Su Sinistrainrete
è stato pubblicato un interessante dibattito a distanza tra Franco Russo, autore di
un articolo dal titolo “L’Unione
Europea nella globalizzazione” e Mimmo Porcaro, che replica con “La
UE e l’Italia dentro la ‘fine’ della globalizzazione”.
Il saggio di Franco Russo cerca di esaminare le
reazioni di organi della Ue, e suoi rappresentanti, alla sbandierata politica
americana all’insediarsi di Trump. La tesi alla quale reagisce è quella
(certamente prematura) che il ciclo della globalizzazione si sia chiuso, e si
stia affacciando una nuova fase di protezionismo e difesa degli interessi nazionali.
Secondo Russo questa idea nasconde in seno quella che il commercio senza
protezioni, il “libero commercio”
(sul quale abbiamo letto la posizione
di Engels nel 1888), sia in sè portatore di pace e relazioni armoniche. Invece
per l’autore, ma evidentemente anche per il “generale” (come era soprannominato
Engels), nel mercato mondiale si svolgono sempre scontri egemonici: il libero
commercio è intrecciato con i poteri imperiali, politici e militari (all’epoca
inglesi) e con la competizione, non meno del protezionismo. Ma per Russo la
particolarità contemporanea è che questa costante competizione, nelle attuali
condizioni, avviene tra “grandi spazi economico-politici”. Ne segue,
logicamente ma non in via espressa, dato che l’articolo di Franco Russo non ha
una vera e propria conclusione, che l’Italia comunque non potrebbe esimersi da
partecipare al vicino “grande spazio” europeo a trazione franco-tedesca, anche
se ne trae pochi vantaggi e notevole subalternità. L’esponente di Rifondazione
Comunista sembra dire che siamo in qualche modo in trappola.
Si tratta di uno snodo cruciale, che infatti, sarà
espressamente attaccato da Porcaro il quale, in effetti, mutando le condizioni,
compie una mossa più vicina a quella del “generale”: la globalizzazione e gli
scontri intercapitale che ne comportano, come anche la hybis imperiale che gli
è connaturata, non riguarda i lavoratori; l’unica cosa che conta è cosa aiuta ad organizzarli. Dal punto di
osservazione del 1888 se ne ricavava l’espansione della capacità produttiva e
dei mercati di sbocco che avrebbe contribuito indirettamente ad aumentare il
saggio di sfruttamento in Inghilterra e con ciò accelerato l’inevitabile
rivoluzione; per l’imprenditore manchesteriano convertito alla rivoluzione questa
era quindi la ragione per accettare “in ultima istanza” il “libero commercio”.
Per Porcaro la ragione di una scelta opposta è ora la possibile creazione di
alleanze internazionali tra paesi disobbedienti (una sorta di versione XXI
secolo della strategia dei “non allineati” durante la guerra fredda), che quindi
in primo luogo devono recuperare la propria autonomia, facendo leva
sull’orgoglio popolare.
Insomma, per dirla con il vecchio linguaggio: all’industrialismo
ed al macchinismo manchesteriano (rovesciato da Engels) si oppone la lotta
antimperialista e anticoloniale (che pure fu frequentata e rivalutata
nell’ultima riflessione dei due filosofi).
Di seguito, nello sviluppare il suo argomento, Russo evoca
un autore di chiarissima marca liberista come Richard Baldwin, autore di un
libro recente sulla “terza
globalizzazione” (“La
grande convergenza”), e lo fa per sostenere che questa mondializzazione è
diversa da quella di Engels. Secondo il nostro, Baldwin sostiene che mentre la
vecchia riguardava “prodotti finiti che attraversavano i confini” (in realtà
era uno scambio dominato politicamente, finanziariamente e militarmente tra
paesi produttori di materie prime, come l’India, e i paesi industriali, in cui
i primi cedevano ob torto collo le loro risorse e compravano i prodotti finiti
di ritorno, spesso grazie al credito), questa “non è semplicemente un settore
ad essere sfidato dalla concorrenza straniera, ma è una singola fase della
produzione, che infatti viene spostata all’estero. A varcare i confini è
il know how non il prodotto”. Questa in parte oscura frase in
realtà poggia originariamente sulla filosofia della storia dell’economista
inglese, che nel suo libro attribuisce alla tecnologia la qualità di essere
motore di un progresso inarrestabile tramite processi di “unbuilding” aventi
carattere intrinsecamente progressista. La globalizzazione in corso per Baldwin
è infatti guidata dalla tecnologia dell’informazione, per cui si può produrre
in un luogo e controllare da un altro, ma nel farlo trasferisce anche know how.
La “terza” invece sarà guidata da una più pronunciata individualizzazione e
messa in contatto che obbliga a maggiore flessibilità, creando il lavoro come
merce indefinitamente scambiabile senza attrito, potenziando il controllo a
distanza sia di uomini da parte di macchine, sia di macchine da parte di
uomini, rendendo alla fine non necessaria la presenza fisica, ma indispensabile
la mediazione dell’infrastruttura del capitale e delle “piattaforme” di
scambio. Avremo alla fine una società del tutto priva di classe media (e qui
sorge la possibilità di una controalleanza egemonica per Porcaro) e fatta da
una parte di rentier ed ereditieri, in possesso delle macchine, delle
piattaforme e delle infrastrutture di comunicazione, dall’altra ‘contenitori di
lavoro’ (astratto) del tutto interscambiabili.
Riportando attraverso una recente conferenza la
proposta di questo autore (che non ricostruisce nella sua interezza), Russo ricorda
che per Baldwin se Trump alza le barriere tariffarie (come probabilmente
vedremo tra breve) rende con ciò anche e soprattutto più costose le merci
americane prodotte all’estero dalle stesse multinazionali a stelle e strisce.
La risposta dovrebbe essere quindi di dividere nuovamente le produzioni,
costruendo in patria per il mercato interno e in Cina per quello cinese (o in
Europa per quello europeo, se questa ne seguisse l’esempio).
Non è chiaro, e l’autore non lo chiarisce, passando
subito ad altro, in che modo questo sarebbe un male (dal punto di Baldwin non è
necessario farlo perché, seguendo un’antica tradizione, consolidata dai
dibattiti tra Ricardo e Malthus, per lui l’interconnessione
è bene in sé). Leggeremo un altro autore liberale, Mevyn King, che
guardando la cosa con occhi agli squilibri finanziari introduce qualche indizio
che può portare ad avere un’altra opinione.
Ma di seguito viene anche presentata una ragione
pragmatica, di completamente altro tenore: è difficile in pratica ottenere
questo risultato, data l’estensione e la complessità delle reti logistiche e di
produzione delle aziende globali (responsabili di due terzi dei flussi di merci
a lunga percorrenza mondiali). A questa obiezione pratica si può rispondere che
non c’è dubbio: la regolazione è sempre difficile, ed è un esercizio continuo
di prova ed errore; la mancanza di regolazione è più facile, basta lasciare che
le cose vadano (anche se ne burrone). Dal 2008, del resto, in particolare USA e
Cina hanno messo mano a 3.500 misure protezionistiche nuove.
Quindi, anche se Trump ha annunciato un programma di
“acceso protezionismo”, per Russo avrà difficoltà ad eseguirlo per effetto
dello “Stato profondo”, ovvero della
voce del capitalismo americano e delle sue istituzioni. Inoltre avrà difficoltà
a evitare le regole imposta dal WTO, al quale “tutti devono sottostare”.
Una delle cose più singolari del pezzo di Russo è
quando cita l’intervista del 4 maggio a “The
Economist” (che avevamo letto qui),
traendone la conclusione che in essa Trump abbia fatto un passo indietro
sull’abolizione del Nafta. In effetti dalla lettura del testo non risulta
affatto ciò, anzi Trump ribadisce con decisione la volontà di riportare in
equilibrio gli scambi con Messico e Canada, ma di aver avviato le procedure
(della cui lentezza si lamenta contestualmente). In altre parole se “dà” sei
mesi è perché così dice il Trattato. Gli USA, racconta il Presidente in tale
occasione, hanno peraltro ben 70 miliardi di deficit commerciale con il
Messico, che vanno “portati a zero” (complessivamente hanno 650 miliardi di
deficit su 2.000 miliardi di importazioni). Nella stessa intervista (famosa per
l’annuncio di “attivare la pompa” keynesiana) annuncia dazi fino al 35% sulle
merci in arrivo. Indiscrezioni direbbero che sono in emanazione dazi medi del
20% verso la Cina (104 Mld di esportazioni da USA e 450 Mld di importazioni)
che potrebbe fruttare fino a 90 Mld all’anno di tassazione al governo Federale
(il gettito federale è circa il 15% del Pil, quindi al 2015 è stimabile in
2.500 mld).
Ci sono anche altre considerazioni in favore della
tesi che la globalizzazione non sia terminata, ad esempio il fatto che il 12
maggio sia stato siglato un accordo commerciale in dieci punti, su base
bilaterale con la Cina, ma non si comprende bene come questo episodio (in
perfetta linea con l’annunciata politica di avviare scambi bilaterali
simmetrici) sia un segno di favor verso il “libero commercio” (che Trump a
parole accetta, a patto di cambiare il senso delle parole). D’altra parte in
questo momento un cacciatorpediniere americano sta andando a sfidare le isole
galleggianti e nell’ultima riunione di gabinetto sarebbero stati decisi dazi. Insomma,
gli episodi sono molti e non vanno tutti nella stessa direzione, se non sono
letti con le giuste lenti.
Certo, gli USA non si isolano dal mondo, né in alcun
modo potrebbero. Una “Nato araba” non cambia la politica americana, ma al
contrario implementa esattamente quella logica di controllo indiretto,
restrizione dei costi di protezione, riaffermazione della priorità
dell’interesse nazionale, che sembra di vedere in Trump (e di cui abbiamo fatto
cenno in “La
grande partita”). La priorità all’interesse nazionale significa anche
evitare il saldarsi della Cina con la Russia, e di entrambe con l’Europa (si
può leggere
Nye su questo), e i Trattati commerciali erano a ciò preordinati (il TTP contro
la Cina e il TTIP contro la Russia, non a caso con molti dubbi tedeschi). Insomma,
la “cool
war” è certamente in corso.
Non è del resto molto chiaro chi, a parte qualche
giornalista particolarmente naif, può aver mai pensato che gli Stati Uniti
potessero, o volessero, isolarsi dal mondo tornando all’inizio del 1800, quando
avevano scelto di crescere all’ombra senza sfidare l’allora egemone impero
inglese. Al contrario è del tutto evidente che se anche la tattica dovesse
spingere verso una riconfigurazione dei rapporti mondiali, commerciali e
politici, sarebbe sempre per
difendere e non per abbandonare l’ambizione egemonica (messa in crisi proprio
dalla mondializzazione e dall’immane deficit commerciale che porta con sé).
Né si comprende in che senso il fatto, questo sì, che
la Cina difenda la globalizzazione (dato il suo squilibrio commerciale e
dipendenza dai capitali esteri, oltre che dalla tenuta del valore delle sue
ingenti riserve) e, d’altra parte, promuova una linea logistica proprietaria e
controllata come la “via della seta” (che al più manifesta la volontà di
crearsi una sua rete imperiale) sia un argomento in favore della permanenza
dell’assetto di squilibri e sfruttamenti nel quale siamo vissuti all’ombra
calante del potere americano negli ultimi trenta anni. La cosa si può leggere
in modo diverso, come aurora di una fase di multilateralismo, nel quale potrà
esserci un’unica mondializzazione solo se il potere del capitale e della
tecnica prevarrà su quello territoriale, liquidando tra le altre cose anche la
democrazia. Leggeremo Parag Khanna che enfatizza con passione il valore di tali
investimenti, sottotraccia in chiave antiamericana ed accettando questa
conclusione (scrivendo, non a caso, lui che è indiano ed è cresciuto negli
emirati, da Singapore).
Sulla base di questi discutibili esempi, per lo più
leggibili in chiave opposta, la conclusione di Russo è che “la globalizzazione
lungi dall’approssimarsi alla sua fine, diviene sempre di più il terreno di
un’aspra competizione economica innanzitutto, che può tuttavia giungere al
confronto militare come nei mari asiatici, e in guerra come nel caso del Medio
Oriente. La globalizzazione non ha istituito spazi aperti per il libero e
pacifico commercio, sono spazi in cui si svolgono competizioni economiche e
conflitti politici, e quando necessari militari. Per essere attori sulla
scena globale occorrono sistemi capitalistici che dominino grandi spazi –
USA, Cina, UE – o siano in possesso di potenti apparati militari come la Russia”.
Ecco dunque il classico argomento in favore della
logica imperiale del progetto Europeo: servono
grandi poteri nazionali, per “essere attori”, ovvero per partecipare alla
competizione capitalistica mondiale, eventualmente militare, sempre politica.
In sostanza secondo questa visione si confrontano
quattro nazionalismi: quello USA, quello Cinese, Russo e quello Europeo. Tra questi
quattro si gioca la partita del dominio del mondo.
Ma c’è un aspetto da considerare: come diceva il
vecchio Engels, “la questione del libero
scambio e del protezionismo su muove interamente entro i confini del sistema
attuale della produzione capitalista e non ha, perciò, alcun interesse diretto
per i socialisti, i quali chiedono l’abolizione di tale sistema”.
Secondo il giudizio di Porcaro: “In realtà nel testo
che esamino si insiste nel dire che il severo confronto tra entità politiche
capitalistiche non è tanto un confronto fra Stati, quanto fra ‘grandi spazi’
(ed è chiaro che qui si suggerisce, per contrasto, che essendo l’Italia per
definizione un ‘piccolo spazio’ ogni progetto di autonomia nazionale le è
precluso). Va però detto che questi ‘grandi spazi’ sono tutti spazi statuali,
dotati per di più di una spiccata identità nazionale: Usa, Russia,
Cina, ecc. . La stessa Unione europea, se vuole contare qualcosa, deve
presentarsi come vero e proprio stato unitario ed inventarsi una qualche ‘identità
nazional-continentale’. E se non dovesse riuscire a farlo ciò avverrebbe a
causa dell’incapacità di una determinata nazione ad esercitare
la necessaria egemonia. Insomma: nation matters, lo dice anche il
meno nazionalista tra noi”.
Concordo con questo giudizio, trovo paradossale che
quando un internazionalista anti-statalista si rivolge a fare il cinico (o il
“realista”, nel gergo geopolitico) finisca per ritornare all’inevitabilità
della politica di potenza statuale. Ovvero all’inevitabilità della logica
imperialista, sia pure attribuendola all’Europa.
È abbastanza facile, quindi, per Porcaro ricordare che
su questo piano, entro i confini della produzione capitalista attuale, un paese
che si staccasse dalla Unione Europea a guida tedesca, avrebbe solo da
scegliere un altro protettore (ovviamente, nell’attuale quadro di scontro
egemonico USA vs Germania e vs Cina, sarebbero gli americani). Parlano in
questa direzione proprio le caratteristiche dematerializzate della piattaforma
produttiva del nuovo capitalismo (di cui Baldwin nella seconda parte del suo
libro), che rendono la vicinanza geografica meno pressante. Anche se “la
questione delle dimensioni ha il suo peso”, in altre parole, ciò non implica
che il vicino debba stare con il vicino.
Ha buon gioco, nel seguito, Porcaro a ricordare che
l’interconnessione non implica il destino di essere irreversibile e progressiva
(che le due guerre mondiali sono lì a dimostrarlo), e che anche
l’esternalizzazione delle catene produttive non è, secondo il desiderio di
Baldwin, irreversibile; tanto che non sono affatto infrequenti i fenomeni di
reshoring (alcuni sotto pressione politica, ma altri spontanei per lo
spostamento dei punti di convenienza industriali).
La questione, insomma, non si risolve facilmente
moltiplicando dubbi esempi, ma richiede una teoria. Engels scelse ai suoi tempi
il “libero mercato” sulla base di una potente euristica, da più parti e versi
oggi problematica: l’inevitabile vittoria
proletaria all’estendersi della forza del capitalismo, per effetto della
meccanica del sistema di produzione industriale. Porcaro invece propone di
guardare allo schema di Arrighi (che abbia visto in “Il
lungo XX secolo” e in “Caos
e governo del mondo”) che vede fasi di “finanziarizzazione” seguire ed
essere precedute da fasi di espansione della logica “territoriale”. Da questa
ottica (che fa leva sul concetto di “ciclo egemonico”) la globalizzazione è un
sintomo di un esaurimento di un ciclo di accumulazione e sta producendo le
contraddizioni che riportano (ancora
per una sovraccumulazione, ma questa volta di capitale liquido, come a suo modo
riconosce anche Mervyn King) al
protagonismo statuale. In particolare emerge la contraddizione tra Stati
specializzati nella creazione di crediti esteri (la Germania e la Cina in
primis) e in deficit commerciale e debitorio (gli stessi USA, che ribilanciano
con il potere di controllo della moneta fino a che dura, e i paesi del sud
Europa, privi di moneta). Con le parole
di Porcaro: “a mio avviso sono questi gli elementi macroeconomici e geopolitici
che devono essere soprattutto considerati quando si valuta il rapporto tra
regolazione ‘economico-politica’ (quella della c.d. globalizzazione) e regolazione
‘politico-economica’ (quella verso cui tendiamo oggi). Se è vero che oggi la
forma dominante del capitale è quella bancario-finanziaria e che la
sopravvivenza di questa (in costante minaccia di crisi di solvibilità) in
ultima istanza dipende direttamente dalle decisioni
politiche degli Stati, ne discende che è l’intreccio tra Stato e capitale
finanziario a dettare la musica, ben più delle dinamiche capitale-merce e del
capitale produttivo. Ed in particolare sono soprattutto i rapporti credito/debito
a dettare, a volte esplicitamente, a volte sottotraccia, la trama delle
relazioni attuali. Da qui nascono le diverse guerre valutarie. Da
qui l’ostilità strutturale degli Usa contro la Cina. Da qui il
conflitto latente Usa/Germania, da qui le difficoltà dei Brics, da qui la
gracilità dell’Unione europea, ecc. .”
Come cade tutto questo discorso, nel quale a mio
parere ha del tutto ragione Mimmo Porcaro, sulla vicenda dell’Unione Europea?
Per Russo la Ue e le sue oligarchie si sono ormai
liberate dal dominio USA, e da “alcuni decenni”, operano in chiave
controegemonica. Addirittura dalla rottura di Nixon nel 1971, quindi dal
Serpente Monetario, poi dallo Sme e quindi dall’Euro, tutte operazioni
costruite non solo per difendersi dalla volatilità, ma proprio contro il
dollaro. E in questa fase cercando di produrre una capacità di difesa in
proprio (operazione appena avviata e del tutto da vedere, per la verità),
inevitabile perché “la UE non può sottrarsi a questi compiti militari se vuole
competere sull’arena globale”.
Viene citato il “Libro
bianco sul futuro dell’Europa” del marzo 2017, nel quale il progetto
imperiale europeo è annunciato senza alcun infingimento. L’autore ricorda il
poco specifico riferimento al peso demografico proporzionalmente calante come
ragione per abbandonare “l’ingenuo” affidamento sul “soft power” in vista di
una capacità militare in grado di difendere “un commercio libero e sempre più
aperto” e di “orientale la globalizzazione in modo che sia vantaggiosa per
tutti”. Insomma, dobbiamo armarci per fare gli interessi di coloro che
bombarderemo, una classica affermazione imperialista in chiave
dell’universalismo europeo.
Stupisce che una frase così grondante non sia
riportata con qualche avvertenza di lettura. Ma forse è ancora il potere
dell’internazionalismo nella linea fossile della vecchia filosofia della
storia, progressista ed industrialista al contempo, del “generale” (ma in lui
comunque ben più complessa a ancora più nel suo vecchio amico).
Quel che mi pare si possa dire da questo discorso, è l’argomento
che la globalizzazione non finirà perché due attori preminenti (Europa e Cina)
vogliono dominarla è curioso a ben vedere. Se due Stati imperiali (il primo
ancora da fare) intendono proiettare potenza (il primo, che non è Stato anche
militare, il secondo, che lo è, solo economica) per costruire una
globalizzazione nell’interesse “di tutti” non per questo se ne può trarre che questa
sopravvivrà alle tensioni degli Stati. Ovvero allo scontro degli opposti
imperialismi.
Qualsiasi, anche rapida lettura dell’immensa
letteratura geopolitica mostrerebbe che queste tensioni a riscrivere le regole
pro-domo propria (dal tempo del “generale”, che però non ci credeva, sempre
affermando che è “per tutti”) sono proprio il motore della propensione a far
esplodere l’egemonia in un multilateralismo foriero di grandi rischi.
In sostanza si può dire, correndo il rischio della
semplificazione, che la globalizzazione è sinonimo di ordine mondiale, e questo
di egemonia di un principio di ordine
gerarchicamente sovraordinato agli altri. O questo è statuale (e abbiamo avuto
le mondializzazioni commerciali delle repubbliche marinare italiane,
intrecciate al capitale finanziario e industriale toscano e milanese; poi quella
spagnola e genovese; quindi quella olandese e poi industriale inglese; infine
quella americana) o è un ordine economico dettato dal capitale (e abbiamo l’ultima
fase dagli anni novanta ad oggi, sempre più turbolenta, segnata dalla battuta
attribuita a Clinton che ad un giornalista che gli chiedeva come ci si sentiva
ad essere l’uomo più potente del mondo rispose di chiederlo alla moglie del
Presidente della Fed che lo aveva sposato), come espressamente propongono dia
Baldwin sia Khanna.
Certo, di seguito Russo ricorda a più riprese il
“cinismo” delle élite europee, che declinano questa logica di potenza
competitiva in direzione della necessità di indebolire il lavoro, renderlo
ancora più flessibile, e smontare i sistemi di welfare universalisti. È questa la
“terza mondializzazione” di cui parla Baldwin nel suo libro, l’era del dominio
astratto ed impersonale del sistema automatico del capitale e della sua tecnica
e di disattivazione della democrazia. Come dice giustamente Russo: “al
lavoratore impaurito e indebitato della Grande Recessione segue il lavoratore
colpevolizzato in quanto unico responsabile della sua disoccupazione,
precarietà, povertà”.
Dunque, in sostanza, grazie anche ad un interessante
richiamo di dichiarazioni di vari attori europei, da Mario Draghi (con la sua
teoria della post-democrazia continuamente reiterata), a Merkel (con il suo
muscolare esibizionismo antiamericano a difesa del sistema finanziario-industriale
suo mandante), l’Unione Europea fa secondo Russo ormai “sul serio” nel
contrapporsi alla declinante egemonia americana.
Porcaro la deve diversamente: il segno di debolezza non
è, come pensano le élite europee nel tentativo di riaddomesticare la
globalizzazione, riportandola nei confini di una logica statuale, ma è in queste
reazioni muscolari europee, mentre nessuno dei problemi strutturali viene
risolto, non la debolezza bancaria, non gli scontri latenti tra Francia e
Germania, non il “regolamento dei conti” con il Sud Europa. Ma certo questa
debolezza mostra anche una volontà del capitale europeo, in tutte le sue
frazioni, di fare quadrato.
La conclusione di Mimmo Porcaro è politica. Secondo
lui “da quanto sopra discende che la questione della nazione non è questione immediatamente
interclassista, che noi dobbiamo obtorto collo fare nostra, ma
è oggi questione immediatamente classista (della nostra
classe) che noi dobbiamo imporre alle classi esitanti”.
Infatti le tensioni che si accumulano inevitabilmente,
sotto la doppia catena del debito e della moneta (che impone alle strutture
economiche e sociali delle periferie interne della UE, in perfetta logica
imperiale, di conservare a qualunque costo un avanzo per ripagare il debito che
la dinamica degli squilibri commerciali cresciuti e alimentati dalla rigidità
della moneta, crea), sono ormai tenute fuori della scena decisionale solo
grazie al meccanismo maggioritario, nel quale una piccola minoranza può
eleggere Macron, se le maggioranze si frammentano e scoraggiano. Questa è la
ragione che impedisce la formazione di “un soggetto popolare capace di rompere
il gioco”.
L’ipotesi di Porcaro, come è noto, è dunque che “la fine (assai probabile anche in Italia) del primo ciclo
del populismo antiunionista di destra (fine che non avverrà senza sussulti e
ripensamenti e che non esclude un secondo ciclo, magari
assai più pericoloso) e la contemporanea crisi verticale del socialismo
europeo, aprono lo spazio non già per una forza ‘di sinistra’, ma per una forza
democratico-costituzionale che sappia unire tutti i
lavoratori, anche facendo appello ad un semplice e sobrio (ma potenzialmente
dirompente) sentimento di appartenenza nazionale, inteso come
richiamo alle lotte popolari che hanno prodotto, difeso e tentato di attuare la
nostra Costituzione”. Una sorta di “patriottismo
costituzionale” di nuovo conio, insomma (si può leggere anche questo testo
di Mac Intyre).
Insomma, la strada è di unificare chi viene danneggiato
inesorabilmente da questa dinamica degli opposti imperialismi, travestita come
sempre da internazionalismo e universalismo, e dalla gerarchia degli interessi
che implica necessariamente, intorno ad un progetto nazionale in forma
“populista”.
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