okoth,
Rodney e Amin di eccessiva astrazione e culturalismo debole.
[85]
- La New Left Review (NLR) è una delle riviste più importanti del
pensiero critico contemporaneo. Fondata nel 1960 nel Regno Unito, ha
rappresentato per decenni un punto di riferimento internazionale per il marxismo
non ortodosso, la teoria critica, il pensiero postcoloniale, i cultural studies
e l’analisi geopolitica.
[86]
- O secondo giudizi più ingenerosi, sincretica (Rojek, 2003, p.16), ‘a la mode’
(Eagleton, 1996).
[87]
- Dipesh Chakrabarty, Indiano,
nato a Calcutta nel 1948 e professore all’Università di Chicago, è uno dei
principali teorici della storiografia postcoloniale e della critica al tempo
storico dell’eurocentrismo. Nel suo libro principale, Provincializzare l’Europa,
dichiara che la cultura e la posizione europea non va negata ma va decentrata,
provincializzata, comprenderla come forma locale e non universale. Dunque, la temporalità
storica lineare (sviluppo → modernità → progresso) imposta dal pensiero europeo
deve essere ripensata alla luce delle storie plurali, spesso interrotte,
circolari, sincretiche. In sostanza per lui non esiste una sola modernità, ma
molte, e multiple, ibride e ogni volta situate.
[88]
- Paul Gilroy è un sociologo britannico, autore di Black Atlantic,
che pure cerca di riconnettere la critica alle lotte ed alla storia reale. La
sua visione del Black Atlantic è fortemente influenzata dai cultural studies
britannici, e tende a dissolvere la questione razziale e coloniale in una
retorica dell’ibridazione, disancorata dalla dimensione economica e
strutturale. Il marxismo viene visto come rigido, cieco alla soggettività, e
quindi rifiutato. Si tratta, alla fine, di una critica che appare radicale, ma che
si rifugia nel discorso culturale, neutralizzando la necessità di una lotta
politica organizzata contro il razzismo sistemico e il capitale globale.
[89]
- Ngũgĩ wa Thiong’o è nato
in Kenia è un protagonista della letteratura
africana postcoloniale e teorico della
necessità di liberare la mente e l’immaginazione africana dalle strutture
coloniali anche recuperando i linguaggi e rompendo con le lingue dei
colonizzatori. Fu attivo nella rivolta dei Mao Mao, essendo nato nel 1938,
insegna a Yale, NYU e UC Irvine). Rifiuta ogni universalismo
occidentale: non si tratta di “includere l’Africa” nei canoni europei, ma
di spostare il centro, valorizzare i pluricentrici mondi della conoscenza. Propone un internazionalismo
dei popoli fondato sulla traduzione, il rispetto e la reciprocità.
[90]
- Come già scritto, la ‘falsa
coscienza necessaria’
è un processo che il soggetto di pensiero compie al contempo sapendolo e senza
avere presenti le reali forze motrici, adattive, che sono inserite nei
meccanismi riproduttivi del sociale. Ovvero della riproduzione dell’individuo
come attore sociale. Si veda, ad esempio, Engels, Lettera a Franz Mehring, 1893.
Chi esprime con “falsa coscienza” (in quanto prodotto di un’interiorizzazione
di condizioni di possibilità e di autorizzazione, non corrispondente alla
propria posizione, altrimenti soggettivamente ricercata o desiderata) ma “necessaria”
perché connessa con specifiche e potenti strutture di riproduzione e
stabilizzazione del sociale (e quindi dei soggetti, che con il sociale
istituiscono intimi rapporti), pensa di produrre discorsi critici, ma questi
sono compatibili ed anzi stabilizzano il sistema e il gioco delle soggettività
e ruoli in esso. Stabilizzano perché, essenzialmente, è proprio del discorso
universalista occidentale di leggersi come saturato, completo anche della sua
critica, legittimato, ovvero, in quanto “libero” e “critico”. Produce una “critica
critica” (formula di Marx in La sacra famiglia, 1845, contro la
sinistra hegeliana, come scrive, “La Critica Critica non solo combatte la
realtà, ma combatte anche l’illusione della realtà, l’illusione dell’illusione,
e così via. Essa si muove nel mondo delle nuvole.”) permette al sistema di legittimarsi
come democratico, aperto, autoriflessivo, evitando che possa entrare in una
radicale delegittimazione e crisi.
[91]
- In Miguel Mellino, La critica postcoloniale, op.cit.
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