“La prima [ragione
della giustezza di questa guerra e conquista] è questa: essendo gli uomini
barbari [gli indios] per natura servili, incolti e inumani, essi si rifiutano
di accettare il comando di quelli che sono più prudenti, potenti e perfetti di
loro; comando che darebbe loro grandi vantaggi, è infatti, cosa giusta, di
diritto naturale, che la materia obbedisca alla forma, il corpo all’anima,
l’appetito alla ragione, i bruti all’uomo, la moglie al marito, l’imperfetto al
perfetto, il peggiore al migliore, per il bene di tutti”.
Juan Ginés de Sepúlveda, De la Justa causa del la guerra contro los
indios, Roma 1550
Il
razzialismo occidentale e le sue conseguenze
Cedric
J. Robinson, nella sua imponente opera maggiore del 1983[1], ha cercato di individuare
una tradizione radicale nera indipendente dalla radice occidentale della
tradizione socialista per come si è formata intorno alle opere ed all’azione di
Marx, Engels e la socialdemocrazia europea. Una tradizione che si forma sulla
base dell’esperienza di sradicamento violento e diasporica ed ha carattere
egualitario e comunitario, all’inizio esemplificata nel marronaggio[2]. Nel compiere questa
impresa, tuttavia, produce una notevole ricostruzione storico-culturale e
decostruttiva della natura della civiltà occidentale che a suo parere è
caratterizzata da una particolare forza materiale che ha dimensione sia sociale
che culturale e viene condivisa in tutto lo sviluppo storico della civiltà
occidentale, risultando antecedente al capitalismo: il razzialismo.
Una
forma di distinzione e classificazione tra gruppi ed individui, parte di una
pratica di controllo e sfruttamento, che è interna alla civilizzazione europea
e non si esprime solo verso l’Altro esterno, quanto creando costantemente ‘Altri’
interni, nicchie e enclavi, ghetti e periferie. Come scrive Robinson, il
“razzialismo” è “una concezione intrinsecamente gerarchica del genere umano”,
le cui origini sono ‘precapitaliste’ in quanto parte organica del dispositivo
identitario e di governo che struttura la ‘civiltà occidentale’. Uno dei luoghi
storici dove questa attitudine si manifesta è nella trasformazione delle élite
tardoimperiali in dinastie feudali, le quali progressivamente costruiscono un’ideologia
che pretende di fondare il diritto al dominio nella gerarchia di sangue
(certificata da Dio). Struttura d’ordine, non presente in tutte le civiltà che,
per Robinson, in quella europea può essere fatta risalire alla centralità della
schiavitù nella civiltà romana e greca[3]. Ad esempio, questo
sistema di transizione ereditaria del potere, fondato su una differenza
ontologica, è alieno alla civiltà cinese nella quale si ascende al rango di
‘mandarino’ con lo studio e gli esami individuali. Per Balazs, ad esempio, “Il
mandarinato cinese fu la prima burocrazia al mondo basata non sul sangue o
sulla ricchezza, ma sulla padronanza di testi confuciani dimostrata attraverso
esami scritti anonimi. Un sistema che, per secoli, garantì mobilità sociale
controllata.” [4] Ovviamente non del
tutto egualitaria, dato che servivano risorse per studiare per anni, ma tale
per cui dopo il 1400 almeno un terzo dei mandarini non venivano da famiglie
‘nobili’[5]. Ciò è rilevante perché,
secondo questa interpretazione, il modello razzialistico (o il regime
sociale gerarchico-razzializzato) non ha origini coloniali e, tanto meno,
capitalistici, ma, se mai, può essere il contrario. Si tratta del prodotto di
una costruzione culturale autonoma, forse con antecedenti assiri[6], che ha la funzione
sociale di fissare e consolidare le gerarchie, mettendole al sicuro dalla
possibile contestazione. Un modello che, formato nella transizione
dall’antichità romana che ne era priva[7] al medioevo, viene
progressivamente tradotto, dalla forma di vita nobiliare a quella mercantile e,
di qui, con il decisivo contributo dello Stato-nazione, è esportato nel mondo
come modello di sfruttamento e colonizzazione. Secondo questa lettura,
chiaramente di enorme complessità e controversa[8], la logica razziale e
quella capitalista, pur intrecciate, hanno radici diverse e la lotta contro
entrambe deve essere condotta insieme. Secondo una tesi che fu anche di Fernand
Braudel, la transizione decisiva tra il modello aristocratico e quello
mercantile venne compiuto per la prima o più completa volta in Italia, nelle
repubbliche marinare, il cui perfezionato sistema schiavistico diventò
successivamente il modello di ogni colonizzazione atlantica e asiatica[9]. Secondo Braudel, “Le
colonie genovesi del Levante, con i loro schiavi tartari e circassi, furono
laboratori di un capitalismo proto-globale, dove la rendita schiavile si
combinava con il commercio su larga scala, anticipando di secoli le piantagioni
americane”[10].
Naturalmente questa ricostruzione, anche ove la si volesse accogliere, rischia di dire più di quel che conviene e di dire in modo troppo netto. La ‘civiltà’ europea è un costrutto analitico, ma anche una retorica di enorme potenza e un performativo[11], un’azione insieme ad una pretesa di costituzione, e in qualche modo Robinson rischia di essere catturato nella magia di questa distinzione, se pure criticando il suo oggetto. Inoltre, nel prediligere le continuità di lungo periodo individuate nella cultura, rischia di sottostimare le differenze, come quella tra medioevo e modernità e quella tra modo di produzione medioevale e colonialista (e quindi tra questo e il capitalismo). Ha, però, un vantaggio: consente di comprendere il capitalismo e la modernità come sistema di dominio e non solo come sistema economico. Soprattutto di gettare una luce sulla tensione dialettica interna tra omologazione e universalizzazione, portata dalla spinta alla “modernizzazione”, e differenziazione e gerarchizzazione, continuamente ricreata dalla dinamica capitalista[12].
Se
pure, come ovvio, il razzismo non è una caratteristica esclusiva dei popoli
europei, la tesi di Robinson (in effetti suffragata dalle recenti, e
scioccanti, esperienze in Ucraina, Palestina, Iran, Siria, e prima Libia, Iraq,
Jugoslavia, tutte sotterraneamente giustificate nella loro ovvia diversità, da
un senso comune suprematista, che invariabilmente viene applicato dal centro
europeo verso il non-europeo, lo slavo e orientale, le mezze-caste, per usare
una formula che incontreremo), è che in Occidente assume un profondo e durevole
radicamento strutturale (per cui parla di “razzialismo”). È la ‘bianchezza’
a legittimare il dominio come parte della natura. In altre parole, in tutti
questi casi, pur nella loro diversità, si manifesta un senso comune selettivo,
che naturalizza il dominio, deumanizza o inferiorizza i soggetti non
occidentali o non allineati, e giustifica interventi violenti in nome di una
presunta civiltà superiore. È questa logica che Robinson, e dopo di lui molti
pensatori decoloniali, definiscono suprematismo strutturale.
La
ricostruzione storica di Robinson, che avvia il suo lavoro nel contesto del Fernand
Braudel Center for the Study of Economies, Historical Systems, and
Civilisations presso la Binghamton University, e quindi a contatto con
Immanuel Wallerstein, che lo fonda nel 1976, ma scrive la sua opera principale[13] dal 1974 al 1989. Dunque,
se pure in parziale polemica con l’opera di Wallerstein, e Braudel, accusate di
eurocentrismo, l’ampia ricostruzione storica di Robinson va inserita nella
stagione dei World Studies inaugurata dall’opera di Fernand Braudel, Civiltà
materiale, economia e capitalismo[14] del 1979. Come per
Braudel l’emergere nel lungo medioevo della borghesia è il prodotto della aggregazione
dello Stato-nazione, partendo dalla poliarchia medioevale. Uno Stato nei cui
interstizi crescono posizioni tecniche – le pratiche commerciali e le sue
tecniche come la partita doppia, la capacità di navigazione e di cartografia,
la scienza giuridica – e soggettività le quali, in un certo senso, prendono
possesso parassitario dell’organismo, sfruttandone le occasioni. Nella lotta triangolare
tra i centri di potere come la nobiltà tradizionale (che pretende di essere
giustificata dalla natura stessa), il potere centrale sovrano e i nuovi ceti
tecnici “borghesi” (legittimati dal possesso delle tecniche necessarie alla
gestione unitaria e di massa delle nuove macchine statuali), si forma lo spazio
prima della stagione rivoluzionaria e poi per la centralità del possesso,
dell’astrazione e della valorizzazione e quindi del capitalismo. È qui che si
forma la cosmotecnica dell’Occidente[15] (termine su cui torneremo
in seguito[16]),
strettamente connessa con la sua teleologia e visione universalista del mondo.
Enrique
Dussel ci aiuta a capire questo passaggio fondativo, tramite i dibattiti
cinquecenteschi che seguono alla “conquista” delle indie. In particolare, il Dibattito
di Valladolid[17] nel quale quello
che chiama il “concetto” di emancipazione razionale (valorizzato anche da Chakrabarty[18]) è affiancato dal “mito”
irrazionale dell’eurocentrismo. Nella frase di Sepúlveda
che abbiamo messo in esergo[19]
spiccano due argomenti, la guerra contro gli indios è “giusta”, in quanto
questi sono naturalmente traviati, e questa produce “grandi vantaggi”, e “per
il bene di tutti”. Dunque, anche per il conquistato, il vittimizzato, lo
sconfitto. La immaturità della cultura dell’Altro è giudicata una “colpa”, e il
suo “sacrificio” dunque necessario. Necessario perché il barbaro si
“modernizza” in tal modo. Il rovesciamento mitico non potrebbe essere più
netto: la vittima è colpevole di essere inadeguata, rozza, barbara. Immatura,
mentre il carnefice è innocente. È sempre innocente, comunque, perché ogni
“sacrificio” è per il “bene superiore” (cosa superiore alla Salvezza?). Il
grande umanista spagnolo Sepúlveda è, in questo dibattito, interamente
“moderno”. La vera ragione per la quale i popoli degli Atzechi e Maya, i
Mexica, non sono sviluppati e quindi meritano che gli si faccia guerra non è
che non sono in grado di avere una tecnica (o una loro ‘cosmotecnica’[20]),
le città Atzeche sono di gran lunga più grandi e sotto tanti profili avanzate
di quelle europee, Valladolid nel 1500 aveva 15.000 abitanti, Siviglia ne aveva
50.000, aveva strade strette, chiese gotiche e costruzioni in mattoni, Tenochtitlán,
aveva tra 200 e 300.000 abitanti, era grande come Pechino, costruita su un lago
con canali, acquedotti, piramidi altissime, aveva orti botanici e grandi
palazzi, ogni giorno riceveva 60.000 visitatori. La ragione per la quale sono
‘sottosviluppati’ è completamente diversa:
“Tuttavia, d’altro canto hanno costituito una loro ‘cosa
pubblica’, dove nessuno possiede individualmente, né una casa, né un
campo di cui possa disporre né lasciare in testamento ai propri eredi, perché
tutto sta nelle mani dei loro signori, che con nome improprio chiamano re, al
cui arbitrio vivono più che al proprio, legati alla loro volontà e capricci, e
non alla propria libertà, e il fare tutto questo non oppressi dalla forza
delle armi, ma in modo spontaneo e volontario, è un segno certissimo dell’animo
avvilito e servile di questi barbari […] Tali sono insomma l’indole e i costumi
di questi omuncoli tanto barbari, incolti e disumani, prima dell’arrivo degli
spagnoli”[21].
Insomma,
chiaramente Sepúlveda giudica essere il fondamento della
barbarie, come oggi reputiamo essere quella Russa o Iraniana, o Cinese, non già
la superiorità o inferiorità tecnica, quanto il modo non individuale di
stabilire le relazioni sociali. Sia con le persone come con le cose. La somma
accusa è di non avere proprietà privata (la medesima accusa un secolo dopo sarà
avanzata verso i nativi del Nord America), ovvero ut nihil cuiquam suum sit,
e quindi libertà soggettiva, suae libertati, capace di opporsi ai
signori, se del caso. Per questo la conquista è un atto di emancipazione. Essa
permette al barbaro, all’inferiore ed al colpevole, di uscire dalla sua
“immaturità” (l’Ausgang di Kant). Ovviamente la strada deve essere quella dello
sviluppo, già praticato dall’Occidente, deve finire per adottare le sue
stesse istituzioni e le medesime cosmotecniche, in quanto universali e proprie
della natura umana. E, altrettanto ovviamente, le vittime sono colpevoli di
aver costretto il riluttante liberatore ad esercitare la violenza, in quanto
avrebbero potuto riconoscere da sole che la verità gli veniva incontro benevola.
Sono colpevoli e per questo devono sacrificarsi. Qui, in questo mito, come
scrive Dussel, è all’opera un “gigantesco capovolgimento: la vittima innocente
è trasformata in colpevole, mentre il colpevole che causa la vittima passa per
innocente”[22].
Tornando
al percorso storico-evolutivo si può riconoscere come il modello di
sfruttamento economico-finanziario veneziano e genovese, se pure in piccola
scala, l’ordinamento razzialista legato al “sangue” (e quindi alla trasmissione
ereditaria) transita, liberatosi del blocco ad Oriente determinato
dall’espansione turca, in un enorme salto di scala. Questo produce il dominio
ed incorporamento dei popoli africani e poi asiatici (e americani), e crea in
tal modo l’energia per superare i limiti ecologici[23]. E’ questo percorso a
dare il via al capitalismo mercantile (il quale precede cronologicamente quello
industriale, come riconosce lo stesso Marx in più luoghi). In questo passaggio
storico complesso si insedia quella dialettica del colonialismo per la
quale alla schiavitù plantocratica[24] si oppone la resistenza
comunitaria ben descritta da Robinson.
La
tesi fondamentale è che questo salto di scala attiva, in una direzione
specifica, potenziali di senso (come la riduzione dell’uomo a forza-lavoro) e
strutture organizzative di dominio che erano connaturate ed all’opera da secoli
nella forma di vita e cosmologia europea. Erano, sia chiaro, presenti anche
insieme ad altro, a potenziali diversi, a nuclei di critica potenziale. L’intrusione
nella storia africana, e l’estrazione da questa di milioni di individui
sradicati e trasformati in mera forza-lavoro[25], determina conseguenze
psicologiche, intellettuali e culturali nelle quali ancora viviamo. Decide
quale potenziale si afferma e quale perde. Attiva meccanismi auto-distruttivi e
di annichilimento che erano connaturati al razzialismo autoctono,
funzionalizzandoli verso la massimizzazione del potere e della forza
totalitaria[26].
Meccanismi
che si attivano già nella scena madre, lo sbarco di Colombo (non per caso
genovese). Cristoforo Colombo quando incontra gli Arawakos, i Tainos, e poi i
suoi eredi gli Atzechi, i Maya, i Quechua, e via dicendo, ha alle spalle tutto
il complesso sistema di privilegi feudali e autorità del denaro agita dagli
appetiti degli Stati e dell’emergente capitalismo mercantile (fratelli siamesi
intrecciati, come se fossero due teste con un solo corpo), insieme alla
pulsione missionaria ad esso funzionalizzata. E’ infatti lui stesso un prodotto
tipico del capitale genovese, la cui influenza sui regni iberici era ben
radicata, ed erede di una tradizione di commercio coloniale che aveva secoli di
esperienza. E’ portatore di una pulsione che, tuttavia, come si vede dal caso
di Las Casas[27]
contiene anche i germi della sua critica.
Meccanismi
che poi vengono potenziati a seguito della distruzione quasi totale delle
popolazioni autoctone (le quali ammontavano, prima della conquista a circa un
quarto dell’umanità di allora), ed in conseguenza all’avvio e potenziamento
della Tratta Atlantica degli schiavi neri dall’Africa. La manodopera africana è
capitale e per tale viene trattata. Sono i centri di questa tratta, o i suoi terminali,
come Bordeaux e Nantes in Francia ad essere i luoghi nei quali si crea una
ambiziosa borghesia. Borghesia che, in alleanza con parte del ceto nobiliare
che aveva come nemico il Re[28], è una delle fonti
sociali dei rivoluzionari[29]. Il medesimo impulso
arriva in Inghilterra, che nel corso dell’Ottocento prenderà il sopravvento
nella lotta per il dominio europea. Come propone di considerare Du Bois, in Storia
della razza nera[30],
ed altrove, la schiavitù è l’istituzione che introduce come manodopera decisiva
i neri sradicati dalla grande Africa e tramite questa fonda sia la produzione
primaria al Sud degli Stati Uniti, sia la manifattura al Nord (in base
all’argomento anche di Marx che è la produzione di massa del cotone a rendere
possibile e necessaria la manifattura dello stesso, ovviamente con i feedback
su cui Pomeranz si sofferma a lungo), e il commercio europeo. Ma lo scandalo
della schiavitù, che sollecita i potenziali di liberazione insiti anche essi
nella tradizione morale europea, rende necessario attivare e potenziare
l’ideologia della supremazia bianca. È
il razzismo moderno, dunque, che emerge come risposta difensiva e strutturale
alla possibilità della critica, determinata dallo scandalo della sua
inevitabile presenza, e non come sua causa originaria.
Gli
imperi latini. Il suprematismo riluttante.
Enrique
Dussel, in un ciclo di conferenze tenute a Francoforte[31], pone come abbiamo già
visto al centro della sua attenzione il “mito” irrazionale di autonomia ed autosufficienza
nella dichiarata centralità nel discorso sulla modernità dell’Europa[32], che pure contiene al suo
meglio un “concetto” di emancipazione per via di ragione che non può
essere completamente rigettato. Questo “mito” si afferma insieme alla scoperta
dell’Altro; di chi era impensato e ignoto. Una scoperta che avviene quando il
mondo spagnolo, liberatosi del freno dell’occupazione araba e fortemente
militarizzato, nel 1400, ‘scopre’ il mondo americano. Allora, ed
immediatamente, “l’Altro” viene occultato come “lo Stesso”, proprio nel mentre
e perché lo colonizza, lo conquista, lo distrugge[33].
Gruzinski,
in un meraviglioso libro[34], racconta questa storia molto da vicino.
Scopriamo che l’universo dei mexica venne trascritto[35] in quello dominante per opera delle
sue stesse élite, ma assorbendone le categorie di spazio e tempo che ne
costituiscono l’essenza[36]. Insieme a queste, e all’uso
strategico-militare (e diplomatico) delle stesse nuove storiografie, già con
l’abile Cortez, i popoli amerindi furono sospinti a considerare il loro
passato pre-ispanico come colpa ed arretratezza. Assorbendo, (naturalmente
per il superiore bene delle loro anime immortali), religione, valori,
istituzioni, gerarchie, e, forse più di tutto ciò che con esse è portato: forme
di organizzazione del lavoro ed il concetto dell’umano come strumento.
Il
diventare ‘occidentale’ e ‘moderno’ del mondo è passato, insomma, per armi e
cacciatori di schiavi, come per navi e porti, piantagioni come prime fabbriche
e miniere grandi come metropoli, persino batteri e malattie, ma anche per la
pretesa di ‘essere’ e necessariamente di designare come ‘non essere’ l’altro. Per
l’imposizione, violenta, della cosmotecnica occidentale che riduce tutti gli
spazi a vuoto, tutti i tempi a passato[37]. È passato per la creazione dell’Oriente[38]; la designazione di ogni universo ‘altro’
a spazio tributario, sia periferico sia esotico. Si possono leggere in
proposito le indignate pagine di Dussel, su Kant e soprattutto Hegel, in L’occultamento
dell’’altro’. Il diventare ‘occidente’ del mondo è proiettare il mito che
immagina lo ‘sviluppo’ come modello unico, quello seguito dall’Europa (o
meglio, quello fantasticato per l’Europa, dimenticandone le
radici). È porre un “movimento necessario dell’Essere” che conduce l’umanità
fuori dallo “stato di immaturità che è da imputare a se stesso”[39], e che in Hegel diventa l’automovimento
dello Spirito Assoluto nella Storia che si svolge “da Oriente ad Occidente”[40]. Storia che è in sé lo “sviluppo dello
spirito pensante”, la ragione (ovvero la saggezza di Dio[41]) all’opera. Ciò che Hegel esprime in
modo chiarissimo è che se la “storia è la configurazione dello spirito in forma
di avvenimento”, e questo elemento è ricevuto dal popolo germanico, allora “di
contro al diritto assoluto che egli possiede per essere il portatore attuale
del grado di sviluppo dello Spirito Mondiale, lo spirito degli altri popoli non
ha diritto alcuno”[42]. La “modernità” ha, insomma, una lunga
storia, profonde radici, ma vede la luce quando la periferica Europa si fa
mondo e si confronta da vicino con l’altro da sé[43]. Tuttavia, negandolo come “altro”.
Scrive
Dussel:
“la ‘conquista’ è un processo
militare, pratico, violento che comprende dialetticamente l’Altro come parte di
‘Se Stesso’. L’Altro nella sua distinzione è negato come Altro ed è costretto,
una volta sottomesso ed alienato, a far parte della Totalità dominatrice come
cosa, come strumento, come oppresso, come encomendado, come ‘salariato’ nelle
future aziende o come africano schiavo negli stabilimenti di zucchero o di altri
prodotti tropicali”[44].
Quando,
terminata la ‘reconquista’ (che è anche un laboratorio) il mondo spagnolo
diviene a sua volta conquistatore e colonizzatore, e porta al continente una
nuova coscienza, ricavando flussi immensi di merci, oro, argento e schiavi. La
coscienza di aver esteso i confini dell’essere a tutto il
mondo. Ci vorranno altri secoli ed altre conquiste (tra le quali, capitale,
quella dell’India), ma il gesto è posto e sarà sempre
ripetuto. L’io europeo, e quindi Occidentale, viene divinizzato e trasfigurato
nell’intera tradizione della cultura e filosofia, in un “Io” incondizionato,
indeterminato, infinito ed assoluto[45], mentre l’Altro è ridotto ad essere
semplicemente pensato, ridotto a cosa, privato di parola (che, quando
buca il silenzio è invariabilmente inudibile, mostruosa, retrograda,
illiberale, dispotica, in una parola, “Orientale”). Viene trasfigurato anche
nella teologia, quando salvezza e redenzione sono reinterpretati, nel protestantesimo,
come esperienza individuale e “spiritualistica, interioristica, disincarnata”[46].
La
capacità europea di razzializzare, gerarchizzare e stratificare, se vogliamo
‘terrazzare’ tutti i panorami sociali e culturali con i quali viene in contatto
(ovvero di leggerli nella mente in ordine, dal maggiore al minore, dal grande
al piccolo, dal giusto al colpevole), è qui esercitata ancora una volta.
Nel formarsi del centro si forma la periferia, e nel formarsi del Moderno si
forma il pre-moderno, l’oscuro, il resistente, ciò che va trascinato alla luce.
La Spagna, il Portogallo, il mondo latino (e poi, quindi anche la Francia, che
latina lo è a metà) è, qualunque cosa in merito pensino gli anglosassoni (ed i
tedeschi, da Hegel a Habermas), costitutivo della modernità, e quindi lo è
anche la sua periferia. Non c’è centro possibile senza la periferia, due poli
di una relazione si co-implicano sempre vicendevolmente. L’America latina è
dunque teixili (‘l’altra faccia’ in atzeco) della modernità, la sua
essenziale alterità.
Un’alterità,
che una volta riconosciuta da Amerigo Vespucci come la “Quarta parte”
del mondo (dopo Europa, Africa ed Oriente, già conosciuti), doveva essere
‘pacificata’, esercitando quella attitudine militare messa a punto dal mondo
spagnolo nella lunga lotta con il mondo arabo. Iniziò Vasco Nunez de Balboa a
Panama, ma proseguì con drammatica efficacia Hernan Cortéz, nato nello stesso
anno di Lutero, il 1485, ma nella povera Estremadura. Cortez era un uomo colto
che studiò lettere a Salamanca e poi smise, si trasferì nelle Indie (ovvero in
America) arrivandovi a diciannove anni e per alcuni anni sfruttò a Santo
Domingo gli indios come encomendero[47]. Diventato ricco venne
nominato comandante delle truppe che dovevano conquistare lo Yucatan. La
missione era di sottomettere le culture Maya ed Atzeche per venticinque anni
ignote, ma ora ‘scoperte’. Cortez partì con 11 navi e 508 soldati, con 16
cavalli e 10 pezzi di artiglieria e iniziò il confronto tra due culture,
entrambe altamente complesse e ritualizzate che, tuttavia, non si erano mai
incontrate.
Sul
piano formale, con la conquista delle grandi città Atzeche, che contavano
milioni di persone, molto più grandi delle coeve città europee, gli indigeni
diventarono sudditi del re di Spagna, Carlo V. Quindi, in quanto sudditi,
divennero tenuti a pagare le tasse e affidati a governatori che erano
responsabili del compito di evangelizzarli. Ovvero di far diventare l’Altro
come lo stesso. Qui si manifestò subito un conflitto tra la corona, che non aveva
interesse alla distruzione demografica dei nuovi possedimenti (una cosa che
avvenne comunque, per effetto delle malattie) e i conquistatori. Questi, avidi
di appropriarsi delle ricchezze personalmente, non capivano i vincoli che una
legislazione volta a frenare, e talvolta i sacerdoti mandati a fare il lavoro
di conversione, producevano. La scoperta, negli anni quaranta del Cinquecento,
anche dell’Impero Inca, sulle Ande, inasprì questo conflitto, fino a che Las
Casas riuscì ad ottenere dal Re la sconfessione della conquista come guerra
“giusta”. L’eventuale revoca di queste leggi sarà l’oggetto, come già visto,
della Controversia di Valladolid, nella quale si contrapposero gli
argomenti di Bartolomè de Las Casas, da una parte, e di Juan Gines de Sepulveda
dall’altra. Alla confutazione di Las Casas della possibilità di applicare agli
indiani, che nella loro innocenza non conoscono Cristo, l’argomento sulla
“guerra giusta” di Tommaso d’Aquino, ciò in favore di una conversione sulla
base dell’esempio e la persuasione, Sepulveda oppose infine l’ulteriore
argomento circa la necessità, ed il dovere, di estirpare gli immondi peccati di
sodomia, antropofogia e sacrificio umano, praticati dagli indiani. A vantaggio
concreto delle vittime, in questo caso. Nessuno vinse il dibattito, ma Carlo V
e il successore Filippo II, capirono che lo spirito di appropriazione privato andava
frenato o avrebbe potuto spopolare interamente i nuovi possedimenti del regno. Nel
1570 venne promossa una politica quindi di ripopolamento nelle aree nelle quali
gli spagnoli erano passati, le Antille, il Mesoamerica e le Ande. Gli indiani
vennnero forzatamente raccolti in villaggi gestiti da funzionari regi e con una
chiesa secolare e sotto la protezione del Re. Ma era necessario anche sfruttare
le miniere di argento, scoperte in particolare a Potosì, nelle Ande, a ben
4.000 metri di altezza e la più ricca del mondo[48]. Una parte degli indiani,
ma come yanoconas o mitayos, lavoratori ‘liberi’ (dagli impegni
comunitari), fu dunque destinata a questa ed altre miniere, o alle opere
necessarie per sviluppare le infrastrutture.
La
necessità di conservare l’equilibrio di queste politiche, ovvero allo stesso
tempo di sfruttare le occasioni determinate dalle miniere e di ripopolare le
regioni ai fini di poter ampliare il gettito fiscale, determinò necessariemente
nelle regioni controllate dagli Stati nazionali latini (spagnolo e portoghese),
l’importazione di schiavi neri. I Portoghesi erano nel Cinquecento i
monopolisti di questo commercio e si prestano a fornire il re di Spagna.
Progressivamente dunque l’occupazione del continente proseguì, anche al fine di
sfruttarne prima il legno (il Brasile, scoperto dai portoghesi prende il nome
dal legno rosso brace, brasil) e poi di impiantare piantagioni di
zucchero, alimento preziosissimo e raro, di grande lusso, in tutto il mondo
(Cina inclusa). A partire dal 1560 in Brasile, dove i portoghesi avevano vinto
la competizione con i rivali europei, la produzione ed il commercio dello
zucchero decollò, e con essa la ricerca sempre più spasmodica di schiavi indios
nella grande foresta. Quando il Portogallo venne soggetto alla Spagna (per
ragioni dinastiche) anche qui si estese, però, la legge che impediva la
schiavitù degli indios e si sostituì la forza lavoro con quella derivante dalla
tratta in Africa. Nel 1620, dopo cinquanta anni, l’intera popolazione servile
nei mulini da zucchero divenne nera.
Interessante
la giustificazione che Francisco de Anuncibay, politico di Popayan (ora
Colombia) produsse allora verso il Consiglio del re, responsabile delle indie,
per convincerlo dell’opportunità e liceità di imporre la schiavitù ai “negros”:
“Poiché sono ignoranti, non ho
alcuno scrupolo nel prelevare dalla Guinea tutti i neri che voglio per
cristianizzarli, e quando vedo un negro cristiano mi rallegro con san Paolo;
anche se in condizione di schiavitù, questa deve essere considerata come una
gioia, perché a ragione non c’è fortuna più grande del trovarsi sulla via della
Salvezza, benché il nome di schiavo o di servo offenda le orecchie devote”[49]
Le
istituzioni dell’asservimento,
necessarie per lo sfruttamento di terre di enorme estensione ma povere di
manodopera (anche per le distruzioni operate), entrano, tuttavia,
strutturalmente in conflitto con il potenziale di liberazione
dell’universalismo cristiano. Sarà Las Casas e i suoi successori, ma Gerònimo
de Mendieta, un missionario francescano in Messico, ed anche le sette religiose
che si muovono dall’Inghilterra della Gloriosa Rivoluzione nel corso del
Seicento (anabattisti, quaccheri, puritani, moravi), a sollecitare un vasto
dibattito che poi si riverberò fino alla traduzione nell’impulso illuminista ad
una liberazione per effetto della ragione (Brissot de Warville, l’abate Grégoire,
Condorcet o Raynal che sviluppano critiche alla schiavitù in nome
dei diritti naturali). Si trattò di una dialettica la quale attraversò tutta la
storia dell’emisfero occidentale tra XVI e XVIII secolo, e costituì un campo
di forze che genera contraddizioni, lotte, deviazioni, e possibilità.
Agisce su questa linea di faglia, in qualche modo prendendola sul serio ed in
parola, la rivoluzione haitiana di Toussaint Louverture, morto in un carcere
francese[50].
Alla
logica razzializzata dello sfruttamento e della creazione di gerarchie fondate
sulla natura (o, in alcune versioni, sulla cultura), si oppose così l’attivazione
di dispositivi ideologici parimenti occidentali (paolini, se vogliamo) che
consentivano di ‘prenderla in contropiede’ e determinare reinterpretazioni di
liberazione. In un primo momento i protagonisti furono il già citato Bartolomeo
de Las Casas, Francisco de Vitoria[51], José de Acosta[52], nel secolo successivo il
comunitarismo cristiano radicale si manifestò in alcuni autori chiave come
Roger Williams[53],
che fondò Rhode Island e difese i diritti degli indigeni, il quacchero William
Penn[54] e, nel contesto
illuminista, vanno ricordati Jacques-Pierre Brissot, fondatore della Société
des Amis des Noirs, Condorcet, dichiarato abolizionista, e Denis Diderot,
autore del notevole Supplemento al Viaggio di Bougainville[55]. In questa opera
del 1772, del grande filosofo illuminista, contestò a Bougainville, che
prese possesso di Tahiti in nome della corona francese, che se nelle isole
“tutto è di tutti” il francese, sbarcando e prendendone abusivamente possesso, andava
a “portare la funesta distinzione tra il mio e il tuo”. Inoltre, che il solo
essere più forte non autorizzava nulla, occorreva quindi lasciare all’indigeno
i suoi costumi che erano “più onesti e più saggi dei vostri”. Di più, aggiungeva
che “La sua ignoranza vale più di tutti i vostri lumi, non sa che farsene
[l’indigeno]”. In questo testo prezioso nella sua brevità Denis Diderot, uno
dei filosofi illuministi più eminenti, ma anche più arguti e sensibili,
smascherò la violenza logica del possesso e dell’appropriazione e mostrò un
piano di lotta ontologica alla logica coloniale. Un piano ripreso da Robinson e
da Du Bois, come da altri. Diderot si spinse a portare al limite la critica
illuminista, come in alcuni casi fece anche Rousseau, nel momento in cui affermò
che l’ignoranza può valere più dei lumi imposti dall’alto e dall’esterno, e fece
intravedere una via per rovesciarla che sarà molto praticata nel Novecento e
nella letteratura post-coloniale contemporanea. Il testo di Diderot qui
dialoga, o risuona, con quelli di Fanon, Said, Spivak, Mbembe, o Viveiros de
Castro e i seguaci di Levi-Strauss come Sahlins e molti altri. La modernità si
mostra allora non come processo universale di emancipazione, ma come genealogia
situata, costitutivamente asimmetrica e fondata sulla rimozione dell’Altro.
L’impero
britannico. Il suprematismo senza veli
Il politico conservatore Enoch Powell, in un discorso all’autorevole
Royal Society il 23 aprile 1961 pronunciò queste parole:
“La vita
ininterrotta della nazione inglese nell’arco di mille e più anni è un fenomeno
unico nella storia: il prodotto di un insieme specifico di circostanze come
quelle che in biologia si suppone diano inizio per caso a una nuova linea
evolutiva. […] Da questa vita ininterrotta di un popolo unito nella sua patria
insulare scaturisce, come se emergesse dal suolo d’Inghilterra, tutto
ciò che appare così straordinario nelle doti e nei successi della nazione
inglese. Tutto il suo impatto sul mondo esterno – con le prime colonie, la
successiva Pax Britannica, il governo e la legislazione, il commercio e il
pensiero – è scaturito da impulsi generati qui. Questa vita ininterrotta
dell’Inghilterra è simboleggiata ed espressa da null’altro se non dalla
sovranità inglese […] Il pericolo non è sempre la violenza e la forza: a esse
abbiamo resistito prima e possiamo resistere ancora. Il pericolo può essere
anche l’indifferenza e l’ipocrisia, capaci di dilapidare la grande ricchezza
della tradizione e svilire il nostro simbolismo sacro solo per raggiungere
qualche compromesso a buon mercato o qualche risultato evanescente”.[56]
Queste parole, che articolano in modo sintetico e mirabile, il
‘razzismo popolare’ così diffuso in Inghilterra è al fondamento del “nazionalismo
imperiale” che connette in un unico inestricabile insieme idee sulla razza,
senso di appartenenza ed ambizione di dominio. Si tratta di quello che Carline
Elkins chiama “imperialismo liberale”, o che Tony Blair chiamò “Nuovo
imperialismo liberale”, per giustificare nel 2003 la guerra in Iraq. Quella
unione indissolubile, nutrita di ‘bipensiero’ alla Orwell, di ‘totalità
disumana’ e ‘promessa di riforme’ che caratterizza l’universalismo liberale nella
sua stessa costituzione.
Confrontarsi con questa storia di pratiche e idee, è oggi
particolarmente importante, quando la mai scomparsa postura di legittimazione
del diritto (ed il fardello) di portare al mondo l’emancipazione e la ‘libertà’
riprende il suo posto centrale alla vigilia della nuova Grande Guerra che si
prepara e, per intanto, nelle “guerre locali” che proliferano. In tutte le
guerre “locali”, nelle quali lo status di nazione “aggredita” tocca, di volta
in volta, alla povera Ucraina (sedotta ed ingannata dall’Occidente collettivo e
poi invasa dalla vicina Russia[57]),
ad Israele, sia quando distrugge Gaza (uno dei luoghi di insediamento umano più
antico della storia, ampiamente citato nella Bibbia[58])
in risposta ad un attacco a sorpresa di Hamas, sia quando aggredisce
improvvisamente l’Iran[59]
impegnato in negoziati sul nucleare civile, oppure quando prende un pezzo di
carne alla Siria[60],
aggredita sostanzialmente dalla Turchia. Siamo sempre “noi”, o i nostri
amici del momento, ad essere dalla parte giusta della Storia e del progresso,
sempre gli altri ad essere oscurantisti, autoritari e portatori di “regimi”,
violenti ed arretrati ad un tempo. Come si vede siamo sempre dalle parti degli
argomenti teologici di Sepulveda.
La cosa viene da lontano, ma si riproduce sempre. Robert Cooper,
consigliere di Blair per la politica estera disse, ad esempio, in occasione
dell’aggressione dell’Occidente all’Iraq[61],
giustificato contro l’Onu con prove false fabbricate dal MI6[62],
che nel mondo “postmoderno” la “vera sfida è abituarsi all’idea di due pesi e
due misure”. Con una franchezza meritevole di miglior occasione, Cooper affermò
che mentre in patria si trattava di operare in base alle leggi, negli “stati più
antiquati, al di fuori del continente postmoderno dell’Europa, dobbiamo
tornare ai metodi più rudi di un’epoca precedente”. Cioè “alla forza,
all’attacco preventivo, l’inganno”. Specificamente, “tutto ciò che è necessario
per affrontare coloro che vivono ancora nel mondo ottocentesco di ogni stato
per sé”. In parole ancora più crude: “tra noi rispettiamo la legge, ma quando operiamo
nella giungla, dobbiamo usare anche le leggi della giungla”. Per
giustificare l’intervento nella ex-colonia, come oggi a ben vedere per
giustificare ogni macelleria in grande stile che, di volta in volta, si rende
purtroppo “necessaria”, l’onesto Cooper non si fece scrupolo di richiamare il
colonialismo. Leggiamo ancora:
“Il modo più
logico per affrontare il caos, nonché quello maggiormente utilizzato in
passato, è la colonizzazione. Essa è tuttavia inaccettabile per gli stati
postmoderni (e, a quanto pare, anche per alcuni stati moderni). È proprio a
causa della morte dell’imperialismo che stiamo assistendo all’emergere di un
mondo premoderno. Impero e imperialismo sono parole che nel mondo postmoderno
evocano una forma di abuso. Oggi non ci sono potenze disposte ad assumersi
l’onere di una colonizzazione, anche se le opportunità in tal senso. E forse
anche la necessità, sono forti come lo erano nel XIX secolo”[63].
Queste parole non sono pronunciate, come molte che vedremo, nel
XVIII secolo, e neppure nel XIX o XX, non sono di Sepulveda, sono nostre
contemporanee. Risalgono a venti anni fa. E non sono pronunciate da
populisti con la bava alla bocca, bensì dal civilizzato e di “sinistra” governo
inglese, alleato strettamente con il neoconservatore governo americano; sono
pronunciate davanti alle antichissime porte di Baghdad, fondata nel VIII secolo
dal califfo al-Mansur ed in una regione letteralmente centrale nella storia del
mondo occidentale[64].
Queste parole crude (che poi si articolano a seconda dei casi nel
neoimperialismo soft, o informale, dell’economia globale controllata con il
‘pilota automatico’ dagli organismi finanziari internazionali, o, quando la
sfida si fa stringente, nel neoimperialismo hard, in piena aria, delle guerre
per procura tramite terzi) incarnano l’imperialismo liberale, che si sforza di
“Take Back Control” (lo slogan conservatore di Farange) o “Make
America Great Again” (lo slogan di Trump). Parole che si accompagnano,
secondo una sistematica di lungo tempo, con le promesse di libertà e
universalismo.
Il “Giano bifronte” del liberalismo viene illuminato da queste
parole e dalle corrispondenti azioni. Di fatto l’inestricabile groviglio tra
liberalismo, violenza, legge e creazione di appropriate tesi storiche
ideologiche ha contribuito nel corso della storia a sedimentare in gran parte
del mondo contemporaneo una particolare cultura della sopraffazione vestita
di abiti civili. Una cultura che è transitata nei volenterosi allievi
statunitensi, poi fattisi maestri, e di qui divenuta marchio di fabbrica dell’Occidente
verso il resto del mondo.
La centralità della vicenda britannica è pari, nel mondo moderno,
a quella dei romani e greci nel mondo antico; chiaramente strutturante e punto
di riferimento, sia nella prima fase sei-settecentesca (quando si svolse con
mezzi informali e secondo lo svolgimento del “libero mercato”), sia nella
seconda otto-novecentesca (quando la crescita della concorrenza obbligò a
passare al modello della ‘clausola imperiale’ per continuare a garantire che
gli investimenti restassero senza concorrenti, l’importazione di cibo e merci
privilegiata e lo spazio finanziario della sterlina al sicuro).
Complessivamente i britannici invasero o conquistarono 178 paesi e nel solo XIX
secolo promossero 250 conflitti armati e controinsurrezioni. Quelle che Kipling
definì “le barbare guerre per la pace”, in una splendida applicazione
del “pensiero doppio”[65]
orwelliano.
Nell’impero britannico, ed apertamente, il colore della pelle
divenne il segno della differenza, secondo una ben precisa gerarchia razziale;
ma la pelle era in realtà un segno ‘costruito’. Come nota anche Cedric
Robinson, di volta in volta potevano essere “neri” gli irlandesi, i palestinesi
e gli ebrei, o anche gli afrikaner olandesi; in una classificazione che si
sovrappose ed implicò sempre un giudizio unilaterale circa il livello di
“modernità” e “maturità” rispetto ad un’implicita scala del progresso, secondo
i rigidi parametri della filosofia della storia dell’Occidente. O, in altri
termini, secondo la sua idea di “libertà” e di “Stato di Diritto”. Questa è,
per la Elkins, la “Sideologia del liberalismo liberale”, che con le sue
rigide camicie di nesso intrappola le menti ed i cuori degli attori imperiali e
integra le loro rivendicazioni sovrane. Ne derivò per la Gran Bretagna un
massiccio impegno a “riformare” i sudditi e accompagnarli, come un gregge
talvolta recalcitrante, nel mondo moderno. Si tratta del famoso “fardello
dell’uomo bianco”[66].
Questo è il tema, centrale da un certo punto dello svolgimento
della storia, dello “sviluppismo” che cominciò a vedere i barbari, con una
condiscendenza autopercepita come generosa, come bambini da far maturare. Ne
derivò l’assunzione di una “missione civilizzatrice” di cui la violenza fu da
sempre sia il mezzo sia il fine. Nel corso del XIX secolo l’intera missione,
nel transitare l’Impero nel regno dello Stato di Diritto, si innervò di codici
e procedure che non fecero altro che legittimare e giustificare la violenza e
proteggere i suoi autori. Ma per questa via, tra “missione” e “legge”,
l’imperialismo liberale metteva ai suoi avversari in mano le armi del suo
disfacimento. Un bambino prima o poi deve crescere, anche se, nel frattempo è
giusto sia esposto alla dura disciplina, alla punizione, visibile e educativa
per il suo bene. L’apice di questo disfacimento si ebbe subito dopo la II WW,
nelle condizioni particolari generate dalla crisi economica britannica, che la
rendeva contemporaneamente dipendente dall’Impero e non più finanziariamente
indipendente nel sostegno della sterlina, dalla complessa relazione con gli
Stati Uniti, determinati a porre fine alla centralità britannica, ma bisognosi
del controllo imperiale in chiave antisovietica, e il movimento terzomondista
che prendeva in parola le parole d’ordine istituite nell’immediato dopoguerra e
via via istituzionalizzate in organismi internazionali e solenni
“Dichiarazioni”.
Insomma, in base ad una sintetica formulazione della Elkins: “la
violenza era connaturata al liberalismo. Risiedeva nello stesso riformismo
liberale, nelle sue pretese di modernità e nelle sue concezioni della legge:
elementi, di fatto, opposti a quelli normalmente associati alla violenza”[67].
Non si è trattato solo di sfruttamento economico, e non solo di “capitalismo
razziale” alla Robinson[68],
ma di un legame interno ed intimo tra liberalismo e violenza (un legame
logico e storico) che è presente anche nelle questioni razziali (e
geopolitiche) contemporanee. Anche oggi i popoli “neri” sono allineati sulla
linea del progresso, rappresentato dalla maggiore o minore vicinanza ad un
modello soprastorico (ne è un esempio la Russia, nerissima, mentre l’Ucraina è,
per ora, bianchissima, e via dicendo, ora stanno diventando bianchi anche i
‘ribelli’ siriani e ‘neri’ come sono sempre stati i lealisti, o, sono
ovviamente ‘neri’ i civilissimi persiani mentre sono bianchissimi ed immacolati
gli ebrei sionisti).
| Campo di concentramento inglese dei Boeri |
Tornando all’impero inglese, si può notare come di fatto in esso coesistevano
per tutta la sua durata, e spesso teorizzati, sistemi duplici di autorità e
legittimazione: leggi consuetudinarie in patria e codici coloniali fuori.
Monopolio della violenza in entrambi (che non cedette neppure al cosiddetto
“governo indiretto”, a volte praticato quando considerato più economico). Era,
infatti, questa la “missione civilizzatrice” che implicava, e necessariamente,
sia una dimensione progressista sia una dimensione coercitiva. In effetti,
“riforme e repressione erano connaturate sia al linguaggio [dell’imperialismo
liberale] sia ai suoi sistemi. Il perenne gioco universalista sullo sfondo
delle differenze razziali [ovvero di grado di civilizzazione] si riproducevano
a catena”[69].
Anche dopo la I WW, il sistema del “mandati” non portò modifiche sostanziali,
semplicemente sostituendo una “amministrazione fiduciaria”, nominalmente
sorvegliata dalla “Società delle Nazioni”, al vecchio dominio diretto. I popoli
“non ancora capaci di reggersi da sé, nelle difficili condizioni del mondo
moderno”, secondo la formula giuridica applicata, restarono sottomessi, ovviamente
per il loro bene.
Tuttavia, nella II WW, la mobilitazione senza precedenti dei
popoli coloniali come soldati e come forza lavoro rese necessario fare promesse
che, in seguito, restarono sospese. Ed allora la difficile relazione con gli
Stati Uniti e il loro approccio (insieme storico-culturale e di interesse)
antimperialista, unita alla dipendenza economica, resero necessario per la Gran
Bretagna rivestire la sostanza coloniale di nuove idee, le quali sfidarono in
modo crescente il “bipensiero” imperiale. In conseguenza la “amministrazione
fiduciaria” diventò “partnership”, verso il “benessere comune” (Commonwealth).
Ma nella Carta delle Nazioni restò viva la definizione di “territori la cui
popolazione non ha ancora raggiunto la piena autonomia” e per i quali è quindi
necessario garantire, con le buone o le cattive, il “progressivo sviluppo”. Ne
derivò una tensione strutturale, presa tra le necessità economiche di
utilizzare le aree protette coloniali per alimentare la rinascita economica e
le belle parole, tra pretesi diritti universali e discriminazione razziale (che
è, in realtà, discriminazione rispetto alla conformazione al modello
universale).
Di qui il catalogo di atrocità che solerti funzionari e militari
britannici compirono in tutte le aree di sollevazione dell’impero, in Africa
(dalla guerra boera a quella keniota) in Medio Oriente (con il caso palestina
in evidenza), in Oriente (dall’India alla Malesia, e via dicendo), senza
dimenticare la palestra irlandese, o la vicenda cipriota. Vicende che giunsero
al culmine tra gli anni Cinquanta e Sessanta, ma poi proseguono in Vietnam ad
opera degli allievi Americani. L’Impero britannico, insomma, assunse una
configurazione sempre più violenta nel tempo, man mano che da una parte
esaltava le virtù del liberalismo, per difendere un dominio che appariva sempre
più obsoleto, dall’altra era costretto a legittimare internamente ed
esternamente gli episodi di estrema coercizione come sfortunate eccezioni al
trionfo evolutivo della modernità.
Questa è la forma che prende il “Nazionalismo Imperialista”
che, lascito di lungo periodo del colonialismo britannico, permane e
continuamente riemerge nell’attuale Gran Bretagna. E non solo.
Una delle cose che occorre comprendere è che spunti
progressisti e azione coercitiva sono entrambi espressione della medesima,
autoattribuita, “missione civilizzatrice”. L’imperialismo liberale può sempre
tollerare contestazioni perché riforme e repressione sono parte del suo
linguaggio e dei suoi sistemi operativi.
![]() |
| Ghandi |
Parte Prima: Una nazione imperiale.
La prima scena è la conquista dell’India, gioiello dell’Impero, da
parte della Compagnia delle Indie Orientali[70]
che sfrutta un episodio del 1756 (la
cattura di alcuni inglesi e la detenzione nel cosiddetto “Buco nero di
Calcutta”) per giustificare l’attacco militare al Bengala e la battaglia di
Plasey, del 1757, che dà l’avvio alla sistematica presenza inglese, Dai Moghul
viene concesso il diritto di riscuotere le tasse che porterà somme enormi al
tesoro inglese, ma, a causa di pratiche di selvaggio sovrasfruttamento, anche
un’immane carestia nella quale si stima siamo morti circa 10 milioni di persone
(un terzo della popolazione). Questo effetto non voluto portò, tuttavia, ad una
caduta delle entrate e la Compagnia sull’orlo della bancarotta; a sua volta
questo provocò un crollo del credito a livello globale. In questo contesto fu
concesso un prestito di 1,4 milioni di sterline, e fu sostituito il
Governatore, da Clive ad Hastings. Quest’ultimo fu poi richiamato per subire un
processo che è, in effetti, la scena madre di alcune delle strutture discorsive
ricorrenti. Il processo in Parlamento vide Edmund Burke impegnato per l’accusa.
La linea tenuta mise sotto giudizio la legittimità dell’impero, richiedendo
standard superiori. Secondo Burke l’impero si giustifica per il benessere dei
sudditi e la creazione di uno Stato di Diritto. La Gran Bretagna aveva la sacra
missione di istituire un governo degno e responsabile, che comprendesse anche
le tradizioni locali aiutandole ad evolvere in direzione della modernità[71].
In uno straordinario passaggio retorico del Discorso di Apertura, il 15
febbraio 1788, Edmund Burke, davanti alla Camera dei Lord, pronunciò la verità
che il processo avrebbe dovuto dissolvere:
“Dio non
voglia che all’estero si diffonda l’idea che le leggi dell’Inghilterra sono
fatte per i ricchi e i potenti invece che per i poveri, i miserabili, gli
indifesi che non si possono permettere alcun’altra protezione. Dio non voglia
che si dica che in questo regno sappiamo assegnare ai funzionari pubblici
poteri estremamente ampi e incontrollabili e abbiamo mezzi scarsi, inefficaci,
manchevoli e impotenti per richiamare in giudizio chi ne abusa. Dio non voglia
che si dica che al mondo non c’è nazione pari alla Gran Bretagna per
concretezza della violenza e irregolarità della giustizia. Non si dovrà mai
dire che – per coprire la nostra responsabilità nel saccheggio dell’Oriente – abbiamo
inventato un insieme di distinzioni scolastiche contrarie al sentimento di
umanità, per mezzo delle quali fingere di non sapere ciò che il resto del mondo
sa bene e sente”[72].
In un discorso che durò quattro giorni il filosofo e politico
inglese accusò Hastings di “moralità geografica”, ovvero che “una volta
superata la linea equatoriale, tutte le virtù morissero”. Al contrario, le
leggi morali “sono le stesse ovunque”. Questa idea, dell’universalità dei
diritti umani, in quanto “naturali” era in effetti una delle grandi idee del
secolo, che si sarebbe affermata attraverso le due rivoluzioni “atlantiche”
(anzi le tre[73]).
L’assoluzione, dopo nove anni e oltre 170 sedute, di Hastings lasciò comunque
due eredità: che la Compagnia doveva rispondere alla corona, e che la sacra
responsabilità della Gran Bretagna nei confronti dei popoli sottomessi non
poteva essere ignorata.
Si rendeva quindi necessaria una più articolata giustificazione
del dominio. Altri grandi intellettuali, come James Mill vi si impegnarono. Una
linea da perseguire era quella di descrivere l’altro come deficitario e quindi
bisognoso di tutela, ovvero come antitesi della civiltà. D’altra parte,
come ricorda opportunamente la Elkins il pensiero liberale si è evoluto in
Europa intersecandosi sin dall’inizio, ovvero da cinque-seicento, con il lungo
processo dell’ascesa degli imperi (prima spagnolo e portoghese, poi francese e
inglese, olandese) in un rapporto che qualifica come “reciprocamente
costitutivo”.
Anche se questa tesi richiederebbe maggiore esplicazione, di
fatto comporta una coevoluzione delle idee stesse di libertà, progresso e
governo. L’espansionismo, ideologico e materiale, è, insomma, connaturato
nei tratti distintivi del liberalismo, e con esso le nozioni universalistiche
di progresso e le rivendicazioni morali, tutte strettamente connesse con
l’espansione della proprietà e del capitale come ordinatore centrale
della società. Deriva da tale postura, che ha radici profondissime[74],
che talvolta nei confronti delle “razze minorenni”, secondo la fortunatissima
formula di Jhon Stuart Mill, il dispotismo può essere “necessario”.
L’organizzatore ulteriore della razza venne rafforzato via via
dagli episodi che si susseguirono, tra i quali si può ricordare la ribellione
dei Sepoy, e la Commissione di inchiesta composta da Mill, Darwin e Herbert
Spencer, che vide a difesa della legittimità dell’Impero impegnarsi Dickens,
Jhon Ruskin e Thomas Carlyle. In questo scontro di giganti della cultura
inglese venne messa a punto l’idea che, contrariamente a quanto sostenuto da
Burke, i diversi stati di sviluppo devono comportare l’applicazione di
diversi livelli legali. Si tratta di un cambiamento epocale[75].
Intorno all’apprendimento reso dagli eventi giamaicani fu ampliata la
possibilità di ricorrere alla violenza, come base stessa del diritto. L’Impero
cominciò ad essere concepito come impresa patriottica totalizzante.
Tutti questi momenti ebbero una convergenza nella grande sintesi
di Disraeli, che attraverso l’evento simbolico e il grande spettacolo
dell’incoronazione della regina Vittoria, determinò un legame duraturo tra
l’orgoglio nazionale e la “missione civilizzatrice” autoassunta. In letteratura
fu la stagione di Caroll, George Alfred, Kipling, Selley.
Ma non fu solo una questione culturale, o politica. In realtà per
mantenere la sua posizione di leader finanziario mondiale, e favorire
l’affermazione del capitalismo nel paese, la Gran Bretagna doveva assicurarsi
un flusso costante di oro. Ad ostacolare questo processo stavano gli
afrikaneers, discendenti dei primi coloni olandesi e insediati nel cruciale sud
Africa. Quando si scoprì l’oro nel Transvaal, nel 1806, migliaia di inglesi e
imprenditori senza scrupoli, si riversarono regione. Il presidente dei Boeri,
Paul Kruger impose allora regole che rendevano difficili gli insediamenti
coloniali inglesi, e ciò portò a lunghi decenni di attriti che, alla fine,
scaturirono in guerre. La Seconda guerra anglo-boera fu combattuta a partire dal
1899, quando per risolvere la cosa la corona inviò 75.000 uomini in una
“missione di civiltà”. Una “missione” che si amplificò costantemente, fino ad
arrivare a impegnare 450.000 soldati, di cui 22.000 morirono e 75.000 restarono
invalidi. Durante questa guerra prese il via il solito processo di
deumanizzazione degli avversari che, per Kipling, erano una “mezza casta” e vennero
coerentemente con questa autorizzazione affrontati via via con mezzi sempre più
radicali. Sarà infine il generale Kitchener, reso famoso per l’aver sconfitto
in Sudan le forze di Al-Mahdi, che proporrà una soluzione drastica per
contrastare l’abilissima guerriglia dei boeri: divise il territorio con
fortificazioni e filo spinato e realizzò campi di prigionia di massa nei quali
anche le donne e i bambini erano dichiarati obiettivi legittimi. Fu in assoluto
la prima volta che un intero gruppo etnico era soggetto a deportazione ed
internamento di massa. I campi di concentramento di Kitchener furono osservati
in tutto il mondo con interesse, in particolare in Germania. Oggi hanno trovato
l’ennesima applicazione a Gaza.
Dall’altra parte militava Jon Smuts, una personalità realmente
straordinaria, a capo dei commando afrikaner e che poi diventerà uno dei
principali architetti delle trasformazioni imperiali nelle fasi successive.
Durante la guerra furono sperimentate anche armi proibite come le micidiali
pallottole dum-dum.
Il prossimo sito di scontro, e luogo di apprendimento, fu
l’Irlanda, in cui si misero a punto tattiche e regolamenti che poi saranno
esportati in tutto l’Impero. Nel 1916, alla fine della I Guerra Mondiale,
Patrick Pearse occupò con un colpo di mano l’Ufficio Postale di Dublino. Per
risolvere la crisi Kitchener, ormai Segretario alla Guerra, mandò il generale
John Maxwell, nominandolo Governatore militare dell’Irlanda. La repressione fu
feroce, in pochi giorni furono uccisi 500 civili, e i leader furono catturati e
giustiziati. Invece di sedare la cosa, questo fece cambiare direzione
all’opinione pubblica. Il sacrificio di Pearce accese la miccia nella quale
emersero nuovi leader militari, forgiati nelle lotte degli afrikaaners; tra
questi Michael Collins che portò l’enorme esperienza della guerra di guerriglia
ad un nuovo livello. La guerra di indipendenza irlandese portò il governo di
Lloyd George alla decisione di far arrivare altri 10.000 uomini sull’isola e a
far nascere le famigerate unità dei “Block and Thanks” che alzano enormemente
il livello di violenza. Il risultato fu, però, solo che crebbe enormemente
anche il reclutamento nell’IRA.
Nel frattempo, Smuts, ormai convinto della necessità per il
Sudafrica di rimanere con l’Impero per portare a termine la missione di
civiltà, contribuì alla definizione nella Società delle Nazioni del concetto
dei “Mandati”. Per cui la colonizzazione poteva continuare, su Mandato della
Società, per il tempo necessario a che il paese bambino crescesse. Venivano
definiti anche Mandati di diversa classe, secondo il grado di maturità: A o B.
L’India era sottoposta ad uno di questi “mandati”, ma fu subito
soggetta a numerose rivolte. Uno dei punti di definizione fu la strage del
Parco Bagh, quando l’ufficiale inglese, Reginald Dyer, fece aprire il fuoco su
una folla pacifica, uccidendo 400 persone e ferendone 1.200. La rivolta terminò
con la condanna di 581 persone e l’esecuzione di altre 108. Chiamato a
risponderne Dyer giustificò i suoi provvedimenti come “necessari” ed
appropriati. La violenza aveva, infatti, un “effetto morale” salutare. Nel
processo che seguì i laburisti si mossero all’attacco e Churchill produsse
un’abile difesa che lo restringeva ad un “orribile episodio isolato” non tale
da compromettere “l’augusta e venerabile struttura dell’Impero Britannico, in
cui l’autorità legittima si tramanda di mano in mano e di generazione in
generazione” e che “non ha bisogno di ricorrere a cose simili”, in quanto “tali
idee sono assolutamente estranee al modo di fare britannico”[76].
In realtà la causa ottenne effetti di legittimazione della violenza, in quanto
mostrò un sentimento di appoggio all’ufficiale in tutti i ceti sociali e radicò
la violenza “necessaria” dell’Impero nei concetti di dovere, onore, nella
difesa dell’Impero e di conseguenza della nazione.
L’insurrezione in Iraq inaugurò nuove tecniche di
controinsurrezione, ovvero un nuovo livello di terrorismo. Arthur “bomber”
Harris ne fu l’eroe. Dal 1920 fu messa a punto una tecnica di bombardamento
areo indiscriminato che colpiva sistematicamente i villaggi isolati, più o meno
indicati come “ribelli” dalla nascente intelligence imperiale. Si tratta della
tattica della “violenza e terrore” dal cielo, come la chiamò un giovane Wiston
Churchill. Attacchi continui, giorno e notte, con dardi aerei, gas, bombe al
fosforo, razzi, bombe ritardate, semplici granate, e greggio per contaminare
l’acqua.
Più o meno nello stesso anno prese avvio la “questione
palestinese”, nella quale furono impiegati membri della ex polizia irlandese.
Inizialmente l’Alto Commissario in Egitto promise sostegno ai palestinesi, ma
Lloyd George, divenuto premier, cercò subito un accordo con i soli ebrei. Fu allora
che Chaim Weizmann riuscì a far sembrare il frammentato mondo sionista come se
fosse forza unitaria e decisiva, e quindi “la Palestina come focolare nazionale
per il popolo ebraico”. Sarà questo il contesto della “Dichiarazione di
Balfour”, che fu resa possibile dalla intermediazione di Wilson verso Lloyd
George. La reazione dei nazionalisti arabi fu l’innesco dello scontro sul muro
di Gerusalemme, che vide il nuovo ufficiale inglese, Duff, applicare la cultura
dei “Black and Tanks”. Una violenza indiscriminata, tuttavia, ampiamente
giustificata davanti alle critiche ricevute in patria. Sarà l’affermazione di
Ben Gurion e l’assassinio del leader arabo Al-Qassam a portare lo scontro ad un
livello insostenibile. Un livello di illegalità generalizzata da tutte le parti
in conflitto, e da parte inglese. Vennero importate nuove tattiche di
interrogatorio (direttamente dalla famigerata prigione “Cellular Jail” del
Bengala. Charles Tagart creò centri di detenzione e tortura distribuiti e fuori
vista ed un muro lungo 80 km. Nell’estate del 1938 la rivolta araba aumentò ed
arrivò il mitico capitano Orde Wingate, il quale creò subito le “squadre
speciali notturne”, che per i critici “puzzavano di Gestapo”.
Parte Seconda. L’impero in guerra.
La Seconda Guerra Mondiale fu il punto di svolta di tutte le
tendenze. L’avvio fu disastroso, i Giapponesi, con irrisoria facilità, presero
la “fortezza Singapore”, catturando 130.000 soldati inglesi e uccidendone
10.000. La necessità di mobilitazione portò i leader politici a fare promesse
di liberazione generale che, nel dopoguerra, si ritorsero contro di loro.
Chamberlain dichiarò che l’obiettivo della guerra era sconfiggere l’intera
mentalità aggressiva e prepotente che cerca di dominare gli altri popoli con la
forza. Lui pensava ai tedeschi e giapponesi, altri penseranno agli inglesi.
La guerra venne posta quindi in termini di evangelizzazione, in
quanto “cristianesimo, civiltà occidentale, democrazia e stato di diritto” sono
tutt’uno. Ancora, c’è chi ascoltate queste parole penserà ingenuamente che
democrazia significa autodeterminazione.
La spinta essenziale che determinerà lo sdoganamento del tema dell’autodeterminazione
e quindi della decolonizzazione, del resto ormai maturo, arrivò dagli Usa, e fu
imperniato nella retorica che la coppia Roosevelt, marito presidente e moglie,
promossero per ragioni geopolitiche non meno che ideali. Si trattava delle
famose “quattro libertà essenziali”. Quella di parola, di religione, dal
bisogno e dalla paura. Venne sbandierato l’ideale della “cooperazione di paesi
liberi, che lavorano insieme per una società amichevole e civile, … la libertà
significa la supremazia dei diritti umani ovunque”[77].
Tra i due alleati iniziò un fitto e complesso rapporto, che vide
da una parte la determinazione americana a indebolire il ruolo della sterlina
nel dopoguerra, per sostituirla con il dollaro, e quindi per essa l’impero
commerciale e coloniale inglese (per cui, ad esempio, in cambio
dell’indispensabile petrolio è pretesa la cessione di basi militari coloniali),
mentre dagli inglesi la resistenza a tale ipotesi, per paura che la riduzione
del loro impero comportasse l’ascesa di quello americano (come sarà).
Questo è il contesto della scrittura, imposta dagli americani e
accettata dagli inglesi pensando in sostanza alla sua applicazione solo
all’Europa occupata dai nazisti, della “Carta atlantica”. Venne
pronunciata solennemente la promessa di rispettare il diritto di tutti i popoli
e i relativi diritti sovrani e di autogoverno. Dunque, mentre l’Inghilterra aveva
un disperato bisogno dell’aiuto americano per sopravvivere alla pressione
tedesca, e quindi accettò di scambiare basi per petrolio, l’Accordo di Ottawa e
la Carta Atlantica, gli americani puntavano, evidentemente, ad aprire i
commerci (avendo l’economia più forte), e quindi eliminare la “preferenza
imperiale”.
Questa fu la retorica, ormai visibile, che venne sfidata dal basso
da una nuova generazione di intellettuali periferici, formati nelle università
del centro, e dall’altro da Roosevelt, il quale dichiarò finita “l’età
dell’imperialismo”. Simili dichiarazioni ottennero un effetto particolare sui
movimenti di liberazione coloniale e i loro attivisti, come Padmore[78].
Da una parte aprirono speranza, dall’altra consigliarono una postura meno
radicale e disperata; di attenuare il linguaggio di denuncia ed enfatizzare,
piuttosto, il concetto di “autodeterminazione dei popoli” ed il suo nesso con
il benessere. In altre parole, di tradurre le rivendicazioni nel linguaggio
educato, e ‘civilizzato’, dei “diritti”.
Al momento agli alleati, però, per vincere l’Impero serviva
l’India, la quale contribuì con 2.250.000 soldati, ma anche con una crescente
industrializzazione di guerra. Per ottenerlo furono aperti negoziati con la
Lega Mussulmana, da una parte, e il Congresso Indiano, dall’altra. Proprio in
questo momento Gandhi lanciò una campagna di disobbedienza civile che sfuggì di
mano ai proponenti e diventò molto rapidamente una rivolta di massa, subito
repressa nel sangue dagli Inglesi; lo stesso Mahatma venne arrestato e
rilasciato solo nel 1944, per paura che potesse morire in carcere, dove nel
frattempo si era ammalato. Dall’altra parte della barricata troviamo in questi
anni Bose che creò l’Ina, un esercito di oltre 300.000 combattenti indiani che
lottò contro gli inglesi, appoggiato ed armato dai giapponesi.
Mentre il mondo era immerso nella guerra, emersero autori come
Nnamdi Azikiwe, autore di un trattato sulla “Rinascita africana”[79],
Eric Williams “Capitalismo e schiavitù”[80],
Robert James, che scrisse “Giacobini neri”[81],
William Du Bois, con “Le anime del popolo nero”[82],
Aimé Cesaire “Discorso sul colonialismo”[83],
Franz Fanon “Pelle nera, maschere bianche”[84] e
“I dannati
della terra”[85],
George Padmore. “The life and struggles of negro toilers”[86], “How Britain Rules Africa”[87], “Africa and world peace”[88]. Insieme
avviarono un complessivo ripensamento delle condizioni della loro soggezione,
focalizzando “l’empia alleanza tra capitalismo, razzismo e colonialismo”[89].
Ovvero la doppia capacità del liberalismo di emancipare e insieme reprimere,
di illuminare e nascondere alla vista. Essenzialmente offuscando e
giustificando la violenza con la retorica della missione civilizzatrice. Cioè
con la lettura dell’impero paradossalmente come libertà, se non subito almeno
in fieri, e secondo la presunta capacità di portare la civiltà alle
razze minori del mondo. Il dominio imperiale come azione di emancipazione e
libertà che, per i suoi propagandisti, non si era affermato con una vera e
propria violenza, in quanto si era semplicemente e naturalmente esteso in aree
“vuote”. Questa idea che l’altro sia “vuoto”, e quindi disponibile ad
accogliere il “pieno” portato dall’Occidente (casomai con mezzi coercitivi a
fin di bene), è una delle più resistenti eredità del colonialismo anglosassone
e della sua interpretazione della ‘civiltà occidentale’.
Reginald Coupland, autore di libri come “Zulku battle piece:
Isandhalawana”[90] e
“India a re-statement”[91],
promosse, ad esempio, l’idea che l’impero manifestava l’equità, se non
addirittura l’umiltà con la quale il fardello dell’uomo bianco era portato nel
mondo, gratificando le razze minori del dono dell’umanità e civiltà. Insomma,
per questa impostazione, l’essenza del dominio imperiale britannico risiedeva
nell’espansione della libertà costituzionale, e, insieme, nello spiegamento del
potere civilizzatore. Con il suo portato di lavoro libero (ovvero salariato)
anziché schiavizzato, al libero scambio ed un sistema di governance e
legislazione privo di quelle caratteristiche di dispotismo e barbarie che,
invariabilmente, affliggevano da sempre le razze per questo “minori” del mondo.
Anche se talvolta senza questa precisione, questa è l’idea che
permane anche oggi e si manifesta invariabilmente ogni qual volta qualche razza
“minore”, o “bambina”, si oppone al buon padre che è incarnato nel magnanimo
Occidente. Si tratta di quello che Gorge Orwell, da decenni fermo oppositore
interno dell’imperialismo inglese, chiamava nel finire della sua vita “doppio
pensiero”. Nel 1948 scrisse, quando ormai si arrese alla progressione della
tubercolosi che lo ucciderà dopo sette mesi dalla pubblicazione, il suo romanzo
più famoso, “1984”[92]. Il
testo si può leggere, nel contesto della vita e degli orientamenti dell’autore,
come denuncia dell’imperialismo inglese (anziché della dittatura comunista,
come spesso è interpretato). Esso, infatti, esplora le conseguenze del
totalitarismo e dell’imperialismo liberale, dove, come nella Oceania del libro,
“la guerra è pace” e “la libertà è schiavitù”. Oggi l’aggredito è Israele
(quando bombarda Gaza come l’Iran) e, contemporaneamente, è l’Ucraina (quando
viene bombardata dalla Russia).
È il “Doppio pensiero, che implica la capacità di accogliere simultaneamente
nella propria mente due opinioni tra loro contrastanti, accettandole entrambe.
L’intellettuale di partito sa in che direzione vanno alterati i ricordi e
dunque sa che sta facendo tiri mancini alla realtà, ma grazie al bipensare si
persuade anche di non violarla”[93].
Si tratta di “usare l’inganno in modo consapevole”, evitando al contempo un
“senso di falsità, dunque di colpa”. Qualcosa che è conscio ed inconscio allo
stesso tempo e che richiede un lungo addestramento. Con le parole di Orwell nel
romanzo, “dire intenzionalmente delle menzogne mentre ci si crede con
sincerità, dimenticare un fatto divenuto ormai scomodo e poi, quando torna a
essere necessario, recuperarlo dall’oblio per il tempo dovuto, negare
l’esistenza della realtà oggettiva e nel contempo tener conto della realtà che
si nega – tutto ciò è indispensabile e necessario”[94].
Il Doppio Pensiero di Orwell, tecnica al contempo appresa e
incorporata, si manifesta, ad esempio, quando abbiamo un “aggressore” ed un “aggredito”
quando a invadere al termine di dieci anni di scontri feroci sono i russi, ma
non lo abbiamo quando sono i turchi o gli israeliani, contro siriani, o contro
i libanesi e i sempre “vuoti” palestinesi. Quando i medesimi israeliani
aggrediscono nella notte ed all’improvviso l’Iran. Ma, sapremo per certo che
ancora li avremo quando qualcuno proverà a rispondere.
Tornando alla nostra storia, mentre in Palestina Begin avviò e
combattè con metodi di guerriglia l’occupazione inglese, si realizzò un
complesso braccio di ferro tra i ‘mandatari’ e i loro partner di oltre oceano.
Nel tentativo di conservare l’equilibrio, infatti, gli Inglesi avrebbero voluto
frenare il ritmo dell’immigrazione ebraica, ma gli americani spinsero perché
accelerasse.
Questo fu il contesto nel quale si insediò il nuovo governo
laburista dell’immediato dopoguerra, Attlee inizialmente sembrava voler rompere
con il passato imperialista, ma quasi subito si accorse che le condizioni
economiche disastrose della Gran Bretagna richiedevano anzi un inasprimento
dell’estrazione di valore dalla periferia. Gli sbalorditivi costi della guerra
rendevano necessario accedere costantemente a nuovi prestiti statunitensi che,
per l’opinione pubblica d’oltre manica erano sempre più difficili da erogare. Questo
fu il contesto drammatico del negoziato di Bretton Woods, nel quale i temi furono
il ‘libero scambio’ richiesto dagli americani e il ruolo della sterlina,
ancorato strettamente alla cosiddetta ‘preferenza imperiale’[95].
Infatti, alla fine della guerra circa la metà del commercio mondiale era
negoziato in sterline, e queste rappresentavano l’80% delle riserve monetarie
dei paesi del mondo. Al contempo, però, la potenza produttiva che poteva
sostenere questo ruolo era ormai compromessa.
Secondo uno schema della situazione che ricorda molto da vicino
quella odierna americana, in sostanza la Gran Bretagna non aveva alcuna
alternativa, se voleva sopravvivere, di usare le politiche monetarie, insieme a
scambi commerciali privilegiati, per trarre beneficio dall’impero (che, d’altra
parte, determinava un enorme costo per tenere in piedi la struttura
repressiva).
Quasi subito anche gli americani si accorsero che, nelle mutate
condizioni del dopoguerra, in cui la guerra di Corea mostrava il livello della
sfida rappresentata dai paesi comunisti, l’impero serviva anche a loro ai fini
di contenimento. Quindi alla sterlina venne concesso di sopravvivere.
Nell’immediato dopoguerra si tennero i negoziati per
l’emancipazione dell’India, ormai non più rinviabile, anche grazie alla
presenza di centinaia di migliaia di ex soldati di ritorno, ma si cercò un
accordo per tenerla comunque nel Commonwealth. Si realizzò una drammatica
divaricazione tra mussulmani e indiani, che porterà ai due stati reciprocamente
ostili sino ad oggi del Pakistan e dell’India. Passaggi chiave furono la morte
di Bose in un incidente aereo, quella di Gandhi in un attentato, quasi subito dopo
l’indipendenza, ed il processo agli ufficiali dell’Ina che vide una enorme
mobilitazione militare indiana, la quale segnalò che il vaso era pieno. Seguì
il “Great Calcutta killlig”, scontri etnici che portarono ad almeno 6.000 morti
nel paese e diedero il via ad un esodo nelle due direzioni, per la separazione
delle comunità religiose. Quel che accadde fu che i complessi metodi di
coesistenza negoziati e consuetudinari tra indù e mussulmani, da secoli negli
stessi territori, erano stati dissolti dall’occupazione inglese. Come accade in
Palestina erano stati sostituiti da uno schermo di repressione che, quando
sollevato, lasciò le comunità le une davanti alle altre. Il 15 agosto 1947 avvenne
comunque il passaggio dei poteri, accompagnato da un enorme processo di
distruzione dei documenti compromettenti.
In Palestina, appunto, nello stesso periodo, la cooperazione
anglo-americana portò progressivamente a spostare l’equilibrio in favore
ebraica. La potente influenza della lobby sionista sul governo americano, che
la Elkins documenta in nomi e circostanze, forzò gli inglesi ad abbandonare gli
arabi al loro destino. Si trattava di stare tra due martelli, quello ebraico era,
però, più forte: i sionisti disponevano di 45.000 uomini in armi di cui almeno
9.000 ottimamente addestrati. Le forze dell’Yishuv attaccarono tutte le
infrastrutture inglesi, ferrovie, installazioni petrolifere, caserme. Il
governatore inglese, Bevin, rispose con la guerra. MacMichael avviò una
violentissima campagna di coercizione terroristica, alla quale Begin replicò
con la bomba che distrusse il King David Hotel di Gerusalemme.
Qui caddero, dopo la vicenda della Exodus, i pogrom a Tel Aviv, le
squadre speciali inglesi, l’enorme massa di denaro che la Palestina inghiottì
per tenerla sotto controllo, la Risoluzione 181 delle Nazioni Unite, che
dichiarò la divisione in due stati indipendenti. Il 14 maggio 1948, mentre
Orwell scriveva il suo ultimo libro, la Gran Bretagna uscì dal pantano
palestinese. Immediatamente scoppiò la guerra tra arabi ed ebrei sionisti vinta
dai secondi, 800.000 persone lasciarono il paese.
Altre tragedie si tennero in quegli anni in Costa d’avorio, dove
gli attori furono Kwame Nkrumah e Robin ‘Occhio di stagno’ Stephens, reduce da
un processo per le torture ai nazisti processati a Norimberga, e in Malesia.
Le elezioni del 1951 videro la sconfitta labourista e l’incrudirsi
della crisi malese, nella quale vennero impiegati 30.000 uomini, proprio mentre
la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e le Convenzioni di Ginevra
imbarazzavano Colonial Office e Foreign Office. Qui Sir Gerald Templer mise in
essere tutte le raffinate e brutali tecniche anti-insurrezione apprese in un
secolo di dominio coloniale, ma questa volta furono mostrate in una serie di
coraggiosi reportage di denuncia. Allora il Colonial Office decise di cambiare
retorica, e inventò un bellissimo esempio di bipensiero: l’azione deve
portare a conquistare “cuori e menti” e a “sviluppare la comunità”. A tal
fine furono erogati fondi che portarono alla creazione dei “villaggi di
Templer”, nei quali la tradizionale vita comunitaria malese, con la sua
agricoltura di sussistenza inserita nella natura, venne forzosamente tradotta
in più civilizzati grandi villaggi di centinaia o migliaia di persone,
accuratamente sorvegliate e recintate. Un altro modo per riclassificare i campi
di concentramento e le pratiche messe in essere contro gli afrikaneer alcuni
decenni prima. Si tratta di ingegnerizzare uno stile di vita che riduca
l’indipendenza di villaggio e faccia cessare il suo appoggio alla guerriglia.
Similmente in Kenia, dopo l’omicidio del leader locale Woruhin,
nel 1952, una guerra civile e coloniale al tempo vide l’emersione del movimento
dei MauMau (un giuramento) che incendiò il paese. Gli inglesi risposero di
nuovo creando campi di prigionia di massa, con una precisa gerarchia basata
sulla maggiore o minore affidabilità dei prigionieri e usando una forza
legalizzata (ma illegale e coperta dall’amnistia di Churchill) contro quelli
più radicali. Si trattava della “tecnica della diluizione”[96].
In questo modo, tra la difesa della grande missione civilizzatrice
del mondo intero, la nuova religione del nazionalismo imperiale, la spinta
statunitense alla liberalizzazione dei commerci e la conseguente minaccia alla
sterlina, si arrivò alla “Crisi di Suez”[97].
L’Inghilterra e la Francia invarono un corpo di spedizione per difendere il
loro controllo del cruciale passaggio, ma questo avvenne proprio durante una
crisi valutaria che impose di ricorrere, come sempre, a prestiti statunitensi.
A questo punto Eisenhower salvò di nuovo alla sterlina, ma, questa volta, impose
l’immediato ritiro dall’Egitto. Le conseguenze geopolitiche ed economiche furono
enormi: divenne chiaro a tutti che le superpotenze erano ormai solo due, gli
Stati Uniti e l’Urss, la centralità monetaria della sterlina e delle colonie
non poteva più essere mantenuta. Questa fu la scena finale dell’Impero inglese,
di qui si arrivò al discorso di Powell.
La staffetta passava in mani americane.
![]() |
| Massacro di May Lai, Vietnam |
L’impero
americano, il coronamento
Per
raccontare sinteticamente la storia dell’impero americano, nel suo farsi,
occorre prendere le mosse dai viaggi di Colombo, soprattutto del secondo
viaggio la cui complessa organizzazione e l’alto costo (ben 17 navi) rese
necessario garantire l’immediato profitto. Ovvero, chiaramente, aprire un
canale di approvvigionamento di schiavi ed oro. Colombo tentò di adempiere al
mandato, in un paese ricchissimo di risorse naturali ma non sviluppato in senso
occidentale, soprattutto garantendo i primi. E quindi occupando militarmente
Haiti, che venne selvaggiamente sfruttata e nella quale si attuò in poco meno
di un secolo un vero e proprio assoluto sterminio. Una popolazione locale
stimabile in 250.000 abitanti venne ridotta praticamente a zero, grazie ad uno
spietato ipersfruttamento in piantagioni intensive. Su questa esperienza si
formò la militanza antirazzista del più importante autore militante spagnolo
del tempo, Bartolomé de Las Casas[98].
Ma
il Nordamerica fu invaso specialmente dagli inglesi e nel secolo successivo.
Inoltre, le popolazioni native, i first peoples, erano frammentate in
centinaia di clan e alleanze federative, e potevano opporre una resistenza, se
pure ostinata, tuttavia frammentata e discontinua. A fronte di questa
debolezza, che faceva sembrare agli europei abituati a densità sociali ed
organizzative diverse il paese come vuoto ed immenso, gli inglesi (ma anche i
francesi) esercitarono quella che Howard Zinn chiama una specifica “perfidia e
brutalità”, causata in ultima analisi da un impulso interno. Precisamente da
“quell’impulso speciale e potente che sorge all’interno delle civiltà basate
sulla proprietà privata”[99]. Una spinta che è fatta
di bisogno di spazio e terra, che lo concepisce come libero e da possedere in
modo esclusivo. Di qui la necessità, in una logica per i contemporanei
evidente, di sottrarlo agli usi comunitari non riconoscibili come legittimi. E
dunque scacciare ed uccidere chi pretendesse di affermarli.
Al
momento della conquista e colonizzazione vivevano nelle Americhe 75 milioni di
membri dei first peoples, di cui 25 nel Nord America, ma divisi qui in
almeno 2000 lingue e dialetti e un centinaio di culture tribali principali
(navajo, lakota, chippewa, cheyenne, apache, irochesi, le cinque nazioni
mohawk, oneida, onodaga, cayouga e seneca del 1722, e via dicendo). Un’enorme
varietà, dunque, alcuni costruivano villaggi e coltivavano il mais, con forme
straordinariamente evolute e adattate di aridocultura e tecniche
ingegneristiche di irrigazione perfettamente adatte allo scopo, altri avevano
artigianati raffinati ed estesissime reti di scambio, oppure culture basate
sull’abbondate pesca o caccia e in genere con sistemi sociali perfettamente
egualitari, stabili e spesso con elevato livello di parità sessuale. Ma anche
straordinarie capacità culturali, di argomentazione logica e retorica,
raffinate capacità diplomatiche, come quelle messe in evidenza da David Graeber
e David Wengrow nel loro L’alba di tutto.[100] Ad esempio, è descritta
la straordinaria vicenda di Kondiaronk, stratega dei Wendat, una confederazione
di quattro popoli irochesi che cercò all’inizio del Settecento di evitare che
inglesi, francesi e la coalizione hanfenosaunee si unissero contro la sua. In
prospettiva l’obiettivo del leader nativo era di organizzare una grande
coalizione contro gli invasori[101]. Presumibilmente inviato
come ambasciatore del suo popolo in Francia, si fece critico sia del
cristianesimo sia della logica della trasposizione del potere sulle cose (la
proprietà) in potere sugli uomini. I suoi arguti argomenti, secondo Graeber,
influenzarono profondamente lo stesso dibattito europeo contemporaneo sulla
ineguaglianza. Uno dei più specifici argomenti portati da Kondiaronk, e
riportati in Dialogues curieux: entre l’auteur et un sauvage de bon sense
qui a voyagé, del 1703, dell’aristocratico francese Louis-Armand de Lom
d’Arce, fu che le leggi punitive di stampo europeo, e la stessa dottrina
cristiana della punizione eterna, non sono rese necessarie dalla naturale
cattiveria umana, ma da una forma di organizzazione sociale che incoraggia il
comportamento egoista e l’avidità. Sono quindi le distinzioni tra “mio e tuo”,
per usare le sue parole riportate nel libro, a rendere “disumana” la vita in
Francia. Come dice, “affermo che quello che chiamate denaro è il diavolo dei
diavoli; il tiranno dei francesi, la causa di tutti i mali; il flagello delle
anime e il mattatoio dei vivi”[102]. Insomma, “un uomo
motivato dall’interesse non può essere un uomo ragionevole”.
Questa
critica indigena, ovvero dei pochi rappresentanti dei first peoples che
riuscirono a farsi ascoltare e talvolta viaggiare, a partire dall’inizio del
XVIII secolo, influenzò il dibattito sulla eguaglianza e come reazione le
teorie evoluzionistiche, che invariabilmente, partono dallo ‘stato di natura’
egualitario. La domanda di come si possa trasformare il possesso, e quindi la
ricchezza, in potere è anche al centro della riflessione di un avido lettore di
diari di viaggio: Jean-Jacques Rousseau. Anche per lui la proprietà è la causa
del problema dei mali della società, ma mentre per i first peoples la
libertà presume una condivisione comunitaria dei beni, e quindi della sicurezza
sociale, per gli europei resta legata alla proprietà e non può essere concepita
alternativa. E quindi è indipendenza.
Mentre
per i primi, al contrario, la libertà è figlia della interdipendenza in un
contesto di reciproco riconoscimento e sostegno, socialmente indotto, per il
nostro ed il pensiero illuminista europeo essa è figlia piuttosto del possesso
incontestato e non limitato. E il possesso esclusivo resta connesso, sia pure
in modo complesso e contraddittorio, con l’idea del progresso e dell’evoluzione
(nel passaggio dallo ‘stato di natura’ dei first peoples, alla società).
Si manifesta qui come ogni idea assume un posto e uno specifico significato in
relazione ad una rete, ad una cosmologia e la traduzione dall’una all’altra
comporta sempre mutazione.
| Visita ad una colonia |
Le
prime colonie
Mentre
tutti questi dibattiti e influenze erano ancora da venire, nel 1619 in
Virginia, dove le prime colonie inglesi sopravvissero a stento alla crisi per
fame del 1609-10, prese l’avvio un’economia protocoloniale fondata sulla
necessità di coltivare i cereali da una parte ed il tabacco di esportazione,
dall’altra. I coloni erano davanti ad un problema: pochi e per lo più di classe
media (artigiani, piccoli ex proprietari) e non avevano attitudini e desiderio
di coltivare personalmente la terra (attività dura e ingrata con i mezzi
dell’epoca); d’altra parte non potevano mettere al lavoro i first peoples, culturalmente
inadatti, abili a sottrarsi nei grandi spazi del continente, ed anche
militarmente forti. I virginiani trovarono la soluzione importando schiavi. Il
bacino era relativamente vicino perché ai caraibi nel secolo precedente erano
stati importati almeno 1 milione di neri dall’Africa per sostituire le
popolazioni autoctone sterminate. Gli africani erano più adatti perché le
culture africane erano in fondo simili a quelle europee. Nel continente, oggi
tendiamo a non vederlo, influenzati da una storiografia razzista e colonialista
sviluppata soprattutto nell’Ottocento, ma in Africa tra il 1500 ed il 1600
erano presenti grandi stati, imperi persino, grandi centri urbani e un
consolidato e importante artigianato. Inoltre, vi veniva praticata
un’agricoltura avanzata, che faceva uso di utensili di ferro, e impegnava oltre
cento milioni di persone. Lo stesso traffico degli schiavi era in parte
autoctono, e venne quindi facilmente canalizzato verso i porti di scambio in
centro Africa da attori locali. La forma sociale locale si potrebbe descrivere,
a grandissime linee, come una sorta di feudalesimo con consolidate gerarchie e
strutture complesse, insediato in forme di vita tribali e talvolta comunitarie.
Una società dove l’idea di proprietà privata era presente, ma non strutturava
completamente il sociale e gli istituti repressivi erano temperati. In questa
società, o meglio nell’enorme varietà delle società africane per lo più mancava
quindi la febbre del profitto illimitato che un secolo dopo impressionerà
Kondiaronk.
Una
volta catturati, mischiati tra etnie diverse e separati gli uni dagli altri,
gli africani erano quindi particolarmente adatti e, al contempo,
particolarmente inermi. Strappati ad una cultura consolidata tribale e
comunitaria, con legami familiari allargati e costitutivi, venivano a trovarsi
tra estranei, la cui lingua talvolta neppure capivano e portati in paesi
lontanissimi. Nelle navi negriere erano scientemente separati e divisi, tenuti
in condizioni inumane e alla fine venduti uno ad uno[103]. La tratta fu dominata
prima dagli olandesi e poi dagli inglesi, nel pieno del fenomeno a Liverpool
sostavano normalmente cento navi negriere. In circa due secoli, in questo modo
vennero catturati e trasportati nelle Americhe del Nord da 10 a 15 milioni di
neri, su 45 milioni che furono sottratti al continente. È impossibile non
vedere il nesso tra questa immane sottrazione di persone e distruzione di
comunità e l’interruzione dello sviluppo autoctono che il continente subì
nell’età del colonialismo europeo. E sottovalutare l’enorme contributo di
questo trasferimento di ricchezza e forza lavoro nella costruzione della
superiorità economica e quindi militare (o militare e quindi economica)
dell’Occidente.
Bisogna
aprire una parentesi. La colonizzazione inglese del Nord America è diversa sia
da quella spagnola del Sud e Centro America (e di parte del Nord), di cui
abbiamo parlato prima, sia da quella francese dell’attuale Canada. Mentre le
altre due nacquero da strutture statuali altamente organizzate e centralizzate,
e furono sempre dipendenti fortemente dalla madre patria nelle loro strutture
amministrative, la colonizzazione inglese nacque per ondate semispontanee di
gruppi marginali e religiosi. La colonizzazione spagnola, che cominciò prima,
di Nunez Cabeza de Vaca in California nel 1528-36, o Hermando de Soto in
Florida nel 1539-41, e nelle aree degli attuali Arizona, Colorado, Nevada, New
Mexico, Kansas, Oklahoma, era fondata su una precisa gerarchia sociale al
centro della quale troviamo il 1-2% di popolazione spagnola, poi la popolazione
“creola” (di sangue spagnolo, ma nata nel nuovo mondo) e in basso gli “indios”,
trattati poco più che come schiavi. Nel XVII secolo alimentò questa espansione
un’emigrazione di ca 250.000 unità (su 10 milioni di popolazione complessiva).
Invece
quella inglese aveva numeri quasi doppi ma stentò a decollare fino a che, verso
il 1630, le debolissime colonie virginiane, intorno a nuove compagnie
commerciali videro l’attivazione di una robusta immigrazione dall’Inghilterra
di gruppi che si sentivano perseguitati. Questo è il contesto della rivoluzione
inglese e con essa si intrecciò. Nel 1629 si formò la Compagnia della baia
del Massachussetts, che aveva l’obiettivo di favorire l’emigrazione di
coloro che si sentivano perseguitati e volevano fondare una comunità
all’altezza della propria fede religiosa[104]. Nel 1630 17 navi
trasportarono oltre mille coloni, nei tredici anni successivi ne arrivarono
20.000. Per il tempo ed il luogo sono numeri significativi. Vennero fondate
colonie come Boston o Charleston, Concord e Hartford.
| Oliver Cromwell sopprime i livellatori |
La
base sociale della colonizzazione inglese
Ma
chi erano quelli che vennero? Ci aiuta un bel libro di Chistopher Hill, Il
Mondo alla rovescia[105],
il trentennio tra il 1620 ed il 1650 in Inghilterra fu caratterizzata da una
tremenda crisi economica che esacerbò l’odio di classe e venne imputato al
governo, all’istituzione di monopoli pubblici e alla pressione fiscale. Nelle
elezioni dei due Parlamenti tenute nel 1640 molti ‘scamiciati’, organizzati in
quello che all’epoca si identificava genericamente come il ‘Partito Popolare’
riuscirono ad eleggere molti candidati, contro le élite. Sull’orlo della guerra
civile che scoppiò subito dopo tra il Re ed il Parlamento e prima della
formazione della New Model Army di Cromwell, proliferarono continue
eresie religiose, si formarono gruppi radicali, in alcuni casi (come i membri
della “Famiglia dell’Amore”) in continuità con i fermenti cinquecesteschi. In
tutti i primi anni del Seicento la rivolta contro la religione
istituzionalizzata, i suoi simboli ed esponenti, fu crescente ad opera di sette
come i “Puritani” ed altre. Quel che avvenne fu un processo di disgregazione
dell’unità feudale tra l’uomo e i suoi ruoli e quindi i ‘padroni’. Nel 1569
un’inchiesta del governo calcolò in 13.000 gli “uomini senza padrone” e nel
1602 nella sola Londra in 30.000. Si trattava di vagabondi (la “canaglia”), ma
anche membri delle sette protestanti, popolate di piccoli artigiani che non
potevano inserirsi nelle Corporazioni ufficiali; apprendisti, che si sentivano
eletti e, al contempo, liberi nel loro esclusivo rapporto con Dio. Poi abitanti
delle campagne ma non ufficiali (una legge del 1589 impediva di costruire case
a chi non avesse abbastanza terreno), che praticavano mestieri come fabbri,
carbonai, tessitori, etc. ma saltuariamente e nelle fasi di richiesta della
nascente struttura produttiva. Quindi commercianti itineranti, che
contribuivano enormemente a portare le nuove idee in giro.
Come
dice Hill:
“sotto
alla superficiale stabilità dell’Inghilterra rurale, quella dei vasti campi
aperti che colpiscono la vista, stava la brulicante mobilità degli abitanti
della foresta, gli artigiani e gli operai edili itineranti, i disoccupati in
cerca di lavoro, i suonatori e i giocolieri girovaghi, gli ambulanti e i
ciarlatani, i vagabondi, i barboni; gente che si raggruppava soprattutto a
Londra e nelle grandi città, ma che aveva basi ovunque una zona appena
colonizzata riusciva a sfuggire al meccanismo delle parrocchie, o nello zone
colonizzate da tempo in cui c’era bisogno di manodopera. Era in questo modo che
venivano reclutati gli eserciti e gli equipaggi delle navi, era qui che si
trovò una parte almeno dei coloni per l’Irlanda e il Nuovo Mondo, uomini disposti
a correre qualunque rischio nella speranza di conquistarsi un pezzo di terra (e
con essa lo status che ne derivava), speranza che non poteva avverarsi nella
sovraffollata Inghilterra”[106].
Con
questo materiale umano, il processo di colonizzazione fu in sostanza
organizzato dalla Compagnia in un primo momento e poi da istituzioni create dai
primi coloni. Un General Court, formato dai capifamiglia, determinava
l’autorizzazione ad insediarsi. Nel 1647 l’approvazione delle Law and
Liberties, creò una prima fusione tra diritto inglese e istanze radicali
religiose dei coloni. La crescita demografica fu imponente: da 250.000 abitanti
all’inizio del Settecento si passò a 2,5 milioni in soli cinquanta anni. La
gerarchia originaria era a tre strati: i diretti successori dei primi fondatori
al centro, religiosi, commercianti o proprietari terrieri; in mezzo artigiani e
piccoli proprietari; in basso i lavoratori salariati, spesso appena arrivati.
Poi c’erano sono gli schiavi.
Dividere
e gestire
Insomma,
in una società in crescita, ma isolata e immersa in enormi spazi e circondata
da nemici attuali o potenziali, dipendente da lavoratori sradicati e tenuti in
condizioni disumane di sfruttamento e minaccia, era essenziale dividere. Ovvero
impedire che i subalterni (fossero essi ‘bianchi’, ‘neri’ o ‘rossi) si
potessero percepire come simili e diversi dai dominanti, che erano
strutturalmente minoranza. Oltre all’influenza della secolare cultura europea
(gerarchica e fondata su un concetto di premio e punizione inscritto nella
storia della fusione del cristianesimo paolino con la cultura romana[107]), costituì strumento di
questa tecnologia del dominio, la coltivazione della barriera razziale.
Specifiche leggi cercarono sempre di frenare la tendenza degli schiavi appena
arrivati di sottrarsi e formare villaggi di maroons[108], tanto più quando
minacciavano di unirsi a servi bianchi e indiani. Venne messo a punto un
sistema di controllo capillare, sottile e crudele, sia a livello fisico (con
tremende repressioni e punizioni, individuali e collettive) e psicologico.
L’incubo che dominava le élite, e lo farà per tutta la storia americana, era
semplicemente che i bianchi poveri si potessero unire ai neri (ed ai first
peoples) contro i ricchi.
Nel
1676 in Virginia ci fu un caso di questo genere. La “insurrezione di Bacon”,
che venne repressa con grande dispiego di uomini e mezzi, e punita in modo
spietato. Bianchi poveri e neri non potevano mai agire insieme. Bacon, che
organizzava bande armate per uccidere gli indiani, ai quali sottrarre la terra,
venne arrestato dagli inglesi ma liberato dalla folla (nel contesto coloniale
erano spesso gli immigrati poveri, affamati di terra di proprietà e disperati,
a promuovere autonomamente la spinta per il genocidio dei first peoples.
Talvolta il governo coloniale agiva da freno, sulla base di equilibri
superiori). Allora scrisse la “Dichiarazione del popolo”, che esprimeva
al contempo odio per i first peoples e risentimento per i ricchi. Di qui
si mosse una feroce repressione.
Riassumendo,
la catena dell’oppressione in Virginia, nella quale all’epoca vivevano 40.000
coloni, era alla metà del Seicento e nel Settecento la seguente: “gli indiani
erano depredati dai bianchi della frontiera, che erano tassati dalle élites di
Jamestown, e l’intera colonia era sfruttata dall’Inghilterra, la quale comprava
il tabacco dei coloni fissandone il prezzo e ricavando centomila sterline
l’anno per il Re”[109]. Nacque in questo
contesto, sulla base delle protoideologie egualitarie importate
dall’Inghilterra (“livellatori”, “diggers”, “seekers”, “ranters”, quaccheri)
nel contesto della gloriosa rivoluzione della metà del Seicento[110] quella imponente
immigrazione che vide i poveri andare oltremare sulla base di un contratto di
servitù che durava da cinque a sette anni (e non era sempre rispettato).
Poveri, già sradicati e pericolosi in patria, talvolta ex militari, che
ovviamente rappresentavano una minaccia. Dopo la metà del Seicento ne fecero
parte anche sbandati della “gloriosa rivoluzione”, talvolta con esperienza
nella New Model Army, che vennero trasportati sulle stesse navi negriere, a
volte in condizioni quasi analoghe, vennero comprati e venduti e sottoposti ad
abusi, ma reagirono in modo individuale. Fuggendo o ribellandosi. Quando potevano
andando all’Ovest a caccia di indiani e di terra.
Questa
è la scena originaria nella quale si formarono le divisioni di classe, genere,
razza e cultura le quali strutturano fino ad oggi la società americana. In
Virginia nel 1700 le famiglie abbienti principali erano ormai 50, e vivevano in
grandi piantagioni per l’esportazione del lavoro di schiavi neri, servi bianchi
e sorveglianti intermedi. Vennero allora scritte costituzioni schiaviste
(quella del North e South Carolina da John Locke), che istituirono e
consolidarono una nuova aristocrazia di tipo pseudo-feudale, nella quale alla
fine 8 famiglie avevano il 40% del terreno e solo un esponente di queste aveva
il diritto ad essere nominato Governatore. Non diversamente avvenne a New York
ed a Boston, dove nel 1687 50 individui possedevano il 25% della ricchezza, ma
nel 1770 ormai ne avevano il 40% e il 30% della popolazione maschile adulta e
bianca non aveva nulla.
Nel
1700 gli schiavi erano l’8% della popolazione, nel 1770 diventarono al Sud il
21%, ma gli abitanti generali, nel frattempo, erano esplosi (sia per crescita
demografica autoctona, sia per immigrazione).
In
questo contesto gli scontri sociali si susseguirono, e resteranno alti in
pratica per due secoli.
| La Dichiarazione di Indipendenza, John Trunbull, 1819 |
La
“rivoluzione americana”
La
crisi “rivoluzionaria”[111] utilizzò questa energia,
ma essa fu canalizzata e sfruttata dalle élite. Élite che alla fine avevano
concluso, sulla base dell’esperienza, che i first peoples non servivano
a nulla, i negri erano docili e redditivi e i poveri bianchi invece pericolosi.
Dunque, i burocrati coloniali li spingevano verso la frontiera (contro i first
peoples) previa assegnazione a imprenditori concessionari. La meccanica era
semplice e consolidata: le élite politiche definivano nuove concessioni reali
nei terreni “vuoti” della “frontiera”; queste erano acquisite con anticipazioni
dal sistema finanziario del Nord ed assegnate a imprenditori che le
spezzettavano e rivendevano ai poveri appena arrivati; questi organizzavano
carovane verso l’Ovest per prenderne possesso, ovviamente uccidendo i first
peoples presenti. Quando andava male arrivava l’esercito.
Come
è riassunto in un testo dell’epoca, bisogna “che gli indiani e i neri siano di
freno gli uni agli altri, per evitare che dato il loro numero ampiamente
superiore, veniamo schiacciati, dai primi o dai secondi”[112]. Anche se talvolta
andava male, nell’insieme la cosa funzionava bene; da Bacon all’epoca
rivoluzionaria si registrarono 18 sollevazioni, 6 rivolte di neri e 40 altre
sommosse minori. Il razzismo fu in questo contesto un potente strumento pratico
al fine di rendere possibile questa separazione e controllo. Un altro meccanismo
fu la deviazione dell’energia contro un altro nemico esterno: l’Inghilterra.
Nel
1776 alcuni personaggi eminenti crearono quindi una nuova nazione su un’idea
geniale nella sua semplicità: un sistema di controllo nazionale capace di
unire paternalismo a comando. Venne in tal modo diretta la furia, che
nasceva da lotte di classe non completamente consapevoli (a loro volta
connesse, come abbiamo visto, con le tradizioni importate dall’Inghilterra
seicentesca) contro le élite giuste (e non contro di loro). Peraltro, ci furono
sempre molte rivoluzioni dentro la rivoluzione[113], tra questa quella dei “Regolatori”
di Ethan Allen che in alcune contee godettero dell’appoggio di 6 persone su 7.
La repressione dei “regolatori”, dove avvenne, determinò un sostanziale
disinteresse alla lotta contro gli inglesi, che venne condotta soprattutto
dalle classi medie (la “umanità di medio rango” di Colden) che furono cooptate
al Nord agli interessi del grande commercio e della intermediazione finanziaria
e fondiaria. I membri dell’associazione “Sons of Liberty”, ad esempio,
oltre ad essere di Boston, erano tutti delle classi medie e superiori; le
classi povere faticavano a farsi coinvolgere in quelle che alla fine gli
sembrava (e giustamente) una guerra tra ricchi.
Sarà
un politico di grande talento, e capacità populista, come Patrick Henry, a
trovare le parole giuste grazie ad uno stile intenzionalmente semplice e
trascurato, lunghe pause, un tono emotivo al contempo preciso e vago. Grazie
all’azione di questa coalizione, alla quale partecipò anche Thomas Paine, con
il suo Common sense, del 1776, e la retorica di Thomas Jefferson, alla
fine “livellatori” e “zappatori” furono marginalizzati ed estromessi dalla
rivoluzione. Durante la guerra i poveri vennero in sostanza incorporati
nell’esercito, e nella sua promessa di avanzamento sociale, e le terre
espropriate ai “lealisti” furono intelligentemente utilizzate per creare una
classe media cuscinetto, politicamente fedele al Congresso Continentale.
Emersero figure come George Washington (l’uomo più ricco d’America, grandissimo
proprietario terriero e di schiavi), un ricco mercante bostoniano come Hancock,
un agiato stampatore come Franklin (quel che più si avvicinava nelle condizioni
del tempo ad un intellettuale). Finita la guerra vennero regolati i conti con i
first peoples.
Il
modello che si affermò, qui non è il caso di ripetere tutta la storia, fu
imposto nei dibattiti che seguirono tra le élite (Hamilton, Madison) sulla base
di un accordo di fondo per il controllo di classe della situazione. E sulla
base di un’alleanza sociale che vedeva favorevoli circa un terzo di piccoli
proprietari ed artigiani i quali fondamentalmente volevano essere protetti
dalla concorrenza inglese. Questa è la scena che portò in seguito al redde
rationem della guerra civile.
| Theodore Roosevelt con i soldati |
Guerre
di conquista e regolamento di conti
Ma
prima ci fu l’affermazione del “destino manifesto” ad espandersi che portò alla
guerra con il Messico del 1846, provocata con una scusa. Ci fu in tal caso un
serrato dibattito, nel quale Lincoln, non ancora deputato, si dichiarò
favorevole e Thoureau contrario, come molti lavoratori.
In
questo dibattito il senatore Johnson, mettendo a punto una retorica da allora
sempre praticata, si trovò a dire:
“verremmo
meno alla nostra nobile missione se rifiutassimo di perseguire gli alti fini
che ci indirizza la saggia Provvidenza. La guerra è foriera di mali, e in ogni
epoca ha dispensato morte e distruzione in grande quantità; eppure, per quanto
ciò appaia imperscrutabile, l’Onnisciente Dispensatore degli eventi l’ha resa
al tempo stesso lo strumento per realizzare il grande obiettivo dell’elevazione
e della felicità dell’uomo. È alla luce di ciò che io aderisco alla dottrina
del ‘destino manifesto’”[114].
L’esercito
americano, per la metà formato da immigrati recentissimi irlandesi e tedeschi
che erano interessati solo al soldo, combatté e vinse alla fine una guerra
molto impopolare per entrambe le parti e condotta su grandi spazi. Nel 1848 il
Messico, occupata la capitale, capitolò e perse metà del paese.
Nel
Sud il sistema era invece imperniato sulla piantagione, ed una struttura che
potrebbe essere descritta come aristocratica (che esprime nei primi decenni
praticamente l’intera classe politica) che continuava a crescere sulla base del
lavoro schiavistico, il quale letteralmente macinava vite. In una indagine che
ci è rimasta si legge che in una piantagione nel tempo su 32 schiavi, solo 4
raggiungeranno i 60 anni, 4 i cinquanta, 7 moriranno entro i 40 e gli altri
prima, ben 9 a 5 anni (evidentemente i bambini di età inferiore neppure
venivano registrati, e probabilmente quella era l’età nella quale venivano
messi al lavoro). In queste condizioni erano frequenti piani clandestini per
ribellarsi ed uccidere i bianchi, o fuggire. Temendo l’unione con i bianchi
poveri la risposta fu di assumerli come sorveglianti, in secondo luogo
imponendo una religione particolarmente adatta a spostare sull’altro mondo i
desideri. Su questa base si affermò il modello di Lincoln, che, inaugurando
anche qui una tradizione, si presentava come rivoluzionario ma si appoggiava
sul mondo degli affari, vestendo di abiti umanitari un mix di ricchissimi e
ceti medi del Nord come propria base sociale ed elettorale.
Lo
scontro di interesse tra un Sud agricolo e dedito all’esportazione, ed un Nord
finanziario e proto-industriale, che attraeva immigrati europei e temeva la
concorrenza inglese, determinò infine la guerra civile che mobilitò molte
speranze nelle popolazioni marginali, chiamate a sostenere lo sforzo
bellico. Speranze puntualmente tradite
nel dopoguerra, quando le terre furono restituite ai bianchi ricchi (anche del
Nord). Superando quindi la breve stagione di Grant che vide un piccolo
insediamento di deputati neri, e apertura delle scuole, che ma terminò negli
anni Settanta, durando meno di un decennio. Una nuova coalizione tra
industriali del Nord e uomini di affari del Sud inaugurò allora l’era del
carbone e dell’energia.
Questo
clima di speranze deluse, è quello nel quale prese la parola una nuova
intellettualità che si era formata nelle scuole aperte ai neri e trovò in
persone come W.E.B. Du Bois[115] i propri leader. Queste
sono le condizioni nella quali, dopo la repressione del movimento della valle
dell’Hudson, politici “progressisti” come Andrew Jackson padroneggiarono la
retorica liberale e gli atteggiamenti populisti sulla base di una ben calibrata
politica dell’ambiguità che, in sostanza, però continuava ad appoggiarsi sugli
strati intermedi di commercianti ed impiegati (in crescita), verso una classe
lavoratrice che fu tenuta costantemente in condizioni di frammentazione ed
impotenza. Cominciarono a nascere, insieme ad una società più urbanizzata,
nuovi fermenti come le prime forme di organizzazione femminile e il Movimento
delle otto ore. Cosa che non impedì, nella crisi del 1873, l’emergere di un
nuovo e più aggressivo capitalismo dei Carnegie e Rockfeller: i “Robber
barons”.
Quando
partì la ripresa che farà ancora più grande e potente gli Stati Uniti, la
gestione delle tensioni crescenti avvenne sulla base di quello che Zinn chiama
un “terrazzamento sociale”, nel quale la remunerazione e il grado di
sfruttamento seguiva il colore (e l’epoca di immigrazione). Seguì la
meccanizzazione crescente dell’agricoltura e quindi lo spostamento della forza
lavoro sull’industria e la crescita della popolazione. Ma anche
l’infrastrutturazione del territorio, soprattutto ad opera delle ferrovie di
Carnegie e la rete crescente di interdipendenza finanziaria.
| Theodore Roosevelt |
Contromovimenti
Theodore
Roosevelt venne eletto in un paese nel quale si susseguivano gli scioperi ed il
Movimento per i lavoratori di Eugene Debs acquistava sempre più forza. Un paese
nel quale si avviò anche l’Alleanza degli agricoltori in Texas, dalla
quale nacque il movimento populista. Il Partito del popolo unì, in una
breve e piena di energia stagione, repubblicani del Nord, democratici nel Sud,
operai urbani e agricoltori neri e bianchi. Si trattava di uno strano partito,
radicale e interraziale che venne aggredito dalle retoriche delle élite anche
sotto questo profilo per inserire un cuneo tra bianchi e neri, operai ed
agricoltori. Fino a che durò cerca, tuttavia, di creare una cultura
indipendente; venne creato in Servizio Conferenze che arrivò ad avere 35.000 conferenzieri
professionali, un enorme numero di riviste e opuscoli a stampa che si
occupavano di economia, teoria politica, legge e governo, etc. una sola
rivista, la “National Economist”, aveva 100.000 lettori. Il movimento
fallì alla fine perché non riuscì mai di farsi carico di interessi che erano
potenzialmente divergenti e dirigerli, non riuscì ad unire stabilmente neri e
bianchi, e venne attratto e assorbito dalla politica elettorale. In sostanza
progressivamente, candidato dopo candidato e leader dopo leader, venne
assorbito e neutralizzato nel Partito Democratico.
Questa
è una lezione di lungo periodo, un movimento populista nasce sempre da una
divaricazione tra élite e interessi diffusi, può ascendere velocemente se utilizza
una calibrata retorica ambigua, volta a tenere insieme il diverso e l’opposto. O,
con una formula di Laclau[116], da parte di formule
“vuote” e colonizzabili dalle soggettività date. Un termine come “onesto”, ad
esempio, può in base alle esperienze di vita, agli interessi e sottofondi
culturali di ognuno, assumere diverso significato senza essere per questo
tematizzato. O, parimenti, un termine come “libertà”. Si tratta di una tecnica
potente, ma dal populismo americano, a movimenti recenti come Podemos e lo
stesso Movimento 5 Stelle, è soggetto alla disgregazione per le medesime vie se
non riesce a fare del “popolo” che ha aggregato sulla base della “produzione
discorsiva del vuoto”[117], un ‘blocco sociale’
politico.
Continuando
il suo racconto Howard Zinn ci mostra come ci sia sempre stato un nesso anche
tra la chiusura della frontiera (così decisiva per la stabilizzazione
sociopolitica della società americana attraversata da tensioni di crescita
pericolose) e la proiezione estera. Secondo le sue parole, “il sistema del
profitto, con la sua naturale tendenza all’espansione, comincia a volgere lo
sguardo all’esterno”[118]. La depressione del 1893
fece nascere l’idea nel sistema industriale e finanziario che la vendita
all’estero poteva risolvere il sottoconsumo interno (senza obbligare ad alzare
i salari e quindi ridurre i profitti), prevenendo anche il conflitto di classe.
In sostanza si spostò all’esterno la tendenza a trovare un nemico e un
inferiore al quale rivolgere il proprio risentimento. Come disse sinteticamente
Theodore Roosevelt, “questo paese ha bisogno di una guerra”, ovviamente verso
le razze “inferiori”.
Ovvero
verso paesi che non sanno governarsi da soli e ‘hanno bisogno di aiuto’; in
sostanza una riaffermazione, fuori del continente, della dottrina del “destino
manifesto”. A farne le spese inizialmente furono le Filippine che in tre anni
di guerra aspra e violentissima furono occupate e piegate, passando dal dominio
spagnolo a quello americano.
Ma
eravamo anche negli anni apicali della sfida socialista, quando autori famosi
come Mark Twain, Upton Sinclair, Jack London, Theodore Dreiser, Frank Norris,
promossero l’idea e, d’altra parte, si affermò il taylorismo che puntava a
disinnescare la forza degli operai nelle fabbriche. I sindacati assumevano
sempre maggiore forza, ma anche qui si lavorò per separare lavoratori bianchi e
neri. Scriverà Du Bois, “il risultato finale di tutto questo è stato convincere
il nero americano che il suo nemico peggiore non è il padrone che lo rapina, ma
il lavoratore bianco suo collega”[119]. Si affermarono anche
organizzazioni operaie molto radicali ed efficaci, come i IWW (o “Wobblies”), i
quali propugnavano un’azione diretta, senza divisioni di sesso o razza, e
puntavano allo sciopero generale che espropri gli imprenditori. Un’idea basata
su una forma di anarco-sindacalismo, anche se minoritario (forse diecimila
militanti al massimo), ma determinato e coraggioso. Ad un certo punto i
socialisti di Debs furono spinti dal loro successo a prendere le distanze dai
Wobblies, i cui metodi spesso violenti, li rendevano un facile bersaglio. Non
servì, perché nelle condizioni della Prima Guerra Mondiale furono repressi
insieme.
Nacque
in risposta a queste tensioni una sorta di capitalismo politico che attenuava e
sopiva, che concedeva, ma per tutelare meglio gli interessi a lungo termine
della classe capitalista, operando per i suoi interessi generali e prospettici,
più che per quelli della singola fabbrica o industriale. Lo scopo, dice Zinn,
era molto semplice e chiaro: tenere a bada il socialismo.
| Socialisti |
Guerre
Ma
la lotta al socialismo non fu condotta solo dai politici dell’era progressista,
un altro modo fu il solito classico: la guerra. In un momento di necessità
arrivò infatti a salvare la situazione la Prima Guerra Mondiale, proprio
durante la pericolosa recessione del 1914. Du Bois lo vedrà in modo semplice:
il capitalismo aveva bisogno di rivalità internazionale per creare una comunità
artificiale tra ricchi e poveri. In realtà è un effetto secondario gradito, la
crisi economica inasprì lo scontro tra capitali che si rifugiarono sotto la
protezione nazionale, e lo trasformò in scontro tra sistemi di capitali
nazionali e quindi nazioni. Scontro per gli “Imperi”, e quindi la proiezione
protetta di capitali e aree commerciali, e scontro per regolare i debiti[120].
Fatto
sta che la guerra consentì anche di regolare i conti interni. Il Presidente
Wilson fece arrestare Debs per tutta la guerra e annientare i IWW, arrestati e
processati in massa. Seguiranno le misure contro l’immigrazione dal Sud e
dall’esterno, con la parziale incorporazione della forza lavoro nera nelle
fabbriche del Nord e dopo il crollo del ’29 la rivolta dei reduci, il New Deal,
la TVA e l’inquadramento dei sindacati[121]. Il dopoguerra
wilsoniano fu anche l’epoca della retorica anticoloniale (che, in realtà, era
rivolta contro le colonie tedesche e solo quelle), promossa da un paese che,
ricorda Zinn, tra il solo 1900 e 1933 era intervenuto a Cuba 4 volte, in
Nicaragua 2 volte, a Panama 6 volte, Guatemala 1 volta, Honduras ben 7 volte.
La
Seconda Guerra venne combattuta contro il nazifascismo, anche se durante
l’intero periodo intermedio la preoccupazione di tutte le potenze Occidentali
era piuttosto di fermare il comunismo. Lo dimostra l’atteggiamento nella Guerra
di Spagna e comunque quello verso le potenze dell’Asse, solo con molta
riluttanza designate come nemici. Questo, sia detto tra parentesi, fornisce uno
sfondo anche alle esitazioni di Chamberlain, che vedeva il nemico a Mosca, non
a Berlino. La guerra si combatté comunque con la solida determinazione,
distruzione sistematica delle città inclusa, e risolse anche problemi sociali
interni. Alla fine, servì, e quindi venne stabilizzata nella cosiddetta “Guerra
fredda” (questa volta contro l’avversario giusto).
| Rivoluzione cinese, Mao |
Rivolte
e muri di gomma
Seguiranno
la rivoluzione cinese, la guerra di Corea, le lotte per la decolonizzazione
fino agli anni Sessanta inoltrati. Sul fronte interno, la mobilitazione
connessa con il riarmo, la crociata di Mc Carty e la dottrina del “pericolo
evidente ed immediato”, la crescita del budget militare da 12 Mld nel 1950 a 45
nel 1960, fino a 80 nel 1970. Ormai negli anni Cinquanta e Sessanta il paese
visse una sorta di economia di guerra permanente e si sentiva ormai sotto saldo
controllo da parte delle sue élite. Ma, durante gli anni tra la metà dei
Sessanta ed i Sessanta avvenne anche un’inattesa esplosione sociale e politica.
Iniziarono i neri, con le rivolte a Montgomery e l’emergere di grandi leader
come King e Malcom X, tutti uccisi ovviamente non appena si radicalizzarono
(Martin Luther King morì non appena cominciò a parlare contro la guerra del
Vietnam e la povertà, Malcom quando iniziò a capire il marxismo). Dopo la Grande
marcia del 1963 Kennedy cercò di riassorbire il movimento nella “Coalizione
democratica”, come a suo tempo fatto con successo con il Partito
Populista. In sostanza riuscì, ma per un poco ci furono movimenti
divergenti, come quello di Huey Newton e le Black Panther, i cui leader
furono assassinati in modo specifico e mirato. Oppure la League of
Revolutionary Black Workers. Emerse quindi il grande movimento pacifista
contro la Guerra del Vietnam (una guerra coloniale nella quale gli Stati Uniti
avevano preso il posto dei francesi) nella quale furono impiegate sette milioni
di tonnellate di bombe (il doppio della Seconda guerra mondiale), e l’azione di
grandi personaggi come Muhamad Alì. L’apice della protesta si ebbe nel 1970,
prima del ritiro americano nel 1975. Ci saranno anche molte altre mobilitazioni
di diversi settori della società americana: le donne, i first peoples[122],
le lotte nelle carceri nelle quali troverà la morte George Jackson. Una
generale rivolta contro “modi di vivere oppressivi ed artificiosi”, che si espresse
in tutto: dall’abbigliamento alla musica (con autori come Bob Dylan e Joan
Baez, tra gli altri). Cominciò a declinare la fiducia diffusa nel governo. Ne
furono segno giurie popolari sempre più ribelli, che assolsero Angela Davis e
altri membri delle Black Panther. Il momento più basso si ebbe con la crisi per
le dimissioni di Nixon, che, tuttavia, furono, al contempo una deviazione di
attenzione.
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| Milton Friedman |
La
controffensiva
Di
qui partirà la controffensiva neoliberale. Avremo la Commissione Trilaterale
con Huntington, la destabilizzazione del Cile, la controffensiva in America
Latina e ovunque possibile, il tentativo di riconquista e riassorbimento
attraverso una sorta di “populismo dall’alto”. Per la terza volta, dopo “l’era
progressista” e la “nuova frontiera”, si giocò la carta di un membro
ricchissimo dell’establishment che si vestì da uomo del popolo come fece
l’aristocratico Patrick Henry nel 1700. Toccò allora ad un ricchissimo
imprenditore di arachidi del Sud, Jimmy Carter, vestirsi da contadino e
costruire un richiamo populista. Secondo Zinn, fu scelto per il ruolo da
Rockfeller e Brzezinsky; comunque introdusse un pacchetto sofisticato di
apparenti riforme e potenziamento delle spese militari. Seguirà il cambio di
cavallo rappresentato da Reagan, che fece crescere ulteriormente il divario
nella società americana e assistette all’inizio della disgregazione dell’Urss,
cosa che gli consentì maggiore spazio di manovra per avventure come
l’interferenza con i Sandinisti in Nicaragua, l’invasione di Grenada,
l’uccisione di Oscar Romero in San Salvador, e poi, con il successore ed ex
presidente Bush la prima guerra in Iraq (un vecchio e fedele alleato
mediorientale, fattosi ingombrante).
Poi
verrà Clinton con la sua retorica progressista e sostanza conservatrice, le sue
contraddizioni, la sua svolta decisa verso l’internazionalizzazione dei
capitali, la “terza via” e la riforma del welfare, l’eliminazione dei sussidi,
la lotta neoliberale allo “Stato interventista” e poi, la Somalia, il Nafta,
gli attacchi alla Jugoslavia al momento della dissoluzione sovietica. L’avvio
della spinta ad Est della Nato, Seattle. Verrà allora Bush Junior, con
l’elezione rubata, l’11 settembre e la “Guerra al terrorismo”, le nuove
avventure militari e i “Neocon”, l’Afghanistan. Tutti i fallimenti che fanno
parte del declino americano di questi tempi[123].
Le
tecniche, dividere e nascondere
Al
di là di ogni valutazione il punto è che il sistema americano riesce sempre ad
esercitare il più ferreo controllo dividendo e incorporando, distribuendo
qualcosa a quanto basta per avere uno scudo e impedire che si sommino troppe
forze ostili. Mette sempre gli uni contro gli altri, i piccoli proprietari
contro chi non ha nulla, i neri contro i bianchi, i nati in America contro gli
immigrati, i vecchi immigrati contro i nuovi, i professionisti contro i non
istruiti, le città contro le campagne, il Nord contro il Sud, l’Est contro
l’Ovest, i giovani contro gli altri e tutte le minoranze contro tutte (una
delle ultime tecniche[124]). L’importante è che non
si veda la frattura principale, tra chi ha troppo e chi non ha niente.
Un
esempio di questa attitudine dell’establishment anglosassone (e americano in
primis) di cogliere ogni opportunità per silenziare e neutralizzare le sfide
sistemiche, sostituendole se del caso con meno pericoloso ribellismo
individuale, in particolare estetico, è rintracciabile nella trasformazione del
Movimento dei diritti civili, che tanta preoccupazione fece prendere
negli anni Sessanta all’FBI, in un movimento molto meno solido di
risegregazione identitaria. Giovani avvocati come Derrick Bell si convinsero
che le lotte contro la segregazione erano state in fondo utili al potere. E
che, con le sue parole, “il razzismo è una parte integrante, permanente e
indistruttibile di questa società [americana]”[125]. Nel contesto della
disillusione post-moderna verso le “grandi narrazioni” e il correlato
“universalismo illuminista” (anche, se non soprattutto, della tradizione
marxista che era il vero bersaglio[126]), la nuova strategia non
era essere tutti eguali, ma tutti diversi. Creare diritti differenziati
che favorissero alcuni gruppi svantaggiati, risarcendoli sul piano simbolico e
spesso linguistico. Questa idea si contaminò con quella di “intersezionalità”,
promossa da Kimberlé Crenshaw, con la sua “Teoria critica della razza”.
L’idea, apparentemente plausibile, è che ogni individuo si forma all’incrocio
di diversi attributi, secondo un’individuale ed irripetibile costellazione di
identità, come proposto da Donna Haraway. Estremizzando e pervertendo questo
concetto in chiave individualista una donna nera, o un omosessuale
latinoamericano (è ovviamente irrilevante se ricco o povero), non possono
essere capiti se non da altre donne nere e omosessuali latinoamericani. Non
sfugge che secondo questa strana logica ogni mobilitazione generale è
impossibile, e soprattutto lo sono quelle per ragioni economiche. Non per caso
queste teorie nascono nelle più ricche università americane, da persone
certamente non di classe popolare. Secondo la sintesi di un anziano Edward Said[127], questa idea portante,
che la vittimizzazione di gruppi identitari fornisca un qualche accesso
privilegiato alla virtù, non garantisce l’umanità, “attestare una storia di
oppressione è necessario ma non sufficiente, fino a che quella storia non è
ricodificata nel processo intellettuale e universalizzata per includervi tutti
i sofferenti”[128].
In altri termini, fino a che non è inserita nel contesto della produzione
sociale dell’oppressione che altri vivono, se pure diversamente, e in un
progetto di riscatto che li coinvolga. O, per dirlo in altro modo, “nonostante
quanto pensano Lyotard e i suoli accoliti, ci troviamo ancora in una periodo di
grandi narrazioni, di drammatici scontri culturali e di spaventose guerre”, le
cose vanno quindi collocate “nel più ampio contesto” e non solo dipendere “da
una professionalità tecnica o dalla stantia ‘giocosità’ della critica
postmoderna, con il suo altezzoso spregio per qualsiasi consa che non sia gioco
locale o pastiche”[129]. L’autore palestinese,
che tanta parte ebbe nella formazione del paradigma, in questi ultimi scritti
protesta contro quella particolare “pedagogia dell’apartheid” ed esaltazione
del particolarismo, che impedisce in radice che “un maggior numero di persone
possa beneficiare dei vantaggi per secoli negati alle vittime delle
discriminazioni di razza, classe e genere”.
Grazie
a trucchi simili, trovati con istinto sicuro, alla fine l’America riesce sempre
ad indicare una bella casa amena su una collina, mentre all’ombra di questa
distrugge e tortura, schiavizza e incarcera, bombarda tutti e sempre (ma in
modo “intelligente”), dichiarandosi sistematicamente ogni vota aggredita[130]; obbliga tutti a regole
che lui stesso non rispetta e cambia ogni volta vuole[131]; fa e disfa alleanze;
designa nemici esistenziali e “nuovi Hitler” con i quali fa patti prima,
combatte in mezzo e li rifà dopo[132]. Tradisce gli amici,
ogni volta possibile. Tradisce soprattutto gli amici, perché li considera
inferiori. Si comporta da impero, ma sempre, attentamente, “riluttante”.
Obbligato, malgrado la propria modesta inclinazione, da un “destino manifesto”
che non ha scelto. Che gli viene da Dio.
Conclusione,
lo spirito premoderno di un paese di frontiera
Ciò
accade, perché si tratta di una nazione imperiale che è nata sulla spinta delle
componenti più disperate e radicali della rivolta religiosa seicentesca,
innestando sul giano bifronte del liberalismo che abbiamo visto parlando del
libro della Elkins sull’eredità di violenza dell’Impero britannico[133]. Una nazione imperiale
che ha un tono veterotestamentario. Qualcosa che, leggendo Taubes[134] può essere riconosciuto
come radicalmente antipaolino. Riporta l’universalismo, conformemente ad una
postura anglosassone implicita, al nomos ed all’ethos, alla Gerusalemme ed al
popolo eletto. Paolo intendeva, invece, fondare un popolo e contestando al
contempo l’universalismo romano e la comunità etnica ebraica. Nella “teologia
politica negativa” paolina l’autorità viene sempre dall’amore per il prossimo: verso
l’altro da sé. Ed è un movimento orizzontale che passa per il crocifisso,
ovvero passa per l’indigenza (l’imperfezione, la finitezza). Per ciò che è
proprio dell’uomo e ha sempre a che fare con l’amore che, esso solo, consente
l’attivazione di quel movimento tramite il quale accedere alla perfezione.
L’uomo nell’antropologia paolina, e in quella cristiana al suo meglio, non è
mai un ‘io’, ma sempre un ‘noi’. All’universale non si arriva per un movimento
interno di dispiegamento, come l’espansione di una dote, di un possesso, ma si
arriva perché ci si apre. Per l’evento, nel quale ci si contamina[135], si sa perdere sé stessi
(così, e solo così, trovandosi).
Il
carattere veterotestamentario dell’universalismo imperiale americano promana
dalla stessa esibizione della violenza nuda, alla quale ci ha abituato dentro e
fuori, ogni qual volta si renda necessario. Le analisi di Jan Assmann, in Non
avrai altro Dio[136], e nelle altre opere[137] mostrano come la
“semantica culturale”[138] americana pratica invece
la relazione tra la violenza ‘necessaria’ e levatrice non in relazione al tema
della sovranità, quanto della trascendenza. In relazione, cioè, alla
missione divina. Diventa allora una questione della verità. La semantica
culturale americana pratica, e profondamente tanto più quanto meno se ne avvede
(come ogni habitus acquisito alla nascita), la “distinzione mosaica”[139]. Impone alla costruzione
americana, figlia di tante diaspore individuali e di gruppo, di distinguere il
vero dal falso. Cosa che rende quella americana un’enorme “Cultura di enclave”
nel senso dell’antropologa Mary Douglas. Qualcosa che è autoevidente, determina
una cornice di vita comune, e anche individuale, la quale si contrappone
naturalmente ad altri stili di vita tanto profondamente da poter uccidere per
essa in modo assolutamente ovvio.
Ma
tutta questa energia, questa determinazione e questa violenza è posta a
servizio. Diventa una forma che rende possibile la stabilità dello
sfruttamento, sentendosene innocenti. In sostanza da un certo punto di vista la
costruzione americana è un capolavoro.
[1] - Cedric J. Robinson, Black marxism. Genealogía
della tradizione radicale nera, Alegre 2003 (ed. or. 1983).
[2]
- Ovvero nella pratica di fuggire, più o meno in massa, dalle piantagioni e
creare nell’interno, spesso in luoghi difficili da raggiungere o in mezzo agli
indios, delle comunità nere autonome ed autosufficienti, nelle quali con il
tempo – alcune sono durate anche un secolo – costruire una nuova cultura di
sintesi.
[3]
- Per prevenire l’obiezione per la quale la civiltà romanda era fondata su un
modo di produzione schiavistico, ma non così la Grecia, si veda Luciano
Canfora, Guerra e schiavi in Grecia e Roma. Il modo di produzione bellico,
Sellerio editore Palermo, 2023. Tuttavia, come sottolinea ad esempio Stuart
Hall, il razzismo europeo moderno ha una base biologica che mancava nelle
culture classiche.
[4]
- Si veda: Étienne Balazs, La burocrazia celeste: Studi
sulla società cinese, Einaudi, 1977 (ed. or. 1968), p.67.
[5]
- John K. Fairbank, Storia della Cina, Einaudi 2004 (ed. or. 1996),
p. 154.
[6]
- L’Impero assiro, il primo della storia, crea o importa dai precedenti imperi
accadico e babilonese, molte delle strutture concettuali ed operative che poi,
per via della contiguità linguistico-culturale con il mondo semita (fenici ed
ebrei, ma anche altri popoli cananei mediorientali) ed egizio, oltre che
mesopotamico, si diffondono. Tra queste alcune tecniche di governo assolutista
e centralizzato, l’uso sistematico delle deportazioni di massa per rompere le
unità culturali, la propaganda imperiale che nominava come “inferiori” gli
altri popoli. Come sempre è difficile fissare l’origine delle idee e delle
pratiche, le quali viaggiano sulle lance degli eserciti, le barche dei
commercianti, le scarpe dei viaggiatori e dei coloni. Cfr. Eckart Frahm, Gli
assiri. Ascesa e caduta del primo impero del mondo, Mondadori, 2024 (ed.
or. 2023); Martin Bernal, Atena Nera. Le radici afroasiatiche della civiltà
classica, Il Saggiatore, 2011 (ed. or. 1987); Jan Assmann, Verso l’unico
Dio. Da Ekhnaton a Mosé, Il Mulino 2018 (ed. or. 2016). Si veda anche, Mario
Liverani, Antico Oriente: Storia, società, economia (Laterza,
2011). Tuttavia, l’idea di “razza”, o non-assiri (ḫurātu) presente nella
retorica politica assira, designava inferiorità, ma era culturale e non
biologica. Il tema è comunque dibattuto, Igor Diakonoff (1999) e Stefan
Zawadski (2018) sono favorevoli a ipotizzare distinzioni di razza o etniche,
mentre Adam Kessler (2020) è contrario.
[7]
- Il razzismo moderno nasce solo nel tardo medioevo, fondandosi su distinzioni
di stirpe e razza comunque medioevali. Aristotele, ad esempio, giustificava
certamente delle gerarchie e anche la schiavitù, ma con ragioni e criteri
culturali (la mancanza di logos) e non biologici. Nel mondo romano sia Plinio
il Vecchio (Naturalis Historia (VII, 12), sia Seneca (Lettere a
Lucilio (47), criticano chi disprezza per nascita e/o per aspetto gli
altri (segno che il tema esisteva, come ovvio peraltro). Anche per Tacito i
barbari britanni possono diventare romani tramite l’educazione, ed in genere
tutto il sistema politico-amministrativo romano era orientato ad assimilare il
diverso. Si veda, Benjamin Isaac, The Invention of Racism in Classical
Antiquity, Princeton University Press, 2004. Oppure, per una posizione
diversa, Rebecca Futo Kennedy, Race and Ethnicity in the Classical
World, Hackett Publishing Company, Inc., 2013.
[8]
- Ad esempio, Immanuel Wallerstein, a sua volta accusato da Robinson di
“eurocentrismo”, replica che il razzismo è un prodotto del capitalismo ed
accusa lo studioso afroamericano di “essenzialismo culturale”, le gerarchie
medioevali sarebbero basate sulla religione. Della stessa opinione Ellen
Meiksins Wood. Alcune critiche vengono anche dagli studi post-coloniali, ad
esempio da Barbara Fields (Slavery, Race and Ideology in the USA, 1990)
e Geraldine Heng. Oppure specialisti come Benjamin Isaac (The Invention of
Racism in Classical Antiquity, 2004) e George M. Fredrickson (Racism:
A Short History, 2002), ammettono la presenza del razzismo nel medioevo, ma
non la sua sistematicità. La tesi ha avuto una notevole influenza sulla “Black Radical
Tradition” (Robin D.G. Kelley, Ruth Wilson Gilmore) e alcuni studi come quelli
di Geraldine Heng, David Nirenberg (Anti-Judaism: The Western Tradition,
2013). Il tema viene anche ripreso e trasposto da Silvia Federici in Calibano
e la strega.
[9]
- Si veda Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di
Filippo II, Einaudi, 2002, p. 512-20. Si veda anche, Sergio
Tognetti, Il commercio degli schiavi a Venezia e in Italia (secc.
XV-XVI) (in Schiavitù e servaggio nell'economia europea,
Firenze University Press, 2014. Questa tesi viene contestata da chi ritiene i
numeri troppo piccoli e l’esperienza mutuata in qualche modo dal mondo arabo.
Il punto di Braudel (e di Abulafia, Il grande mare. Storia del Mediterraneo, Mondadori,
2013) è che la pratica viene istituzionalizzata in una vera tecnica, con
contratti, con rotte stabilite e stabili, con una burocrazia dedita alla sua
gestione.
[10]
- Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II,
op.cit., p. 518.
[11]
- Ovvero un enunciato che nel momento in cui viene pronunciato compie l’azione
che descrive. Non si limita a dire qualcosa, ma compie un’azione. Una frase
performativa non produce affermazioni constatabili, ma neppure un non-senso,
non descrive una cosa evidentemente presente, ma, se mai, la rende
presente, compie l’azione di costituirla. Anche se l’uso di questo termine
carico di teoria in questo contesto è un’estensione della più stretta
intenzione dell’autore, la designazione di un insieme di azioni, concetti,
pratiche e individui come parte di una “civiltà” specifica, ed “Occidentale”,
ha un carattere ‘operativo’ implicito. Distingue e separa, crea gerarchia. J.
L. Austin, Come fare cose con le parole, Marietti, Genova, 1974,
pagg. 49-54
[12]
- Si veda su questo Alessandro Visalli, Dipendenza, Meltemi 2020.
[13]
- Immanuel Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna, Il
Mulino 1978, 1982, 1995 (ed. or. 1974, 1989)
[14]
- Fernand Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo, tre volumi
(Le strutture del quotidiano; I giochi dello scambio; I tempi
del mondo) Einaudi, 1977, 1981, 1982 (ed. or. 1979).
[15]
- Ovvero la relazione interna, storica ed evolutiva, tra una particolare
conformazione e selezione di specifici sistemi tecnici e dei loro ambienti di
senso, le loro applicazioni e le istituzioni che le presumono, e le culture
ancorate a visioni specifiche del cosmo, della natura e dell’uomo, o, secondo
la definizione di Yuk Hui, “la cosmotecnica esprime l’unificazione tra ordine
cosmico e ordine morale attraverso le attività tecniche” (Yuk Huy, Cosmotecnica, Nero
2021, ed. or. 2016, p.29).
[16]
- Cfr. Alessandro Visalli, “Circa
la tecnica: per una fenomenologia politica della relazione”, Tempofertile,
25 maggio 2025.
[17]
- Il Dibattito di Valladolid fu uno scontro intellettuale e
teologico svoltosi nella città spagnola di Valladolid tra il 1550 e il
1551, convocato dall’imperatore Carlo V per rispondere a una domanda cruciale:
“Gli indigeni americani hanno un’anima razionale? Possono essere governati con
giustizia, o la guerra e la schiavitù sono legittime?”. Fu quindi il primo
grande dibattito europeo sui diritti umani e l’etica coloniale,
anticipando temi che oggi chiameremmo “diritti dei popoli indigeni” e “critica
all’imperialismo”. I due principali protagonisti furono, da una parte, Juan
Ginés de Sepúlveda (1489-1573), che sosteneva la naturale inferiorità degli
indigeni e la giustizia quindi della guerra. Le fonti sono Aristotele (Politica,
I,5) e la Bolla papale Inter Caetera del 1493. Dall’altra, Bartolomé de
Las Casas (1484-1566), per il quale gli indigeni sono esseri razionali e
liberi, dotati di culture complesse e la conquista è quindi immorale ed un
crimine. Le sue argomentazioni si basavano sulla teologia tomista e l’esperienza.
Le leggi spagnole che proibivano la schiavitù degli indio furono confermate ma
la conquista andò avanti.
[18]
- Dipesh Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, Meltemi, 2004 (ed. or.
2000).
[19]
- “La prima [ragione della
giustezza di questa guerra e conquista] è questa: essendo gli uomini barbari [gli indios] per natura servili,
incolti e inumani, essi si rifiutano di accettare il comando di quelli che sono
più prudenti, potenti e perfetti di loro; comando che darebbe loro grandi
vantaggi, è infatti, cosa giusta, di diritto naturale, che la materia obbedisca
alla forma, il corpo all’anima, l’appetito alla ragione, i bruti all’uomo, la
moglie al marito, l’imperfetto al perfetto, il peggiore al migliore, per il
bene di tutti”. Juan Ginés de Sepúlveda, De la Justa causa del la
guerra contro los indios, Roma 1550
[20]
- Per la cultura técnica precolombiana, capace di essere perfettamente adattata
ai luoghi e generare enormi città, natura e cultura non sono separate, il lago
Texcoco non è solo una risorsa idrica, efficientemente sfruttata, quanto una
entità sacra con la quale dialogare. La tecnica non è dominio, ma armonia con i
cicli cosmici e quelli politico-sociali. Le chinampas sono orti galleggianti
nel lago Texcoco, con strati di fango e vegetazione che rigenerano il suolo il
mais è un dono di Quetzalcoatl, e l’intera agricoltura un rito di reciprocità
con la terra (Tonantzin). Cfr. James Maffie, Aztec Philosophy, University
Press of Colorado, 2014. La medicina faceva uso di antibiotici, ma insieme a
riti di purificazione spirituali, o i quipu (nodi) come metodo di calcolo anche
avanzato usato dai Quechua. Alcune voci contemporanee che invitano a
decolonizzare il concetto di “progresso” sono Linda Tuhiwai Smith, Decolonizing
Methodologies, Zed Books, 1999; Leanne Betasamosake Simpson, As
We Have Always Done, University of Minnesota Press, 2017.
[21] - Juan Ginés de Sepúlveda, De la Justa
causa del la guerra contro los indios, op.cit. p. 109-111, cit in Enrique
Dussel, L’occultamento dell’Altro. All’origine del mito della modernità, La piccola editrice, 1991,
p.97
[22]
- Enrique Dussel, L’occultamento
dell’Altro, op. cit., p. 100.
[23]
- Qui mi collego alla convincente tesi di Kenneth Pomeranz per il quale la
Grande Divergenza tra Europa ed Asia è resa possibile, in ultima analisi, dal
superamento della Trappola malthusiana per effetto dell’importazione dei frutti
di un immane sfruttamento di terre aggiuntive grazie alla manodopera schiavile.
Cfr. Kenneth Pomeranz, La Grande divergenza. La Cina, l’Europa e la nascita
dell’economia mondiale moderna, Il Mulino 2004 (ed. or. 2000).
[24]
- Ovvero il sistema delle grandi piantagioni schiavistiche, che in Nord e Sud
America, come ai Caraibi, prefigura l’organizzazione del lavoro di fabbrica in
una scala e con effetti distruttivi che sono di molti ordini di grandezza
superiori a quelli denunciati da Engels nel suo La situazione della classe
operaia in Inghilterra, del 1845.
[25]
- Si veda, tra tanti, Paul E. Lovejoy, Storia della schiavitù in Africa,
Bompiani 2019 (ed. or. 2012); Toby Green, Per un pugno di conchiglie.
L’Africa occidentale dall’inizio della tratta degli schiavi all’Età delle
rivoluzioni, Einaudi 2021 (ed. or. 2019); Howard W. French, Africa e la
nascita del mondo moderno, Rizzoli, 2023 (ed. or. 2021);
[26] - Si tratta di quella che Fanon chiama la
esportazione della nevrosi europea.
[27]
- Che invito a leggere anche tramite Gustavo Gutierrez, Alla ricerca dei
poveri di Gesù Cristo. Il pensiero di Bartolomé de Las Casas, Queriniana1995
(ed. or. 1992), oltre che Enrique Dussel, Storia della chiesa in America
Latina (1492-1992), Queriniana, 1992 (ed. or. 1992), oltre che, ovviamente,
nel suo stesso testo, Bartolomé de Las Casas, Brevissima relazione sulla
distruzione delle Indie, Marsilio 2012 (ed. or. 1522).
[28]
- Si veda la ricostruzione della Rivoluzione francese compiuta in Alessandro
Visalli, Classe e partito, Meltemi 2023, e la relativa bibliografia.
[29]
- I “Girondini” vengono dai grandi porti Nantes, Bordeaux, Marsiglia, dove i
commerci incubarono una sorta di pre-capitalismo, mentre i “Montagnardi” dalla
regione di Parigi Si veda Burstin H., Rivoluzionari. Antropologia politica
della Rivoluzione francese [2013], Laterza, Roma-Bari 2016.
[30]
- William E. B. Du Bois, Black Reconstruction in America, 1860-1880, Free
Press: ristampa del 1995 dell'originale del 1935. Si veda anche W.E.B. Du Bois,
Sulla linea del colore, Il Mulino 2010 e la prefazione di Sandro Mezzadra.
[31]
- Enrique Dussel, L’occultamento dell’’altro’, La piccola editrice,
Celleno, 1993.
[32]
- Occorre precisare, il termine ‘modernità’ è altamente ambiguo e si configura
come oppositivo ad altre epoche del mondo antecedenti. Nella sua accezione
normale implica anche una qualche superiorità, nell’ordine della successione,
rispetto a queste. Ma è anche ambiguo con riferimento al campo nel quale si
definiscono queste epoche, per cui la modernità filosofica si vuole far
risalire fino ai greci, tracciando le radici, e poi alla rivoluzione
rinascimentale e seicentesca; la modernità politica all’epoca delle rivoluzioni
atlantiche, nel Settecento inoltrato; la modernità tecnica e produttiva alla
rivoluzione industriale. Qui si intende modernità nel senso geopolitico,
l’epoca del mondo che inaugura le altre e che pone al centro l’Occidente, fino
a quel momento periferia dei più vitali e ricchi centri storici del mondo (con
il baricentro in Asia e le sue propaggini nel mondo persiano e arabo).
[33]
- Per una lettura di questo tenore si veda anche Tzvetan Todorov, La
conquista dell’America. Il problema dell’Altro, ET Storia,1984 (ed. or.
1982).
[34]
- Serge Gruzinski, La macchina del tempo. Quando l’Europa ha iniziato a
scrivere la storia del mondo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018 (ed.
or. 2017); Serge Gruzinski, Gli Atzechi. Il tragico destino di un impero,
L’università Electa 1994 (ed.or. 1984); Camilla Townsend, Il quinto sole.
Una nuova storia degli Atzechi, Einaudi, 2022 (ed. or. 2019).
[35]
- Tesi in particolare del suo libro precedente, Serge Gruzinski, La
colonizzazione dell’imaginario. Società indigene e occidentalizzazione del
Messico spagnolo, Einaudi, Torino, 1997 (ed. or. 1988).
[36]
- Qui si dovrebbe parlare della linea che da Galilei porta a Newton, dal
matematismo del primo, al cartesianesimo intollerante del secondo.
[37]
- E’ la grande mossa terminale di Newton, fondamentalmente teologica. Come noto
il grande intellettuale inglese si considerava un teologo e spese molta parte
della sua opera in questa direzione. Si legga, ad esempio, Isaac Newton, Trattato
sull’apocalisse, Bollati Boringhieri, 1994. Esiste un nesso interno tra le
regole ermeneutiche messe a punto dal giovane Newton per l’interpretazione
delle scritture, un tema che lo impegnerà a lungo, e quelle euristiche
incorporate nelle sue teorie scientifiche. Il problema centrale era, seguendo
Cartesio, “come è possibile stabilire qualcosa di certo nella conoscenza?” Per
cui, come dirà in una lettera a Hooke, “l’assoluta certezza di una scienza non
può oltrepassare la certezza dei suoi principi”. Anche nella interpretazione
delle profezie procede ponendo regole generali e definizioni, quindi esplicitare
proposizioni e dimostrazioni in base alle regole poste. Nel De gravitatione
et aequipondio fluidorum, del 1664 o 68, Newton negò la necessità della
materia (e dunque postulò lo spazio vuoto) con argomenti strettamente
teologici, perché Dio non ne ha bisogno. Concetto che poi transita in qualche
modo, per diretto influsso, anche nell’Essay di Locke, e di qui nella
dottrina politologica liberale. Dunque, l’interpretazione della natura e quella
della parola di Dio, delle Scritture, è sullo stesso piano, perché la verità è
Una e si raggiunge tramite la Ragione. Fuori di questo ci sono le “immaginazioni”
private, o le “ipotesi”. Di qui il famosissimo “hypotheses non fingo”, dello
scolio dei Principia. E, soprattutto, di qui la rigida intolleranza
scientifica del grande intellettuale, che distingue sistematicamente tra
“verità” e “interesse di parte”, e rifiuta le opinioni degli altri sulla base
di una certezza raggiunta una volta per tutte. Si tratta di un metodo potente,
il cui rovescio è, però, che la verità viene oggettivata, ovvero alienata al
punto di poterla raggiungere solo a patto di far tacere gli uomini,
l’immaginazione e la sensibilità.
[38]
- Ovviamente nel senso di Said. Edward Said, Orientalismo. L’immagine
europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano, 1999 (ed.or. 1978), e Edward
Said, Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto
coloniale dell’Occidente, Feltrinelli, Milano, 2023 (ed.or. 1993).
[39]
- Immanuel Kant, Che cosa è l’illuminismo?, Editori Riuniti, Roma
1987 (ed. or., 1784).
[40]
- Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, Bari, 2003
(ed. or. 1837).
[41]
- Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, op.cit., p. 15
[42]
- Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, Laterza, Bari,
2003 (ed. or. 1830), p. 524.
[43]
- Per una simile prospettiva si può leggere anche il classicissimo libro di
Tzvetan Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’”altro”.
Einaudi, Torino, 1984 (ed.or. 1982).
[44]
- Dussel, L’occultamento dell’Altro. Op.cit., p. 62
[45]
- Enrique Dussel, Storia della Chiesa in America Latina (1492-1992),
Queriniana, Brescia 1992, (ed. or. 1992), p. 31.
[46]
- Dussel, Storia della chiesa in America latina, op.cit., p. 31
[47]
- Si tratta di un ordinamento giuridico spagnolo, per il quale degli indios
vengono affidati (encomandados) ad uno spagnolo (encomendero) che è
responsabile della loro evangelizzazione e, in cambio, ne può esigere il
lavoro.
[48]
- Qui, nel 1545 fu fondata una città per sfruttare la miniera che dava più o
meno la metà della produzione mondiale di argento ed ebbe impatti enormi su
tutta l’economia mondiale, fino alla lontana Cina. La produzione dell'argento,
nel mondo, che nel periodo 1521-1544 era stata in media di kg. 90.200 annui,
balza di colpo, nel periodo 1545-1560, a 311.600 kg., per mantenersi sui
300.000 kg. fino al 1580 e salire oltre i 400.000 kg. sino al 1621: a questa
produzione mondiale la regione di Potosí partecipa con ben 183.200 kg. annui
(in media) per il periodo 1545-1560, con 151.800 kg. fino al 1580, con 254.000
kg. fino al 1600.
[49]
- Cit. in Aurelia Michel, Il Bianco e il negro. Indagine storica sull’ordine
razzista, Einaudi, 2021 (ed. or. 2020), p. 67.
[50]
- Si veda la ricostruzione in Alessandro Visalli, Classe e partito,
op.cit.
[51]
- Un domenicano e teologo spagnolo, nato tra il 1483 e il 1493 e morto nel 1546
viene considerato il restauratore della teologia tomistica spagnola e uno dei
fondatori del diritto internazionale. Fu allievo a Parigi di fra Pietro da
Crochart, nel 1522 ottenne il magistero in teologia, materia che insegnò a
Salamanca dal 1526 al 1546. Le sue opere postume sono: Relectiones
theologicae (1557); Confessionario (1562); Summa
Sacramentorum Ecclesiae (1560). Nel corso all’università di Salamanca
dal titolo De Indis individua i titoli giuridici (diritto
naturale delle nazioni a comunicare fra loro, diritto della religione di Cristo
a estendersi in tutto il mondo ecc.) che giustificano la conquista delle terre
d’America contro gli «indi», anche se questi sono i legittimi possessori.
[52]
- Gesuita, nato nel 1539 e morto nel 1600, fu missionario in Perù e Massico e
prese parte al Concilio di Lima, oltre che collaborare alla pubblicazione di
catechismi e confessionarî in lingua quechua, aymará e castigliana. Scrive
una notevole descrizione dei costumi e indagine psicologica degli Indî, nell'opera
catechistica De promulgando evangelio apud barbaros sive de procuranda
Indorum salute (1571).
[53]
- Un teologo inglese, che nel 1636 bandito dal Massachussetts, istituisce una
colonia libertaria a Rhode Island nella quale è praticata la libertà religiosa
e i diritti dei nativi. Morto nel 1683, alla veneranda età di ottanta anni,
espresse le sue idee di assoluta distinzione tra Stato e religione, e libertà
di pensiero in The bloudy tenent of persecution (1644).
[54]
- Nato nel 1644 e morto nel 1718 è un politico e teologo inglese che fonda la
colonia della Pennsylvania. Pur essendo di ceto piuttosto alto e non certo un
“livellatore”, la colonia ebbe un sistema penale molto umano e relazioni
ragionevoli con gli indiani.
[55]
- Il libro – di notevole interesse per lo studio dell’immagine europea del
mondo non occidentale – è costruito sotto forma di dialogo e presenta alcune
delle problematiche più care a Diderot. “L’importanza storica dei viaggi in
periodo illuministico, l’interesse scientifico per le nuove scoperte
geografiche, il problema già affacciatosi con Montaigne di ‘una molteplicità di
culture non scandite nel tempo, ma coesistenti nello spazio’, il ‘mito del buon
selvaggio’, la disputa sullo stato di natura e sulle leggi della propagazione,
l’ideologia coloniale e l’anticolonialismo, sono temi tutt’altro che obsoleti,
e conferiscono al dialogo diderotiano un’innegabile attualità” (dalla
prefazione di Antonio Santucci). In Denis Diderot, Opere filosofiche,
Romanzi e Racconti, Bompiani, 2019, (ed. or.1772), p.2081.
[56]
- Caroline Elkins, Un’eredità di violenza. Una storia dell’impero britannico,
Einaudi Torino 2024 (ed. or. 2022), p. 785.
[57]
- Si veda, Richard Sakwa, Frontline Ukraine. Crisis in the Borderlands,
I.B. Tauris, London, 2015; Serhii Plokhy, The Gates of Europe. A History of
Ukraine, Basic Books, New York, 2015; Sara Reginella, La guerra fantasma
nel cuore d’Europa, Exorma, 2021; Medea Benjamin – Nicolas J.S. Davies, War
in Ukraine. Making Sense of a Senseless Conflict, OR Books, New York, 2022;
Giacomo Gabellini, Ucraina. Il Mondo ad un bivio. Origini, responsabilità,
prospettive, Arianna Editrice, 2022; Vladimir Putin, Di fronte alla
storia. Obiettivi e strategie della Russia, Pgreco, 2022; Gilbert Achcar,
The New Cold War. The United States, Russia and China, from Kosovo to
Ukraine, Haymarket Books, Chicago, 2023.
[58]
- Si veda Sara Roy, The Gaza Strip. The Political Economy of De-Development,
Institute for Palestine Studies, Washington D.C., 1995; Tareq Baconi, Hamas
Contained. The Rise and Pacification of Palestinian Resistance, Stanford
University Press, Stanford, 2018; Rashid Khalidi, The Hundred Years' War on
Palestine. A History of Settler Colonialism and Resistance, 1917–2017,
Metropolitan Books, New York, 2020; Ilan Pappé, La prigione più grande del
mondo. Storia dei territori occupati, Fazi Editore, 2022 (ed. or. 2017);
Ilan Pappè, Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli,
Einaudi 2005; Somdeep Sen, Decolonizzare la Palestina. Hamas tra
anticolonialismo e postcolonialismo, Meltemi, 2023 (ed. or. 2020); Edward
Said, La questione palestinese, Il Saggiatore 2011.
[59]
- Ervand Abrahamian, Storia dell’Iran. Dall’Islam all’era di Ahmadinejad,
Einaudi, 2009 (ed.or. 2008); Hamid Dabashi, Iran. The Rebirth of a Nation,
Palgrave Macmillan, New York, 2006; Hamid Dabashi, Iran. Una nazione in
rivolta, DeriveApprodi, Roma, 2009 (ed. orig. Iran: A People Interrupted,
2007); Vali Nasr, The Shia Revival. How Conflicts within Islam Will Shape
the Future, W.W. Norton & Company, New York, 2006; Trita Parsi, Losing
an Enemy. Obama, Iran, and the Triumph of Diplomacy, Yale University Press,
New Haven, 2017; Arang Keshavarzian, Bazaar and State in Iran. The Politics
of the Tehran Marketplace, Cambridge University Press, Cambridge, 2007;
Toby Craig Jones, Desert Kingdom. How Oil and Water Forged Modern Saudi
Arabia, Harvard University Press, Cambridge (MA), 2010; Sami Al-Kassir, Being
Arab, Verso, London, 2006 (ed. orig. in francese, 2006);
[60]
- Patrick Seale, Asad. The Struggle for the Middle East, University of
California Press, Berkeley, 1988; Nikolaos van Dam, The Struggle for Power
in Syria. Politics and Society under Assad and the Ba'th Party, I.B.
Tauris, London, 2011 (1ª ed. 1979); Sami Moubayed, Under the Black Flag. At
the Frontier of the New Jihad, I.B. Tauris, London, 2015; Raymond
Hinnebusch, Syria. Revolution from Above, Routledge, London-New York,
2001; Ghaith Abdul-Ahad, A Stranger in Your Own City. Travels in the Middle
East’s Long War, Knopf, New York, 2023; Adam Baczko – Gilles Dorronsoro –
Arthur Quesnay, Syria. Anatomy of a Civil War, Hurst Publishers, London,
2017;
[61]
- Si veda, Alberto Negri, Il musulmano errante. Storia degli alauiti e dei
misteri del Medio Oriente, Rosenberg & Sellier, Torino, 2017 (ed. orig.
2017); Piero Orteca – Vittorio Emanuele Parsi, Iraq. La guerra permanente,
Guerini e Associati, Milano, 2004; Thomas E. Ricks, Fiasco. L’avventura
militare americana in Iraq, Einaudi, Torino, 2007 (ed.or. 2006); Andrew J.
Bacevich, La guerra senza fine. Come l’America ha perso il controllo della
politica estera, Garzanti, Milano, 2008 (ed.or. 2008); Rashid Khalidi, L’impero
e i suoi fantasmi. Il Medio Oriente e la politica estera americana,
Einaudi, Torino, 2005 (ed.or. 2004); Noam Chomsky, Il nuovo umanitarismo
militare. Lezioni dal Kosovo e dall’Iraq, Marco Tropea Editore, Milano,
2001 (ed.or. 2000); Tariq Ali, Bush nell’Arabia felice. L’occupazione
dell’Iraq e il futuro del Medio Oriente, Fazi Editore, Roma, 2003; Lawrence
Freedman – Efraim Karsh, The Gulf Conflict 1990–1991. Diplomacy and War in
the New World Order, Princeton University Press, Princeton, 1993; Andrew J.
Bacevich, The New American Militarism. How Americans Are Seduced by War,
Oxford University Press, Oxford, 2005.
[62]
- Secondo lo stesso Rapporto Chilcot il SIS non aveva prove sufficienti
dell’esistenza di armi di distruzione di massa (poi non trovate) e interpretava
“ottimisticamente” i fatti disponibili. Successivamente lo stesso Gordon Brown
ha ammesso che gli Usa mentirono, anche sulla base di informazioni inglesi, e
che l’MI6 assicurava che le prove fossero consistenti. Cfr. Gordon Brown, My life, our times, The
bodley head, 2017.
[63]
- In Elkins, op.cit., p. 797.
[64]
- Baghdad, in arabo بغداد
reca il nome di “città della pace”, è la seconda più grande città dell’Asia
occidentale, dopo Teheran, ha quasi otto milioni di abitanti. Fondata nel 762
d.c., ma vicina alla molto più antica Seleucia (Σελεύκεια), fondata nel 300 a.C.
e capitale del regno seleucida che fu a lungo rivale dei romani. A sua volta
Seleucia era di fronte alla di poco successiva Ctesifonte (تیسفون), fondata nel
II secondo a.C. e capitale dell’impero sasanide partico e città più grande del
mondo nel VI secolo d C.
[65]
- George Orwell, fermo oppositore interno dell’imperialismo inglese e della sua
immorale postura, nel 1948 poco prima di morire sviluppò il concetto di
“Bipensiero” per il quale si tratta di tenere nella mente contemporaneamente
due pensieri opposti, saltando da uno all’altro secondo convenienza, restando
di ciò al contempo coscienti e inconsapevoli.
[66]
- Secondo la famosa formula della poesia di Kipling.
[67]
- Caroline Elkins, Un’eredità di violenza. Una storia dell’impero britannico,
op.cit., p. 19.
[68] - Cedric J, Robinson, Black marxism. Genealogia
della tradizione radicale nera, Alegre Roma 2023, (ed. or. 1983).
[69]
- Elkins, cit., p. 23
[70]
- Si veda William Sdalrymple, Anarchia. L’inarrestabile ascesa della
Compagnia delle Indie Orientali, Adelphi Milano 2022 (ed. or. 2019)
[71]
- Si veda anche Edmund Burke, Scritti sull’Impero. America, India, Irlanda,
Utet Torino 2008, p. 353 e seg.
[72]
- Burke, op.cit., p. 364
[73]
- La dimenticata rivoluzione haitiana.
[74]
- Si può vedere, in una diversa prospettiva l’opera di Jurgen Habermas, Una
storia della filosofia (2 vol), Feltrinelli, Milano, 2022-24.
[75]
- Elkins, op.cit., p. 72
[76]
- Elkins, op.cit., p. 165
[77]
- Elkins, op.cit., p. 297
[78]
- George Padmore, un importante politico trinidadiano, nato Malcom Nurse,
iscritto al partito comunista tra il 1927 ed il 1934, animatore del movimento
Pan-africano, sostenne la causa della decolonizzazione dell’Africa e fu
consigliere di Nkrumah dal 1958, anno in cui si trasferì in Ghana.
[79]
- Nnamdi Azikiwe, Renascent Africa, Negro University Pressi, New York,
1937.
[80]
- Eric Williams, Capitalismo e schiavitù, Meltemi 2024 (ed. or. 1944)
[81]
- Robert James, Cyril Lionel, I Giacobini neri, op.cit.
[82]
- William Du Bois, Le anime del popolo nero, Le Lettere 2007 (ed. or.
1903)
[83]
- Aimé Casaire, Discorso sul colonialismo, Ombre Corte, 2020 (ed. or.
1950).
[84]
- Franz Fanon, Pelle nera, maschere bianche, Edizioni Ets, 2015 (ed. or.
1952)
[85]
- Franz Fanon, I dannati della terra, Einaudi Torino 1962 (ed. or.
1961),
[86]
- George
Padmore. The life and struggles of negro toilers, Tonbridge, London 1931
[87]
- George Padmore, How Britain Rules Africa,
Wishart Books, London, 1936
[88]
- George
Padmore. Africa and world peace, Secker & Warburg, London, 1937.
[89]
- Elkins, op.cit. p. 346
[90]
- Reginald Coupland, Zulku battle piece: Isandhalawana, Tom
Donovan, 1991(ed. or. 1948)
[91]
- Reginald Coupland, India a re-statement, Legare
Street Press, 2023 (ed. or. 1945).
[92]
- George Orwell, 1984, Feltrinelli, Milano 2021 (ed. or. 1949).
[93] - Orwell, op.cit., p. 229
[94] - Idem.
[95] - Elkins, op.cit., p. 432
[96] - Elkins, cit. p. 676
[97]
- Elkins, cit. p. 702
[98] - Nato nel 1474 e morto nel 1566 è stata una
straordinaria figura di teologo e vescovo spagnolo strenuamente impegnato nella
difesa dei nativi americani, e successivamente anche dei neri importanti in
sostituzione. Fondamentale fu la sua partecipazione al dibattito del 1550 di
Valladolid, nel quale il suo avversario fu Juan Ginés de Sepulveda. Il testo
principale è Bartolomé de Las Casas, Brevissima relazione della distruzione
delle indie, Marsilio 2012 (ed. or. 1552).
[99] - Howard Zinn, nato nel 1922 e morto nel 2010, è stato uno
scrittore radicale americano newyorkese di inclinazioni socialiste libertarie e
provenienza da una famiglia di immigrati ebrei europei (dall’Austria e dalla
Siberia). Dagli anni Sessanta prese parte attivamente al movimento per i
diritti civili, sia nel ruolo di docente di storia sia in quello successivo di
docente di scienze politiche. Prese posizioni coraggiose e personalmente
costose contro la discriminazione razziale e la guerra del Vietnam. Howard Zinn,
Storia del popolo americano, dal 1492 ad oggi, Il Saggiatore 2017 (ed.
or. 1980), p. 25. Il libro è
uno straordinario affresco dell’intera storia degli Stati Uniti, fino ai primi
anni di Bush junior, descritta sotto il profilo della storia popolare. Ovvero
della storia delle lotte e mobilitazioni popolari e delle diverse forme di
oppressione che sono state praticate nella storia del paese. È quindi, e
soprattutto, una storia dei dispositivi di controllo sociale e di formazione e
dominio delle élites e di formazione e sfruttamento di sempre nuove
ineguaglianze e colonie interne. Anzi di controllo proprio rendendo funzionali
le ineguaglianze interne tramite il sistematico spostamento su altro della
natura economica di queste.
[100] - David Graeber, David Wengrow, L’alba di
tutto. Una nuova storia dell’umanità, Rizzoli 2022.
[101] - Graeber, cit., p. 61 e seg.
[102] - Graeber, p. 67
[103] - Si veda, Paul E. Lovejoy, Storia della
schiavitù in Africa, op.cit.; Howard French, Africa. E la nascita del
mondo moderno, op.cit.; Zeinab Badawi, Storia Africana dell’Africa,
Rizzoli, 2024.
[104] - Si veda, Francesca Canale Cama, Amedeo
Feniello, Luigi Mascilli Migliorini, Storia del mondo. Dall’anno 1000 ai
giorni nostri, Laterza, 2019, pp. 579 e seg.
[105] - Christopher Hilll, Il mondo alla
rovescia. Idee e movimenti rivoluzionari nell’Inghilterra del Seicento,
PGreco, 2023.
[106] - Hill, op.cit., p. 38.
[107] - Un tema, questo, di enorme complessità per
un approccio al quale rimando ad Alessandro Visalli, Classe e Partito.
ridare corpo al fantasma del collettivo, Meltemi, 2023, cap. 3, Mutamenti,
p. 103 e seg.
[108] - Su cui insiste molto
Cedric Robinson.
[109] - Zinn. p. 52
[110] - Si veda, Christopher Hilll, Il mondo
alla rovescia. Idee e movimenti rivoluzionari nell’Inghilterra del Seicento,
op.cit.
[111] - Mi permetto di rinviare anche ad Alessandro
Visalli, Classe e Partito. ridare corpo al fantasma del collettivo,
Meltemi, 2023, cap. 2, Rivoluzioni, p. 60 e seg
[112] - Zinn, p. 65
[113] - Alan Taylor, Rivoluzioni americane. Una
storia continentale, 1750-1804, Einaudi, 2017 (ed. or. 2016).
[114] - Zinn, p. 166.
[115] - Come già visto, grande intellettuale e
militante nero, in realtà con sangue africano, olandese, francese e haitiano,
nato nel 1868 e morto nel 1963.
[116] - Retorica teorizzata da
Ernesto Laclau attraverso il costrutto dei “significanti vuoti”, cfr. E.
Laclau, C. Mouffe, Hegemony and Socialist
Strategy. Towards a Radical Democratic Politics, Verso, Londra 1985; E.
Laclau, La ragione populista, Latera,
Roma-Bari 2008; E. Laclau, Le fondamenta
retoriche della società, Mimesis, Milano 2017. Inoltre, per una critica il
mio Alessandro Visalli, Classe e partito, op.cit., p. 213 e seg.
[117] - Laclau, citato in
Visalli, 2023, p.218
[118] - Zinn, p. 313. Per una lettura di questa
tendenza si veda, Alessandro Visalli, Dipendenza, Meltemi 2020.
[119] - Zinn, p. 347
[120] - Si veda, ad esempio, Niall Ferguson, Il
grido dei morti, Oscar, 2014,
[121] - Fasi descritte anche nel mio Dipendenza,
op.cit.
[122] - Si veda, Aram Mattioli, Tempi di
rivolta. Una storia delle lotte indiane negli Stati Uniti, Einaudi, 2024.
[123]
- Gli altri, Obama, Trump, Biden, ancora Trump sono fuori del libro, perché
l’autore è morto nel 2010 e sostanzialmente termina con le immediate
conseguenze del 11 settembre 2001, Afghanistan prima dell’Iraq. Non parla della
seconda guerra in Iraq e non della crisi del 2008. Non dei due fallimenti di
entrambe.
[124] - Si veda Yascha Monk, La trappola
identitaria. Una storia di potere e di idee del nostro tempo, Campi del
Sapere, 2023.
[125] - In Yascha Monk, La trappola identitaria.,
cit., p. 59
[126] - Non è difficile
riconoscere una linea genealogica precisa tra l’emergere, tra gli anni
Cinquanta e i Sessanta, di idee riprese dagli autori della ‘critica della
ragione’ formatisi negli anni Trenta tra le due guerre, e il loro consolidarsi
e diventare dominanti negli anni Ottanta, quando il marxismo subisce un
autentico tracollo. Quando gli autori della svolta postmoderna criticano le
“grandi narrazioni” e “l’illuminismo”, in realtà stanno attaccando l’idea di
rivoluzione ed il marxismo-socialismo.
[127] - Edward Said, Nel
segno dell’esilio. Riflessioni, letture e altri saggi, Feltrinelli, 2008
(ed. or. 2000).
[128] - Said, cit., p. 437
[129] - Idem.
[130] - Si veda, ad esempio,
Seymour Melman, Capitalismo militare. Il ruolo del Pentagono nell’economia
americana, Feltrinelli,1972 (ed.or. 1970); Seymour Melman, Guerra S.p.a.
L’economia militare e il declino degli Stati Uniti, Città Aperta Edizioni
2006;
[131] - William Blum, Con
la scusa della libertà, si può parlare di impero americano? Marco Tropea
Editore, 2002 (ed. or. 2000); Chalmer Jhonson, Le lacrime dell’impero.
L’apparato militare industriale, i servizi segreti e la fine del sogno
americano, Garzanti 2005 (ed. or. 2004); Chalmer Jhonson, Nemesi. La
fine dell’America, Garzanti 2008 (ed.or.2006).
[132] - Daniele Ganser, Breve storia dell’Impero
americano. Una potenza senza scrupoli, Fazi Editore, 2021 (ed. or. 2020);
[133] - Caroline Elkins, Un’eredità
di violenza. Una storia dell’imparo britannico, Einaudi Torino 2024
(ed. or. 2022).
[134] - Jacob Taubes, La
teologia politica di San Paolo, Adelphi 1997 (ed. or. 1993).
[135] - Questa grande parola
la uso nel senso di Derrida.
[136] - Jan Assmann, Non
avrai altro Dio. Il monoteismo e il linguaggio della violenza, Il Mulino,
2007.
[137] - Jan Assmann, Verso
l’unico Dio. Da Ekhnaton a Mosè, Il Mulino 2018 (ed. or. 2014); Jan
Assmann, Dio e gli dei. Egitto, Israele e la nascita del monoteismo, Il
Mulino, 2009.
[138] - Per come la descrive
Assmann “le grandi narrazioni e le differenziazioni principali con cui una
società si orienta nello spazio e nel tempo e che rendono impresse nei miti
fondatori, nei simboli, nelle immagini e nei testi letterari della propria tradizione”,
in Non avrai altro Dio, cit., p. 29.
[139] - Termine centrale della
interpretazione di Assmann, per la quale la trasposizione che Mosè pratica
dalla esperienza imperiale del suo tempo (Assiria ed Egitto) tra la vera e la
falsa religione, tra vecchio e nuovo, che separa e distingue un “popolo che
dimora a parte” (Nm 23, 9). Si veda Assmann, Dio e gli dei, cit., p.189.





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