A settembre del 1888, un sessantottenne Friedrich
Engels scrive una prefazione ad un’edizione americana del discorso che Karl
Marx, morto ormai da cinque anni, tenne nel 1848, ovvero ben quaranta anni
prima, ad un convegno sul libero scambio tenuto a Bruxelles. Nel 1846 gli
industriali inglesi avevano vinto l’epocale battaglia per l’abrogazione delle
leggi sul grano, e quindi stavano sviluppando una campagna (nella strategica
Bruxelles) per l’apertura del continente alle merci industriali inglesi. Marx,
come racconta Engels, si era iscritto come oratore ma non riuscì a parlare, e
dunque pronunciò il suo discorso un paio di mesi dopo nella più amichevole
“Associazione democratica” della quale era vicepresidente.
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| Friedrich Engels nel 1884 |
Il contesto della ripubblicazione, nel ’88 di questo
discorso è quello del dibattito sulla riapertura del mercato americano al
libero scambio, superando le importanti misure protezionistiche che, dal tempo
di Madison, proteggevano la nascente industria americana. La questione della
protezione o del libero scambio era stata una delle più rilevanti nella
divergenza tra gli stati del sud e quelli del nord, intorno alle diverse
industrie nazionali ed i divergenti interessi commerciali. Nel 1828 lo scontro
che tracimerà nella guerra civile (come raccontiamo, con parziali diversi
intenti, qui)
si esaspera intorno alla Tariff of
abomination, fortemente protezionista e attaccata da Colhoun nel suo “Exposition and protest” (nel quale, per
la prima volta, ventilava la possibilità di abrogare una legge federale se
giudicata non conveniente ed incostituzionale da una Convenzione nazionale),
annunciando i termini del confronto ideologico come la risposta del nord
(Webster denuncerà come tradimento, nel 1830, qualsiasi abrogazione di legge
federale). La questione è dunque di grandissima rilevanza, in America come
altrove.
Engels avvia la prefazione ricordando un passaggio del
Capitale, libro I:
“Il sistema protezionista è stato un espediente per fabbricare i
fabbricanti, per espropriare lavoratori dipendenti, per capitalizzare i mezzi
nazionali di produzione e di sussistenza, per abbreviare con la forza il
trapasso dal modo di produzione antico a quello moderno”.
Qui il contesto è una descrizione storica del
funzionamento della questione dal XVII secolo in avanti per chiunque potesse,
per le sue dimensioni relative, giovarsene. Inghilterra inclusa, come ricorda
Engels, infatti, “è stato sotto l’ala difensiva del protezionismo che,
nell’ultimo terzo del secolo XVIII, sorse e si sviluppò in Inghilterra il
sistema della grande industria moderna, della produzione con macchine a vapore”
(citazione da “Engels. Scritti 1883-1889”,
Ed. Lotta Comunista, 2014, p.399). Ovviamente insieme alle tariffe ci fu la
flotta da guerra, che eliminò i concorrenti sgraditi, estendendo le colonie a
danno di Francia ed Olanda e completando il controllo dell’India, quindi
“trasformando tutti questi paesi in clienti dell’industria inglese”.
Sulla base di questa descrizione di avvio, di grande
importanza per fissare i termini della questione, il controllo, dopo il 1815,
dell’industria inglese sul resto del mondo è dunque garantita dalla
combinazione di protezionismo in patria e libero scambio imposto ai
concorrenti.
Si apparecchia qui la scena per lo scontro
definitorio, ancora oggi, di tante delle idee che dominano il commercio
internazionale, vediamo come Engels la mette:
“Accadde così che le teorie sulla libertà di commercio
dell’economia politica classica – dei fisiocratici francesi e dei loro
successori inglesi, Adam Smith e Ricardo – divennero popolari nel paese di John Bull. I dazi
sulle importazioni erano inutili per gli industriali, che battevano tutti i
loro concorrenti esteri e la cui esistenza dipendeva proprio dal continuo
estendersi delle loro esportazioni. I dazi sulle importazioni erano utili ormai
soltanto per l’agricoltura, per i proprietari di generi alimentari e di altre
materie prime; nell’Inghilterra di quell’epoca, dunque, per coloro che
percepivano la rendita fondiaria, i nobili proprietari terrieri. Questo tipo di
protezione era invece nocivo per gli industriali. Tassando le materie prime,
faceva crescere il prezzo del prodotto industriale confezionato con esse,
tassando i generi alimentari aumentava il prezzo del lavoro; in tutti e due i
casi poneva all’industriale inglese in condizione di svantaggio rispetto al suo
concorrente estero”.
Questi sono i termini sul campo nazionale dello scontro
di interessi intercapitalisti che vede al termine l’affermazione, dopo la
vittoria sui dazi che aveva visto impegnati da una parte David Ricardo e
dall’altra Malthus (intorno alla cosiddetta “legge degli sbocchi” o di Say), dei
liberoscambisti.
Le parole, davvero significative, con le quali Engels descrive
la cosa sono:
“la parola
d’ordine del giorno divenne ormai: libero scambio. Il compito successivo degli
industriali inglesi e dei loro portavoce, gli economisti, era diffondere
ovunque la fede nel vangelo del libero scambio, e creare così un mondo nel
quale l’Inghilterra fosse il grande centro industriale e gli altri paesi
solamente il distretto agricolo dipendente da essa” (P.400).
Dunque, in questa decisiva pagina che ora leggeremo,
all’avvio il “libero scambio” è in effetti denunciato come una parola d’ordine (metafora militare per
indicare amici da nemici) e come fede
quasi religiosa che nasconde un progetto
imperiale.
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| Karl Marx |
Ma Karl Marx, nella conferenza del 1848 si esprime egualmente
a suo favore “in ultima istanza e in
linea di principio”. Che significa “in ultima istanza” e perché “in linea
di principio”?
“In ultima
istanza” perché il libero commercio non è la panacea e in alcuni casi può anche
accrescere i mali della classe operaia (ad esempio dove l’industria è distrutta
dalla concorrenza, evidentemente); ma “in
linea di principio” resta favorevole perché lo giudica come “la condizione
normale della produzione capitalistica moderna”. Per l’attento lettore di
Ricardo, secondo la ricostruzione del suo amico, infatti, “solo quando regna il
libero scambio possono svilupparsi in modo completo le enormi forze produttive
del vapore, dell’elettricità, delle macchine”. Si tratta di un argomento
meramente numerico (quantitativo) che troviamo ancora nei manuali di commercio
internazionale, ma interessa al teorico della rivoluzione perché alla fine:
“quanto più rapido è questo sviluppo,
tanto prima e più completamente si realizzeranno i suoi inevitabili esiti: la
divisione della società in due classi, capitalisti da una parte e lavoratori
salariati dall’altra; ricchezza ereditaria da una parte, povertà ereditaria
dall’altra; eccesso dell’offerta rispetto alla domanda, mercati incapaci di
assorbile la massa sempre crescente di prodotti industriali; un ciclo sempre
ricorrente di prosperità, sovrapproduzione, crisi, panico, stagnazione cronica
e graduale ripresa degli affari; segnale, quest’ultimo, non di un miglioramento
duraturo, ma di una nuova, prossima sovrapproduzione e crisi. In breve,
l’espansione delle forze produttive sociali è tale che le spinge a ribellarsi,
quasi fossero catene intollerabili, alle istituzioni sociali all’interno delle
quali esse sono state messe in movimento. Un’unica soluzione è allora possibile: una trasformazione sociale che
liberi le forze produttive sociali dalle catene di un ordinamento sociale
antiquato e i veri produttori, la grande massa del popolo, dalla schiavitù del
salario”.
Insomma, il libero scambio non è bene, ma alla fine
essendo male porta il bene, dato che le sue conseguenze sono intollerabili.
Come dice Engels di seguito: “E poiché il libero
scambio è l’atmosfera naturale e normale per questa evoluzione storica,
l’ambiente economico nel quale le condizioni di questa inevitabile soluzione
sorgono più rapidamente – per questo, e
soltanto per questo – Marx si dichiarò a favore del libero scambio”.
Il libero scambio è l’ambiente nel quale, insomma, la
povertà dei lavoratori messa di fronte alla immensa ricchezza e concentrazione
del capitale (esaltata dalla competizione), determinerà alla fine più
velocemente le condizioni della rivoluzione. Tanto peggio, tanto meglio.
Di seguito Engels descrive gli anni di espansione inglese
dall’abolizione delle corn law alla crisi del 1866: anni di espansione
monetaria a causa dell’aumentata offerta di oro (miniere californiane e
australiane), rivoluzione dei mezzi di trasporto (navi a vapore, ferrovie) che
quadruplicano in economicità e velocità. Ma ricorda anche le reazioni delle
altre nazioni: la Francia che alza i dazi, al contempo specializzandosi nel
lusso e nel gusto; la Germania, che si industrializza al riparo di dazi
moderati fino alla fine degli anni settanta; gli Stati Uniti che, dopo la
guerra civile che si proteggono con tariffe “madisoniane”.
Queste scelte, ed in particolare quella americana,
sono spiegate con la necessità di proteggere per un certo periodo, fino a che
raggiunge una forza adeguata, l’industria nazionale per farla sviluppare. Al
1888 Engels pensa che gli Stati Uniti ormai ne possano fare a meno. E che
convenga farlo, perché “il protezionismo è, nel migliore dei casi, una vite
senza fine, e non si sa mai quando se ne viene a capo. Quando proteggiamo un’industria,
danneggiamo direttamente o indirettamente tutte le altre, e quindi dobbiamo
proteggere anche loro. Ma in tal modo danneggiamo di nuovo l’industria protetta
per prima e le diamo diritto ad un risarcimento; questo compenso, però, si
ripercuote a sua volta su tutti gli altri settori e giustifica delle nuove
pretese da parte loro … e così via
all’infinito” (p.403).
Inoltre perché il protezionismo crea organizzazioni
dedite alla sua difesa anche quando terminano le sue ragioni pubblicamente
ragionevoli e dunque, “una volta introdotto non è facile liberarsene di nuovo”.
Alla fine Engels è abbastanza chiaramente orientato affettivamente
verso il libero scambio, che qualifica con parole come “aria aperta”, in vece di “atmosfera
protetta”; ma nell’analizzare i meccanismi concreti che in Germania
(diventata protezionista improvvisamente nel 1874 in seguito ad un’alleanza tra
rendita agricola, minacciata dalle importazioni americane, e produzione
industriale, bisognosa di difendersi dal dumping inglese), in Francia
(tradizionalmente protettiva), e in America (anche essa protettiva), spingono
ora per una soluzione, ora per l’altra, lascia anche intravedere dei criteri
razionali:
-
da una parte la
protezione, consentendo di alzare i prezzi interni, spinge verso il basso il
reddito reale dei lavoratori, al contempo creando le condizioni per una maggior
rivendicazione;
-
dall’altra induce
alla formazione di cartelli e accordi di trust. Questo secondo effetto, molto
avanzato in Germania e in avvio in America, mostra in particolare che “il
protezionismo ha fatto il suo tempo”, e dalla funzione tutto sommato
comprensibile di fabbricare gli industriali (e dunque anche gli operai), è
passato a farne troppi, e comincia quindi ad essere “denaro buttato via”.
Dunque i lavoratori devono scegliere il libero
scambio?
Si, e no. Alla fine, come dice, questi sono problemi
di altri, “la questione del libero scambio e del protezionismo su muove
interamente entro i confini del sistema attuale della produzione capitalista e
non ha, perciò, alcun interesse diretto per i socialisti, i quali chiedono
l’abolizione di tale sistema” (p.410).
Si fatica a trovare la parola finale sul tema, l’unico
motivo per il quale sia Marx sia Engels si sono espressi a favore, e che li fa
decidere, è che il libero scambio
accelera la caduta del sistema capitalistico, perché accelera il
dispiegamento “il più libero possibile e un’espansione la più rapida possibile
del presente sistema di produzione”. E ciò perché “insieme ad esso si
svilupperanno le necessarie conseguenze economiche”.
La via “più progressiva” è infatti quella che conduce
più rapidamente al “vicolo cieco” della società interamente pauperizzata, nella
quale “accumulazione e centralizzazione del capitale” procedono di pari passo,
e quindi “alla creazione di una classe operaia che si colloca al di fuori della
società ufficiale”.
Fin qui il testo di Engels del 1888.
Dunque verifichiamo:
-
Che Engels è a
favore del libero scambio,
-
Che anche Marx lo
era, “in ultima analisi”,
-
Che l’argomento
interessa sostanzialmente gli scontri intra-capitalisti (tra rendite e
industria di beni commerciabili) e non direttamente i socialisti (ovvero i
lavoratori),
-
Ma che l’”aria
fresca” del libero scambio, ovvero della piena concorrenza, massimizza lo sviluppo
delle forme produttive industriali, e per questo è “in ultima analisi” di
interesse dei lavoratori per via indiretta (un recente
articolo di Dani Rodrik mette in dubbio questo assunto nelle condizioni dell’attuale
globalizzazione),
-
Comunque che il
meccanismo cieco e impersonale, guidato dall’interesse dietro le spalle degli
agenti, e dalla dinamica automatica del valore, in quanto dispiegarsi della
potenza produttiva è “progressivo”, perché avvicina oggettivamente la
rivoluzione.
Si tratta di un discorso che poggia, direi interamente,
la sua logica sulla convinzione che lo sviluppo delle forze produttive porti al
socialismo. Ovvero, per una paradossale via, alla migliore distribuzione a
vantaggio di tutti.
Senza questa
escatologia, ovvero perdendo l’ancoraggio di una filosofia della storia certa
del processo verso il bene finale (che è molto più di Engels che di Marx),
l’intero argomento viene meno.
Resterebbe quindi la pragmatica posizione di Rodrik: “dobbiamo
ripristinare un sano equilibrio tra un’economia globale aperta e le prerogative
dello stato nazionale” a protezione dei legittimi interessi (inclusi quelli dei
lavoratori) in esso politicamente espressi.
Il libero commercio è comunque anche per il vecchio Engels
effetto del prevalere di alcuni interessi su altri, adatto ad alcune
costellazioni di forze e dannoso per altre, razionale in alcune fasi e dannoso,
per gli interessi complessivi del sistema nazionale in altri. Nomina nel suo
testo questi attori: sono i diversi settori industriali, anche contrapposti, i
trust e monopoli che si formano, i gruppi di pressione intellettuale (gli
economisti) e politici, i lavoratori (impiegati nelle imprese incubate e protette
da una parte, e sfidati nel loro reddito reale dall’incremento dei costi
interni dall’altra parte).
Per questo tiene a chiarire che l’appoggio che accorda
è solo “in ultima istanza”.
Ma questa “ultima istanza” è fondata su una metafisica
che a centoventinove anni di distanza facciamo fatica a condividere.
Né dobbiamo farlo, ogni generazione deve compiere le sue
scelte.


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