Il
13 settembre 2014, profeticamente, Papa Francesco dichiarò il segno del nostro
tempo tragico. Nel centenario della Prima Guerra Mondiale ricordò che “anche
oggi, dopo il secondo fallimento di un’altra guerra mondiale, forse si può
parlare di una terza guerra combattuta ‘a pezzi’, con crimini, massacri,
distruzioni”[1].
Sono
passati solo undici anni, ma sembrano un’eternità. Si era nel tempo del Job Act
di Renzi, di Schäuble che al G20 si oppose alle richieste di manovre anticicliche
degli Usa, riaffermando il vangelo dell’austerità e il surplus di bilancio europeo
e tedesco. Era il tempo in cui Obama spingeva perché fossero firmati due
trattati di libero scambio, in chiave anti-cinese e a vantaggio delle aziende
tecnologiche. Il TTIP (con l’Europa) e il TPP (con l’Asia) avevano infatti un
solo scopo: come Jack Lew chiese al G20, quello di creare le condizioni per
ribilanciare le partite commerciali statunitensi. Allora come ora il mondo
esportava negli Stati Uniti molto più di quanto importasse da essi, e i
cittadini americani consumavano più di quanto producessero. Allora come ora il
debito pubblico, traduzione di quello privato, cresceva sempre di più. Allora
come ora il sistema-America era complessivamente indebitato verso il mondo. E allora
come ora la fiducia nella capacità sul lungo periodo (oggi anche sul breve) di
sostenere questo ritmo era sfidata.
Sono
passati undici anni e quei nodi sono giunti al pettine[2].
Sull’onda del progressivo svuotamento della posizione di forza americana[3],
e dell’accelerazione della crisi europea passata per lo shock del Covid[4],
la crescente competizione cinese e la guerra Ucraina che ha tagliato le sue
forniture energetiche, l’Occidente appare disperato e pronto a tutto. La ragione
è il vuoto che alberga nel suo cuore, in quelle classi medie e nelle
contigue classi popolari attive, disinteressate e perse nella lotta per la
vita, disperse in innumerevoli microcircuiti autistici di muto rancore
coltivati scientemente dagli algoritmi[5]
e ormai a quello che Todd chiama il punto zero (o stato zombi) del
disperato individualismo.
Non
che non siano stati fatti tentativi, in questi ultimi anni crescenti, per
sanare il vuoto, si è passati per l’American Rescue Plan (1.900
miliardi) un programma infrastrutturale (2.300 miliardi) e l’American
Families Plan (1.800 miliardi) più lo stimolo del primo Trump di 3.600
miliardi. Il primo concentrato sulle classi medie e le piccole imprese. Tuttavia,
come ricordavano gli autori dei Monthly Review negli anni Settanta[6],
di fronte ad una crisi, nel capitalismo contemporaneo ogni politica pubblica
deve in primo luogo confermare i rapporti di forza sociali, ovvero garantire la
riproduzione del capitale nelle mani in cui è. Di fronte a sfide che possono
indebolire la propria capacità di canalizzare la ricchezza, piuttosto le élite
si comportano come quelle bismarckiane della metà dell’800: cercano di cambiare
tutto per avere lo stesso mondo. E si sforzano sistematicamente di stimolare
nuovi cicli di speculazione e sviluppo alimentati dal debito (soprattutto
pubblico); cicli gestiti da strette (o strettissime) ed affidabili élite
tecnocratiche.
Questa
è la ragione del loro fallimento, non possono affrontare il vuoto nel cuore
dell’Occidente perché ne sono la causa e dovrebbero negare se stesse.
Quel
che viene tentato, e per il quale la seconda amministrazione Trump, come quella
Biden con retoriche diverse e diverse tattiche, si spende è rigenerare il
capitalismo affinché all’ordine neoliberale segua ancora un ordine che salvi il
capitalismo; ed alla centralità dei soggetti creati dal sistema di regolazione
neoliberale segua quella dei medesimi (al contempo cambiati). Si può dire così:
se la crisi del modo di regolazione ‘fordista’, al calare del millennio,
estremizzò e al tempo pervertì gli elementi di questo[7], allargandoli su scala mondiale
attraverso una potente dinamica di integrazione subalterna (ponendo al centro
nuovi assetti tecnologici e la creazione dell’ordine nel quale viviamo), qui si
tratta in mutate condizioni di ripetere l’operazione. Estremizzare e
pervertire, per superare/confermare l’ordine sociale esistente e
saltare nel prossimo.
L’operazione
ideologica è di enorme ambizione, non va sottovalutata. Si tratta di raccogliere
la sfida posta dall’evidente, e non nascosto, fallimento dell’economia
neoliberale, eccessivamente concentrata sul breve termine, sull’arricchimento
come rapina invece che come effetto della creazione di valore, sull’esaltazione
delle parti peggiori dell’uomo, sulla distruzione della natura entro e fuori di
esso, per rovesciarlo in un successo dei medesimi attori. Una vera
e propria rifondazione ideologica dall’alto che è
espressamente proposta dalle élite per le élite di fronte al baratro del
conflitto, della perdita di egemonia e di controllo del mondo. Si tratta di un
tentativo di riaggregazione di classe, oltre e sopra le differenze e le
fratture geopolitiche in via di allargamento. Una riaggregazione necessaria e
decisiva per ricandidarsi come sempre alla gestione del reale, ma da una
posizione più salda.
A
oltre dieci anni dai tentativi obamiani abbiamo dunque avuto un ciclo di presidenti
che più lontani non potrebbero essere, sintomo della divaricazione degli Stati Uniti
profondi: prima Trump, che batte una troppo sicura Clinton, e poi Biden, il
quale sfrutta il Covid per affermarsi come ancora di sicurezza ma finisce per
lanciare il mondo nell’avventura ucraina[8] (abbaiando alla porta
della Russia, come ancora si trovò a dire Francesco[9]). Un calcolo complesso, ma
anche una scommessa persa, quella di vincere facilmente contro l’orso russo. Quindi,
ancora dopo solo quattro anni, il ritorno di Trump. Siamo, con questa seconda
vittoria, a quindici anni dal ciclo neocon di Bush Junior (con le sue avventure
mediorientali), otto dal ciclo Obama e sedici dopo la crisi-spia della finanziarizzazione
esemplificata dal crollo del 2008. A sua volta il 2008 è al termine di un ciclo
di bolle alimentate politicamente che risale almeno ad un decennio prima, e fu
il segnale della necessità di tornare a qualcosa che potesse, almeno per il
grande capitale finanziario, soccorrere; ad una sorta di ‘big state’.
Da
allora, ovvero da sedici anni, a ben vedere il tema è sempre stato questo: come
rimettere sotto controllo gli spiriti animali del capitalismo finanziario,
senza andargli contro, ma alimentandolo. Una sorta di surf impossibile su
una onda anomala ed impazzita. Prima fu tentata la via diretta di riempirli di
soldi dei contribuenti: allora, come ricordato, ci furono reiterati pacchetti
di stimoli bypartizan, da parte della coppia Bush-Obama. Poi la ricerca sempre
più parossistica di un nuovo “motore economico” (si potrebbe dire di una nuova
bolla), mentre cresceva la consapevolezza della crisi terminale della “mondializzazione”
anni Novanta. Nel 2015, nel Discorso sullo Stato dell’Unione del secondo
mandato Obama cercò di proporre come motore la svolta ambientalista e le politiche
energetiche. La Ue seguì nel 2019 con il “Green Deal”, ed ora, dopo aver
scoperto che la Cina si sta facendo campione delle relative tecnologie, proseguiamo
con il keynesismo militare, senza dimenticare tentativi come la IA generativa, data
center, l’auto elettrica in Occidente, la digitalizzazione, la cybersicurezza e
le smart grid. Tutti schemi di investimento e impiego dei capitali fluttuanti
spinti, e in qualche modo canalizzati, da campagne di comunicazione necessarie
per creare il giusto hype, da politiche monetarie, incoraggiamenti, ‘emergenze’,
da veri e propri atti di imperio. Il punto è che si tratta sempre di spinte di
stabilizzazione funzionali a transizioni geopolitiche, o forme di guerra ibrida,
volte a controllare simbolicamente il futuro e ricostruire la speranza (degli
investitori).
Nel
frattempo, tornando agli anni Dieci, si era nel pieno del “ciclo populista”,
parte della rivolta delle classi medie tradite dalla mondializzazione, reso
visibile dalla Brexit, da diverse elezioni sorprendenti in Europa (tra cui in
Italia) e dall’emergere, prepotente, della proposta populista di destra di
Trump e di sinistra di Sanders. La scelta dell’establishment democratico verso
la Clinton segnò la partita. Il primo Trump oppose allo stile di Obama
(universalista, tecnocratico, basato sull’indicazione di una “agenda”,
che sceglie alcuni valori come forza motivante, astratto,
radicato nella libertà come destino storico), un
discorso: nazionalista, populista, basato
sull’indicazione di un nemico, che sceglie come forza motivante
l’indicazione di un meccanismo, concreto, radicato
nella promessa della protezione. Una agenda che si radicò
direttamente nel fallimento di Obama. Nei suoi anni se calò la disoccupazione fu
perché crebbe il lavoro povero e l’ineguaglianza. La partecipazione della forza
lavoro calò sotto il 60% e crebbero la violenza e la povertà sanitaria. La
classe media si sentì abbandonata ed assediata dai “poor job”, e minacciata dal
tentativo insistito di rilanciare la mondializzazione.
Fu
così che il primo Trump irruppe nella cittadella: parlando di “ricostruzione” e
di “ripristinare la promessa”. Parlando a sezioni diverse della società (quelle
che Sanders cercava di intercettare), il nuovo Presidente cambiò completamente
tono. Dall’ottimistico ‘viaggio’ si passò ai toni cupi che indicavano un
‘nemico’ interno: quei “piccoli gruppi” che, fiorendo, vivono alle spalle della
“gente” che perde il lavoro e vede le fabbriche chiudere. Trump guardava a
“madri e bambini intrappolati nella povertà”, in “fabbriche arrugginite”,
sparse “come lapidi”, alle prese con un sistema educativo costosissimo, ma che
lascia troppi senza speranza, dove il crimine si espande. La definiva una
“carneficina”. Mentre Obama volava su alte parole, in questo abilissimo, Trump,
simulando rozzezza e semplicità, indicava concretamente nemici, vicini. Nel
suo discorso ciò che ci danneggia è la concorrenza di altri. Quindi è la
globalizzazione, sono proprio quegli immigrati che la sinistra vuole
accogliere. Sono quelle politiche, derivanti dall’idea che “il mondo è
sempre più piccolo” e che bisogna proseguire avanti sulla strada, e
“rischiare”, che bisogna essere adulti e forti, orgogliosi e vincenti. Sono le
politiche che hanno solo “arricchito le industrie estere”, sovvenzionato gli
eserciti di altri (ad esempio attraverso la Nato), difeso i confini di altri.
Fatto altri ricchi e “noi” poveri.
Chiaramente,
nei toni e nelle forme, quello di Trump (e di Sanders, e di Corbyn[10]) è un cambio di retorica
motivato dalla ricerca di una diversa base sociale che non sia imperniata sulle
classi medie superiori urbanizzate. Che cerchi, cioè, di recuperare dalla
rabbia dispersa negli innumerevoli microcircuiti autistici di muto rancore l’energia
politica per entrare nella cittadella. Ma di entrare, sicuramente nel caso di Trump,
ma ritengo anche negli altri per ‘aggiustare’ la società e il sistema
socio-economico e di potere, non per cambiarlo. Aggiustare conservandolo. E conservare
l’egemonia[11]
Occidentale con esso.
Abbiamo
visto, leggendo Howard Zinn[12], che questo negli Stati
Uniti è sempre stato un trucco delle élite. Da Andrew Jackson che, alla
luce della minaccia di rivolte come quella del movimento della Valle dell’Hudson,
combinando toni populisti e retorica liberale finse amicizia con la classe
lavoratrice mentre si appoggiava sull’ascendente classe dei commercianti. O i
presidenti dell’era “progressista” da Theodore Roosevelt in poi, che iniziarono
la proiezione imperiale americana come esplicito tentativo di aprire mercati
protetti e quindi sbocchi controllabili senza essere costretti a risolvere il
sottoconsumo (nel pieno della depressione del 1893) alzando i salari interni. In
altre parole, spostando all’esterno la tendenza a trovare un nemico e un
inferiore al quale rivolgere il proprio risentimento. Se del caso usando il più
vecchio trucco di deviazione dell’attenzione, quello evocato da Theodore
Roosevelt, quando, vedendo la forza dei crescenti movimenti populisti: “questo
paese ha bisogno di una guerra”, ovviamente verso le razze “inferiori”. Mentre,
alcuni anni dopo, si arrivava al punto apicale della sfida socialista interna
nacque, quindi, una sorta di capitalismo politico che attenuava e sopiva, che
concedeva, ma per tutelare meglio gli interessi a lungo termine della classe
capitalista, operando per i suoi interessi generali e prospettici, più che per
quelli della singola fabbrica o industriale. Oppure, saltando in avanti, nel
contesto della crisi degli anni Settanta del Novecento, l’establishment giocò una
volta ancora la carta del travestimento nella figura di un ricchissimo
imprenditore di arachidi del Sud, Jimmy Carter, che si vestì da contadino e
costruì un potente richiamo populista. Scelto per il ruolo da Rockfeller e
Brzezinsky, Carter introdusse un pacchetto sofisticato di apparenti riforme e
potenziamento delle spese militari sul quale, in continuità, si inserì
(cambiano retorica) Ronald Reagan.
Riassumendo,
ed in linea generale, in questo ultimo quindicennio, abbiamo assistito a
tentativi di ristabilizzare la situazione nel quadro di una crescente sfida
internazionale (poi sempre più manifestatasi nei Brics). Avendo, da una parte
un declinante network globalista (ad occhio costituito da grandi banche,
istituzioni di regolazione, reti professionali e agenzie di servizio, alcune
decine di migliaia di grandi imprese, potenti think thank massicciamente
finanziati, molti media e professionisti del settore, molti politici), e
dall’altra un raggrumarsi ancora frammentario e contraddittorio di interessi e
desideri (i cui confini si chiariranno per strada, ma almeno formato da due
componenti, le forze che si aggregano nel MAGA[13] e il grande capitale finanziario-industriale[14] che cambia bandiera). In sintesi,
Trump sarebbe stato eletto (e rieletto) da un network in formazione, ma dotato
di potenti agganci di potere e in sincronia effettiva con una potente corrente
sociale, per riportare in termini controllabili la proiezione di controllo
dalla quale dipende la stessa possibilità di accumulazione, in qualsiasi
forma.
Quindi
per:
1-
Restringere
le catene logistiche
bisognose di protezione, e ridurre drasticamente i costi di protezione
sostenuti in proprio,
2-
Rinegoziare
il multilateralismo
e quindi i margini di autonomia economica degli attori principali (USA, Europa
in via di disarticolazione, Russia, Cina, Giappone),
3-
Rigarantirsi
gli spazi di autonomia strategica,
e quindi reindustrializzare e ribilanciare il commercio.
Una
delle cose decisive da osservare (in parte anche in Biden) è che questo
rivolgimento presuppone la messa sotto controllo da parte dello Stato delle
forze animali del capitale mobile (facendo leva su quelle delle diverse forme
di capitale fisso), dunque richiede l’affermazione della “logica
territorialista” alla scala opportuna. Il punto centrale è che un Impero
americano sempre più sfidato, che non può più essere certo di controllare i
meccanismi estrattivi che nutrono la sua debolezza (la mancata produzione,
l’eccesso di consumo, la dipendenza dai flussi finanziari, l’insostenibile
centralità del dollaro) deve ripristinare, prima che sia troppo tardi,
l’autentica fonte di sovranità statuale: il controllo della domanda
interna. Ciò può avvenire solo se si pongono sotto controllo responsabile,
se si riconducono alla logica della potenza dello Stato e non del singolo
agente, i flussi di capitale e se si commercia su un piano appropriato.
In
definitiva, e questo serve a capire meglio il clima di scontro nel quale scivoliamo.
La coalizione che ha scelto Trump (e Vance) è espressione dell’esaurimento
per estenuazione, soprattutto sociale, e dopo numerosi tentativi falliti,
del modello di ‘accumulazione per spoliazione’ del liberismo. Tale
modello fallisce soprattutto per l’aumento della concorrenza internazionale
(come avvenne nel ciclo di fine Ottocento e inizio Novecento descritto da
Karl Polanyi che pose termine all’egemonia inglese). E’ quindi
espressione del tentativo di trovare una nuova formula politica di
gestione della situazione.
Parte
necessaria di questo tentativo è il superamento con assorbimento-incorporazione
e quindi funzionalizzazione delle spinte popolari. Il populismo deve diventare
forma di governo e rientrare nella sua componente più radicale e ribellista. Al
contrario del tentativo di Obama, questo avviene sul piano del “nazionalismo
imperiale” (un poco come fece Benjamin Disraeli[15]). La ricerca di un “dividendo
imperiale”, intorno al quale ritrovare l’equilibrio interno necessario per
vincere (pacificamente si spera) la sfida storico-epocale con la Cina, deve
perciò passare per l’estrazione dalle province (principalmente l’Europa, come
peraltro tentava di fare Biden), e la creazione di una nuova coalizione di
potere, con referenti sociali precisi. Quindi per la ricerca di una
soluzione storica che abbia la forza di riattivare un ciclo di egemonia che
rivoluzioni-conservando per stabilizzare l’impero e la nazione insieme (questa
è la novità direi), sopendo, reprimendo e creando nuova gerarchia.
Per
comprendere il progetto che sottende alla Guerra Mondiale a Pezzi, con
variazioni tra presidenti anche importanti, bisogna capirlo, in definitiva,
come una nuova forma del progetto imperiale che deve passare necessariamente
per un’aspra riorganizzazione del mondo intero su base multipolare (bi o
tripolare), prevedendo una nuova divisione dei compiti e delle gerarchie.
In questo progetto devono perdere, almeno in senso relativo, i centri
industriali e finanziari semi-rivali (la Germania, l’Italia, il Giappone, la
Francia, probabilmente la servizievole e volenterosa Inghilterra), se non
accettano di stare al loro posto di fortini di confine e consumatori-subfornitori.
In
questa nuova struttura d’ordine, potrebbe anche esserci anche uno spostamento
relativo di ricchezza dall’economia dell’intrattenimento e immateriale,
privilegiata nella fase finanziaria, a quella produttiva. Non è necessariamente
una buona notizia nelle condizioni della tecnologia contemporanea e perché
servono competenze diverse. Ma potrebbe essere necessario in un mondo nel quale
la Cina laurea molti più ingegneri (e migliori) di tutto l’Occidente messo
insieme, ed in India il doppio (che è dieci volte il numero USA) e nel quale
l’Iran laurea come gli USA, la Russia il doppio.
Il
“Nazionalismo imperiale” (al posto dell’Universalismo imperiale) potrebbe
essere la nuova forma ideologica adatta a questa configurazione (che richiederà
anni per affermarsi) che, nella versione Usa, potrebbe restare una forma di
universalismo predatorio esattamente come il progressismo liberal, ma sotto
vestiti di diverso colore (che all’inizio confonderanno).
Allargando
lo sguardo, potremmo avere come posta della Guerra Mondiale a Pezzi, il
superamento della fase unipolare, ormai morta, e della centralità dell’Occidente
con essa, ma in favore di diversi ed alternativi modelli multipolari:
-
Quello
probabilmente immaginato come sbocco finale da Trump, e da parte
dell'establishment Usa, che vede una nuova divisione in blocchi di influenza,
nella quale ognuno abbia i “suoi” satelliti da gestire (leggi, verso i quali
regolare a proprio favore le ragioni di scambio) e da “proteggere” (cosa che
costa), e tra questi ci siano scambi regolati dai rapporti di forza.
-
Quello
che presumibilmente interessa alla Cina (ma non alla Russia), che può essere
descritto come “armonia sotto il cielo”, e si traduce in un sistematico
rifiuto della logica amico-nemico, piuttosto sostituito da quella delle vie
(Dao) molteplici alla comune umanità (che, però, non è un ascendere, piuttosto
un riconoscere).
-
Il
terzo modello potrebbe essere quello russo, ‘del padre di famiglia’ (nel
Comecon la Russia era contributore netto) che non sfrutta i figli, ma ne chiede
il rispetto, esercitando l’autorità verso di essi.
Il
primo ed il terzo passano per una Nuova Jalta, il secondo passa per l'ONU e gli
organismi di cooperazione, ma, soprattutto, per gli scambi.
Resta
un punto. Il dominio
del discorso universalista occidentale sta venendo meno. Di questo discorso
siamo al tramonto. Siamo, insomma, al tramonto del macrociclo nel quale la centralità
militare, tecnologica e della formazione del capitale[16] nell'Occidente collettivo ha avuto inizio.
Ovvero di quel grandioso movimento che si avviò con l'aggiramento spagnolo del
blocco turco e la distruzione delle Americhe e che sta giungendo dopo cinque
secoli a fine. La dipendenza ed assorbimento dei capitali periferici, e
l'intero sistema morale, ideologico e sociale che vi è stato costruito sopra
(la stessa coppia Occidente/Oriente che lo organizza) è ormai presentata
davanti agli occhi del mondo e rigettata ogni giorno di più. Il Re è ormai
nudo, per questo ruggisce di rabbia come si vede a Kiev come a Gaza o a Teheran.
Si
era trattato di un ciclopico evento geopolitico: l’aggiramento della
centralità (e del blocco) mediterraneo. Quel mare abitato da cretesi e fenici,
sbocco di egiziani e delle grandi civiltà persiane, frequentato dai greci e
conteso da Cartagine e Roma, testimone del turbine arabo e poi del dominio della
Sublime Porta, quindi di veneziani e genovesi. Un mare periferico, si intenda,
sbocco occidentale del grande centro geopolitico dato dal mondo di lingua Farsi (dall’Afganistan
agli Emirati Arabi passando, ovviamente, per la Persia), e poi indiano e cinese
(da Occidente ad Oriente)[17]. Fino all’aggiramento
prodotto dai sovrani spagnoli e portoghesi l’Europa germanica e latina aveva
due blocchi in successione a separarli dai luoghi più ricchi del mondo (l’India
e la Cina): il mondo arabo e turco, e il retrostante mondo persiano. Restava
solo la possibilità di aggirarlo verso Est, o verso Sud. Dal secolo XIV fu
aperta quindi la via verso Occidente.
Da
allora l’Europa si può pensare come centro.
Nel
pensarsi come centro l’Occidente ha costruito, sulle basi della trascendenza
cristiana, ma pervertendola, una comoda interpretazione: vinciamo perché siamo
la punta avanzata della storia, del progresso umano verso la perfezione, e otteniamo
il premio di questo essere per il buon diritto che ci viene dalla forza civilizzatrice
del commercio, oltre alla potenza della nostra tecnologia e scienza. È il ‘dolce
commercio’[18]
che, necessariamente e per sua dinamica interna porta con sé attraverso la
spinta del consumo l'allineamento del mondo agli standard dell'Occidente.
L’idea era di considerare la “modernizzazione”[19] compiuta storicamente, ed in
innumerevoli conflitti, dalle società europee nel torno di anni tra il XV ed il
XIX secolo come una “tappa”[20], storicamente necessaria, dei “progressi”[21] della “Ragione”[22] che porta con sé il necessario
-biunivocamente connesso- sviluppo delle forze produttive. Nessuno
sviluppo autentico è quindi considerato possibile, né civile e
morale, né produttivo ed autosostenuto, senza che si aderisca a questo
movimento ineluttabile e progressivo, irreversibile, scritto nella “Storia”[23], e del quale l’Occidente rappresenta il
modello e l’alfiere.
Questo
mito fu scosso nella prima metà del Ventesimo secolo dall’esperienza della
distruzione della tecnica (le mitragliatrici ed il gas nella Prima Guerra
mondiale, i bombardamenti ad alta quota, le macchine di sterminio, le atomiche
nella Seconda), ed è oggi sfidato dalla direzione che stanno prendendo i fatti.
La mente di ogni buon cittadino occidentale, democratico e progressista,
incastonata da questo giro di idee e sicuro della propria superiorità e del
destino manifesto che aspetta il mondo intero, non appena giungerà a
riconoscerlo, è scossa e confusa dall’indisponibilità russa ad arrendersi,
dalla nascita dei Brics e la sua espansione, dall’irresistibile crescita della
Cina e la sua dirompente ascesa nella catena del valore e tecnologica, dalla
crescita di movimenti politici non liberali nei santuari occidentali.
Tornando
alla trasformazione egemonica in corso, e per approfondire l’analisi, bisogna
considerare che ci sono alcuni passaggi necessari:
-
rompere
le connessioni economico-finanziarie, fatte di flussi di merci ma anche di
capitali, di aree di ricircolo dei surplus e di riserve;
-
costringere
gli attori intermedi a scegliere il campo nel quale stare, e che sarà separato
da alti muri di tassi e barriere non commerciali;
-
indebolire
la finanza e creare le condizioni per una reindustrializzazione fondata
necessariamente sulla nuova “piattaforma tecnologica”[24] che si sta affacciando sulla scena.
Una
“piattaforma” imperniata non più sulla vecchia, che era costituita da Ict
standardizzante e centralizzante[25], l’industria a rete lunga, decentrata e
caratterizzata da forme specifiche di dominazione del lavoro, da funzioni di
concentrazione e liberazione dei flussi di capitali, deregolazione e
indebolimento delle capacità di comando dello stato, fuga fiscale. Quindi,
imperniata su scambio deflattivo[26] e economia del debito[27].
Ma
su una nuova, determinata dall’insieme dei nuovi abilitatori tecnologici, e
geostrategici, che possiamo sintetizzare nel potente insieme di cinque aree che
sono contemporaneamente arene di competizione:
1- la frontiera tecnologica. Ia Generativa (“debole”, per
ora), che porta con sé la sfida per il controllo dei modelli linguistici e l’automazione
cognitiva; la robotizzazione antropomorfa e non; il cloud e datacenter, con la
sfida decisiva per la sovranità del dato; la Iot e comunicazione, con le reti
distribuite; la imposizione di standard tecnici e normativi; il quantum
computing e la supremazia crittografica; le biotecnologie; la sfida per il
controllo del suolo, della sua produttività, dell’economia dei semi e dell’automazione.
Gli attori chiave, Nvidia per i chip, Open AI e Google per il software ma
sfidato da competitori cinesi sempre più agguerriti (come Alibaba, Baidu, DeepSeek),
il cloud e controllo del dato, come AWS e Azure, ma anche la sfida di Hauwei. Qui
la frontiera non è solo hardware, ma anche semantica (chi definisce le
categorie, le lingue, le decisioni automatizzate).
2- La sfida per il controllo delle
enormi e crescenti necessità energetiche, indispensabili per poter acquisire, stabilizzare e
scalare la supremazia tecnologica. In questa area troviamo il controllo dei
giacimenti, uranio, gas, petrolio, gas, litio per le batterie; le infrastrutture
smart, le reti digitali autonome e resilienti, di indispensabile necessità
strategica (per resistere agli attacchi alle infrastrutture); le rinnovabili,
le fossili, il nucleare, i vettori energetici intermedi (come l’idrogeno, il
cui risiko è alle porte), e via dicendo. Qui è decisivo l’accesso continuo, sicuro,
scalabile e non minacciabile (la perdita dell’Iran costerebbe alla Cina il 90%
del petrolio in arrivo dal Golfo e rappresenterebbe una solida ipoteca alla sua
sfida per la frontiera tecnologica (enormemente energy intensive) e logistica.
3- La logistica e mobilità. Droni e cargo autonomi, le nuove
rotte di proiezione commerciale e militare e la lotta intorno ai punti di
controllo; i grandi progetti infrastrutturali rivali, la Belt and Road cinese
(che passa per l’Iran), i canali del “Patto di Abramo” (che passano per Israele),
i porti di destinazione alternativi, le linee ferroviarie strategiche (lungo l’Asia,
come quella, inaugurata pochi giorni prima della guerra del Golfo, che arriva
in Iran partendo dalla Cina); le vie marittime consolidate, come Malacca,
Sueza, lo stretto di Hormuz, Panama.
4- La competizione per l’Artico. Con la lotta per le materie prime
critiche, le “terre rare”, l’uranio, il nichel, il litio, il cobalto, il gas e
petrolio, l’oro e gli altri metalli. I collegamenti artici, che possono far risparmiare
mesi (il passaggio a Nord-Est e quello a Nord-Ovest). La sfida per la sovranità
dei paesi limitrofi e per la banchina, la militarizzazione. L’Artico è il nuovo
Golfo Persico del Ventunesimo secolo: qui si trovano risorse, passaggi e
visibilità satellitare. Il controllo dell’Artico permette accesso alle materie
prime e logistica navale ad alta efficienza, bypassando colli di bottiglia
(Suez, Malacca). È anche un punto d’appoggio per la guerra elettronica e
missilistica del futuro.
5- La competizione per lo spazio. Le piattaforme come Starlink e
Kuiper, le armi orbitali; i satelliti geoposizionali come Galileo, Beidou,
Glonass; il controllo delle telecomunicazioni, e del Gps; la sorveglianza e
intelligence; il C5ISR (Command, Control, Communications, Computers, Combat
Systems, Intelligence, Surveillance, Reconnaissance). Qui agisce la Space Force
americana, ma anche Beidou. Chi controlla lo spazio controlla la comunicazione
globale, la capacità di proiezione di forza, la sicurezza degli scambi
digitali. È la nuova “high ground”, la quota dominante della guerra
informazionale.
Questa
nuova “Piattaforma tecnologica” emergente, che è anche una nuova agenda
delle lotte, insieme ed intrecciata al “fallimento dell’Occidente” che ne fa da
sfondo geopolitico, è fatta da: una radicalizzazione delle tendenze di
connessione ubiqua e potenziamento cognitivo (il cui più evidente esito sarà la
distruzione delle rendite cognitive di ampi strati del ceto ‘medio’ dei
servizi); dal cambio di convenienza tra l’industria (ed i servizi) con lavoro
neo-servile, che ha dominato l’ultimo trentennio, ad una industria ‘core’ senza
lavoro; da capitali che si sono scoperti fragili per effetto delle estreme
conseguenze dello scambio deflattivo esteso al trentennio e per l’esaurimento
degli spazi di manovra dell’economia del debito, in primis negli Usa e che
cercano parossisticamente altre occasioni di impiegarsi; quale conseguenza di
queste dinamiche e nuovo punto di equilibrio una nuova regionalizzazione
competitiva.
Il
punto centrale è che nel passaggio da una “piattaforma tecnologica” all’altra,
ormai non più rinviabile, la vecchia divisione/organizzazione del lavoro che di
spostamento in spostamento è giunta all’oggi dovrà essere rivista. E anche che
questa transizione non sarà pacifica. Come si è visto dalle mosse di apertura,
comporta un esercizio di violenza economica e costrizione politica nella quale
si dovrà vedere alla fine chi prevarrà. Ovvero chi avrà sanguinato meno.
La
direzione verso la quale la dinamica dell’insieme delle arene di confronto e lo
schema competitivo, ma anche le tendenze della tecnica, portano sembrano essere
una progressiva regionalizzazione. Ovvero spazi economici chiusi o
semi-chiusi (ai quali la Cina si oppone, secondo uno schema che si connette con
una diversa cosmologia[28]), diverse sovranità
tecnologiche (ovvero schemi normativi e di standardizzazione, ecosistemi
tecnici, pratiche sociali connesse, abilitazioni e meccanismi di sorveglianza e
controllo), ristrutturazione logistica e controllo militare delle aree
produttive, flussi e ragioni di scambio tra prodotti e servizi a diverso livello
tecnologico.
Non
si può che passare per una lunga fase di confronto e scontro tra desideri,
modelli e volontà di potenza. Ovvero per una Guerra Mondiale a Pezzi.
Alla
fine prevarrà, al tavolo al quale si giungerà ad un accordo finale, chi potrà
mostrare di perdere di meno. Non si tratta, quindi, né solo né principalmente
di una guerra commerciale, ma del completo ridisegno di tutte le relazioni
internazionali. Il problema è giungere a questo, dato che lo status quo non è
sostenibile e aumenta gli squilibri, ma farlo senza cadere nella Trappola di
Tucidide[29].
Le
armi in mano alle due parti sono:
-
per
gli Usa
restringere e annullare il loro ruolo di “acquirente di ultima istanza”, al
contempo creando una contrazione industriale nei paesi esportatori e
danneggiando il ruolo centrale del dollaro, forse sostituendolo con qualcosa di
meno controllabile e ricattabile;
-
per
la Cina utilizzare
le riserve per sfidare la stabilità del debito pubblico americano, ma
soprattutto usare la propria potenza commerciale e produttiva per creare una
dipendenza ed un regime tributario di nuovo tipo, scambiando ricchezza ma
conservando il controllo;
-
Per
gli attori intermedi decidere verso quale economia rivolgere la propria
attenzione prioritaria.
Chiaramente
il passaggio dallo “scambio deflattivo” ad un nuovo sistema economico, che non
necessariamente assomiglierà a quello welfarista (per almeno due essenziali
differenze: la piattaforma tecnologica nella quale si svolge, che non è quella
della rivoluzione industriale; l’assenza della spinta della ricostruzione)
porterà ad un non breve periodo di assestamento dei prezzi, in un clima
inflattivo, inoltre alla perdita di ruolo delle società leader della “economia
immateriale” e della finanza connessa (e ne sono segno le perdite in borsa e
nei listini di questi giorni). Nei paesi esportatori, la Cina in primis, tutto
ciò potrebbe portare ad una contrazione economica e sociale che partirà non
dalle grandi società (altamente meccanizzate), quanto dal tessuto di
microimprese, talvolta familiari, che vivono e lavorano personalizzando piccole
e medie forniture per paesi terzi (in genere del ‘secondo’ mondo, Sudamerica,
Africa, Medio Oriente). E che partirà dalle catene lunghe di fornitura
internazionale che dovranno essere profondamente ristrutturate.
Per
questo è cruciale, ed è il vero obiettivo, costringere un più ampio ecosistema
di paesi a condividere le tariffe, in cambio dell’esenzione. Di fatto questo è
il gioco che si apre nei prossimi anni, l’inserimento in aree di free-trade o a
basse tariffe, dominate dall’uno o l’altro egemone, e quindi l’innalzamento di
barriere di confine tra le aree così definite. Ovviamente, anche ogni genere di
triangolazione, aggiramento, contrabbando, elusione. Si tratta anche del
terreno scelto da Trump per le sue mosse di apertura.
Gli
Stati Uniti rischiano la recessione, la destabilizzazione finanziaria e il
salvataggio della FED al prezzo del crollo dell’egemonia del dollaro; la Cina
rischia la destabilizzazione del consenso interno in strati intermedi di
piccola borghesia, politicamente pericolosi. Entrambi, in caso di perdita di
equilibrio, potrebbero trovare la strada di un’escalation distrattiva. In tal
caso la Trappola di Tucidide si aprirebbe e si potrebbe scivolare verso il
confronto diretto.
Di
qui la diagnosi per la quale vincerà chi sanguinerà di meno. Non già chi
troverà le parole più alte ed ipocrite (gioco nel quale sembra attardata
l’Unione Europea). Vincerà chi avrà la migliore visione, e più pratica, della
situazione e dei diversi interessi e valori operanti, chi avrà più pazienza e
capacità di tessere reciproche relazioni, chi costruirà alleati e non
subalterni rancorosi. In una prospettiva più ampia, o di medio periodo, chi
riuscirà a superare meglio il modello mercatista, fondato sullo sfruttamento
degli squilibri (da parte cinese ad espandere con successo ed ulteriormente il
mercato interno, da parte americana a ristrutturarlo a danno dei servizi e
vantaggio delle filiere produttive interne e relative aree territoriali e
sociali).
Tutto
questo è lo sfondo, per ora tratteggiato in modo sommario, della Guerra
Mondiale a Pezzi, la sua posta in gioco. Nessuno può mettere indietro l’orologio,
dunque la fase unipolare e il dominio assoluto della finanza sono terminati. Al
contempo scivoliamo, e sempre più velocemente, in una nuova “Piattaforma
tecnologica” che avrà con la vecchia una sola cosa in comune: la dipendenza dall’energia.
Vincerà questa competizione, anzi, essenzialmente chi avrà più energia (per alimentare
computer quantistici, data center, IOT, modelli computazionali) e non per caso
si combatte o sulle linee di passaggio dell’energia o intorno ai giacimenti.
Non
per caso si combatte in Iran.
[1]
- Papa Francesco, discorso al sacrario militare di Redipuglia, Friuli Venezia
Giulia, 13 settembre 2014.
[2]
- Per una ricostruzione ampia e documentata del primo decennio, 2008-18, si veda
tra tanti, Adam Tooze, Lo Schianto, Mondadori 2018.
[3]
- Che ha anche altre determinanti, tra le quali la perdita del senso comune
della nazione, dell’etica del lavoro, del concetto di morale sociale vincolante,
la capacità di sacrificarsi per la comunità (le ultime due ben viste nella
crisi del Covid), secondo la lista di Emmanuel Todd in La sconfitta dell’0ccidente,
Fazi 2024, p. 163.
[4]
- Qui mi riferisco soprattutto alla scoperta fragilità delle linee di
approvvigionamento e la devastante crisi economica, contrastata con programmi
di spesa a debito senza precedenti. Cfr. Adam Tooze, L’anno del rinnoceronte
grigio, Feltrinelli 2021 (ed. or.2021)
[5]
- Si veda il classico Soshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza,
Luiss University Press 2019 (ed. or. 2019).
[6]
- Si veda la ricostruzione dei molti tentativi di risolvere la crisi degli anni
Sessanta e Settanta, nel suo farsi, condotte dalle élite americane nella ricostruzione,
passo-passo, di Paul Sweezy e dei suoi coautori riportata in Alessandro
Visalli, Dipendenza, Meltemi 2020.
[7]
- In poche parole, lo scheletro era dato dalla integrale subordinazione del
consumo, messo a centro dell’uomo stesso, alla logica capitalista, negoziando
da una parte produttività e distribuzione in termini reali (in modo da
garantire da riproduzione della forza-lavoro e la stabilità sociale, ovvero la
riproduzione sociale) e dall’altra la gestione politica della moneta
(progressivamente smaterializzata in tutti gli anni Sessanta e Settanta, con
enormi conseguenze sistemiche).
[8]
- Con ciò non si intende dire che la Russia non abbia aggredito l’Ucraina, ma
che questo evento si inserisce in una catena che parte dagli anni Novanta e
accelera negli anni di Biden che rifiuta ogni possibile compromesso, lasciando
al grande paese nucleare a cavallo tra Oriente e Occidente l’unica scelta tra
accettare i missili alla porta di casa o agire. A parti invertite (i missili
russi in Messico) nessuno può dubitare che sarebbe accaduta la medesima cosa.
[9]
- Papa Francesco si trovò ad usare questa espressione nell’intervista al Corriere
della Sera del 3 maggio 20922. La frase esatta è: “Forse l’abbaiare della NATO
alla porta della Russia ha indotto il capo del Cremlino a reagire male e a
scatenare il conflitto. Non so dire se questa provocazione sia stata voluta, ma
forse ha facilitato lo scoppio della guerra.”
[10]
- Leader del Partito Laburista inglese dal 2015 al 2020.
[11]
- Termine chiaramente polisemico, ma che qui si intende spendere per la sua
capacità di organizzare il senso e creare un ordine, sposato dai soggetti che
essa stessa costituisce non per mero interesse bensì per adesione ad un intero
‘mondo’ internamente coerente. L’ordine (ed il ‘mondo’) comprende tecniche,
saperi, culture e ruoli. Ogni operazione consapevolmente egemonica è una sorta
di sfida al mondo come è, definisce dei nemici e si sforza di dissolverne la
coerenza e coesione, combatte certezze, crea idee nuove (spesso rimontate dalle
vecchie). Ogni nuovo assetto egemonico ha i suoi soggetti ed i suoi attori
cruciali, individua dei valori irrinunciabili e dei disvalori da respingere,
include delle tecniche, produce una economia. Creando soggettività si fa carico
di esse, e risponde ai bisogni che fa emergere come decisivi.
[12]
- Howard Zinn, Storia del popolo americano,
[13]
- Che rappresenta la parte populista ed a trazione popolare del movimento di
Trump.
[14]
- Che è passato dalla sua parte poco prima dell’esito elettorale.
[15]
- Primo Ministro inglese
nel 1868 e nel 1874-80, che offrì alle classi lavoratrici organizzate dai
cartisti e dai protosocialisti l’orgoglio di appartenere ad un Impero e il
relativo ‘dividendo’.
[16]
- Per prevenire un’obiezione, non si intende qui che la forma di organizzazione
sociale e funzionamento economico che prende il nome di ‘capitalismo’ (o,
marxianamente, ‘modo di produzione capitalista’) sia nato come Minerva già
armato di elmo, corazza e lancia dalla testa di Giove direttamente quando
Colombo, Amerigo Vespucci e i capitani conquistatori hanno sottomesso i grandi
imperi atzeco e inca. Quel che si genera nel torno di anni tra la ‘scoperta’
dell’America e l’istituirsi di una economia atlantica coloniale è, piuttosto,
una accumulazione originaria per “spoliazione” e una potente economia di
sfruttamento che drena verso l’Occidente, facendolo tale, le risorse di una
parte del mondo che nutriva all’epoca quasi un quinto dell’umanità. E’ la
partenza della modernità.
[17]
- Troppe sono le nostre
dimenticanze selettive, dalle relazioni del mondo greco classico con i maestri
egiziani, e di questi con le civiltà ancora più antiche con le quali
dialogavano e combattevano, alla centralità di Bisanzio, poi dell’impero-mondo
mongolo, la non irrilevante presenza africana, l’impero del Ghana, poi del Mali
e, dal 1468 del Songhai, ad esempio.
[18]
- Il termine è messo in giro nel XVIII secolo e rappresenta la condensazione di
un’idea contemporaneamente semplicissima e straordinariamente sottile: quella
che il fatto di far passare le relazioni umane attraverso il vincolo morbido
dello scambio per puro interesse (il “dolce commercio”) le trasformerà e
civilizzerà. L’uomo stesso diventerà meno ferino, meno orientato a perseguire
motivazioni irrazionali (come “l’onore”), e la società diventerà meno separata
in enclave, in clan in lotta reciproca; sarà meno attraversata da inimicizie
radicali (ad esempio religiose). Ma questa non è l’idea di una condizione
‘naturale’ dell’uomo che si tratta solo di far emergere, contiene il
progetto di una antropologia minimalista. Il progetto di un “uomo
nuovo” che viene prodotto dall’estensione del commercio e
dalla struttura legale e governativa che lo impone. Cfr., ad esempio,
Jean-Claude Michéa, “L’impero del male”, Libri Scheiwiller, 2008 (ed.
or. 2007).
[19]
- Altro termine chiave della costellazione liberale: si tratta del superamento
del mondo tradizionale, con tutte le sue strutture relazionali ed
antropologiche, i sistemi di potere, i vincoli costitutivi, i valori (ad
esempio l’onore, la responsabilità concreta, la reciprocità nel sistema del
dono, l’ordine presunto naturale, …).
[20]
- L’idea di un procedere per “tappe” della “storia” è un’altra tipica idea
illuminista, fattasi strada tra il XVII ed il XVIII secolo, viene articolata
sia nell’ambiente napoletano (Gianbattista Vico, 1668-1744) sia in quello
scozzese (Adam Ferguson, 1723-1816), ovviamente ciò porta a ritenere che l’uomo
proceda, generazione dopo generazione, ad apprendere sempre meglio il proprio
modo di essere nel mondo e quindi progredisca.
[21]
- “Progresso” è probabilmente il termine più inevitabile della costellazione
liberale-moderna. Il concetto è legato ad una duplice radice: da una parte
è un’interpretazione-ricostruzione dell’esperienza storica
della tecnica e della scienza nella fioritura cinque-seicentesca e
nell’estensione sette-ottocentesca, dall’altra è ancora un progetto di
rottura delle relazioni tradizionali e di liberazione delle forze del lavoro e
dell’industria dai vincoli storici. Si tratta di un progetto negativo, che
conosce ciò che non vuole, ma non ciò verso cui tende. Un programma
intrinsecamente “illimitato”, e quindi anche, e necessariamente, in-umano e
carico di hybris. Per questa lettura del liberalesimo come “progetto negativo”,
si può leggere Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, Meltemi,
2020.
[22]
- “Ragione”, rigorosamente al singolare, è quindi il coronamento di questo giro
di concetti e del progetto ad essi connesso. Si tratta dell’idea che si deve
imporre una unica via, perché aderente all’autentica natura umana (o, per
meglio dire, alla natura umana che deve diventare unica).
[23]
- La “Storia” è quindi orientata, ha carattere unitario, conoscibile nel suo
senso, normativamente connotata.
[24]
- Ovvero del set di funzionamenti essenziali, punti di convenienza e vantaggio
per diversi gruppi e ceti sociali determinati da network di tecnologie
convergenti e reciprocamente rafforzanti, quindi dall’insieme di skill favorite
da queste e di know how privilegiati, ma anche da norme sociali e giuridiche
che si affermano nella sfera pubblica e privata, e infine da pacchetti di
incentivi pubblici e privati (entrambe, norme ed incentivi, coinvolti
nell'affermazione del network di tecnologie). Una “Piattaforma Tecnologica”
è, inoltre sempre connessa con un assetto geopolitico che la rende vincente (ed
in ultima analisi possibile).
[25]
- Che tendeva concentrare fisicamente e socialmente expertise e servizi
avanzati rari in “città globali” e territori densi.
[26]
- Quella degli anni Settanta ed Ottanta non fu una crisi economica, ma
l’ingresso, che si è verificato a ben vedere con l’uscita dal modello fordista,
in un assetto tendenzialmente permanente di “stagnazione-contrazione”. Un
assetto, prima di tutto di potere, nel quale è prevalente un circuito di
rafforzamento tra la contrazione della quota lavoro (salari ed occupazione) via
deregolazione e flessibilizzazione, la stagnazione o deflazione dei prezzi
nell’economia “reale” (mentre quelli dell’economia “finanziaria” continuano ad
essere sostenuti ed a crescere), la depressione degli investimenti e la
conseguente continua creazione di “capitale mobile” eccedente, il riciclaggio
di parte di questo in credito/debito funzionale a sostenere i consumi (anche a
fini di consenso). Questo assetto esprime un vero e proprio “nuovo compromesso
sociale” del tutto orientato ai bisogni, alla visione ed agli interessi delle
classi alte della società ed in particolare di quella parte di esse mobile e
liquida. Al contempo la dinamica erode, lentamente e progressivamente, le
condizioni di vita e gli ambienti di insediamento di quote sempre maggiori
della popolazione che non riesce o non vuole essere mobile e liquida. In
conseguenza risucchia le forze attive e determina un colossale spreco di vite e
risorse. Questa circostanza, insieme alla perdita di senso, rende instabili e
pericolose le nostre società e si vede sia in occidente come nelle marche di
confine (ad esempio nel mondo arabo). Un assetto deflattivo come questo
favorisce continui “rimontaggi” e spostamenti, determinati dalla messa in
contatto senza protezioni e filtri di poteri e dinamiche troppo diverse e
sbilanciate. Quello che chiamiamo da anni “globalizzazione” e che innumerevoli
cantori interessati hanno incensato per tutti gli anni Novanta e zero.
Inseguendo un’ideologia che voleva lo sviluppo come intrinsecamente
equilibrante ed in ultima analisi a vantaggio di tutti.
[27]
-
[28]
- Sulla quale dobbiamo rimandare agli interventi su questo blog, “Alcune
questioni circa la Cina, confronto tra universalismi”, Tempofertile, 26
maggio 2025; “Circa
la tecnica: per una fenomenologia politica della relazione”, Tempofertile,
25 maggio 2025.
[29]
- Graham Allison, Destinati alla guerra, Fazi editore 2017


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