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sabato 29 luglio 2017

Ben Bernanke, “La Federal Reserve e la crisi finanziaria”


Il Presidente della Federal Reserve durante la crisi del 2008, il prof. Ben Bernanke, scrive nel 2014 questo piccolo libro in occasione di una presentazione agli studenti in quattro lezioni agli studenti della George Washington University a marzo 2012. A quella data era ancora Presidente della FED (entra in carica nel 2006, in sostituzione di uno dei principali responsabili del degrado del sistema finanziario americano, Alan Greenspan, e viene confermato da Obama fino al 2014; prima era il Presidente del Comitato dei Consiglieri Economici di Bush).

Ciò spiega il tono del testo, che è molto prudente, molto difensivo, molto tradizionale: in pratica una sorta di catechismo.



Il racconto procede in modo cronologico, dalla presentazione generale di ruolo e scopo di una Banca Centrale, alla storia della FED e dell’economia americana, alla preparazione della crisi e poi alla sua gestione. L’economista di chiarissimo orientamento repubblicano cita a più riprese, e senza l’ombra di critica, la scuola monetarista e la figura apicale di Milton Friedman; conferma che lo scopo essenziale dell’istituzione è garantire il sistema finanziario, nella convinzione che questo sia il centro del sistema economico generale; e difende a spada tratta l’indipendenza della Banca e l’orientamento essenziale a contenere l’inflazione.
Mentre nel testo di King, che abbiamo letto, il banchiere centrale inglese (in carica dal 2003 al 2013), essendo ormai decaduto, avanza una incisiva critica delle deformazioni del sistema finanziario, volte nei suoi intendimenti a porre sotto controllo la generazione di moneta ‘fittizia’ e la moltiplicazione del debito (critica molto meno serrata di quella di Amato e Fantacci, ma comunque apprezzabile data la fonte e la cultura dell’autore), Bernanke conclude invece che le crisi finanziarie sono inevitabili, come le bolle, e si può solo cercare di fare in modo che il sistema comunque tenga.

Se lo scopo delle Banche Centrali, del resto, è presidiare il meccanismo di accumulazione finanziario, garantendone la stabilità, e solo attraverso questo perseguire anche la “stabilità macroeconomica” (anche questa in sostanza definita attraverso la stabilità dei prezzi), si spiega che le crisi siano inevitabili. Evitarle, come mostrano Fantacci e Amato, e in misura minore King, significherebbe interrompere la festa di molti. Probabilmente richiederebbe di intervenire radicalmente nei meccanismi di base della creazione del valore, e quindi della organizzazione sociale.
Ma se si concepisce il ruolo come custode del proprio ambiente sociale (riletto sottilmente come depositario degli interessi generali) questa strada neppure può entrare nell’orizzonte. Del resto, come detto, Bernanke è ancora in carica quando pronuncia il suo catechismo.


Il testo procede attraverso descrizioni molto tradizionali, nella scuola monetarista, del processo di formazione e circolazione della moneta (p.16) e identifica la minaccia, citato come di rito Bagehot, essenziale solo nella interruzione della fiducia, quindi della liquidità dei titoli, e quindi nel meccanismo psicologico del panico: la classica “fuga agli sportelli”.

Nel descrivere la situazione nella quale si arrivò alla definizione dell’interesse ad avere un “prestatore di ultima istanza” (Bagehot), in sostituzione dei meccanismi di compensazione che il mercato bancario aveva messo a punto di sua iniziativa (ovvero di Morgan), tratteggia anche una franca descrizione dei difetti del Gold Standard, che, creando rigidità nel cambio e ridotta flessibilità nell’offerta di moneta (almeno di quella primaria, bisognerebbe aggiungere), fa sì che le conseguenze delle politiche economiche locali si trasferiscano da un paese all’altro senza potere essere smorzate. Per questo motivo “nel mondo di oggi l’adesione al gold standard implicherebbe la rinuncia definitiva all’uso della politica monetaria per ovviare al problema della disoccupazione, anche se questa salisse a livelli eccessivi” (p.40). E’ un poco quel che succede in Europa, nel combinato dell’assenza di cambi e nella indisponibilità monetaria vista dal punto di ogni singolo stato nazionale: non si può far nulla per la disoccupazione, se non lasciarla operare, sperando che si riequilibri da sé al prezzo di enormi sofferenze. La cosa è talmente evidente che ormai neppure un economista conservatore nel pieno della sua carica può evitare di dirlo.

Dopo la seconda guerra mondiale, e le parziali misure di “disarmo finanziario” decise a Bretton Woods, sotto l’egemonia americana, le Banche Centrali comunque diventano indipendenti (in America, in Europa la cosa procederà in modo molto articolato e accelererà solo dopo gli anni ottanta). Ovvero diventano indipendenti dalla politica democratica, ma certamente non dal loro ambiente sociale di riferimento (nel quale sono formati anche tutti i loro esponenti). Emerge però alla metà degli anni sessanta “il ladro nella notte”: l’inflazione.
Le cause sono diverse, ma per Bernanke sono essenzialmente monetarie (come sosteneva Milton Friedman, p.50) e mostrano la giustezza della profezia dell’economista monetarista circa l’insostenibilità della lotta alla disoccupazione, nel medio periodo. Dunque per lui la politica deve fare un “bagno di umiltà”, ed affidarsi alle capaci mani dei banchieri (centrali), per evitare che “il ladro” rubi il valore del denaro (ai loro protetti). L’umiltà (che deve esercitare la democrazia) si contrappone, in altre parole, alla sapienza dei sacerdoti del capitalismo finanziario.

Il gran sacerdote che è per primo innalzato nel testo è ovviamente Volker. L’eroe che ruppe il meccanismo keynesiano, insieme alla capacità di difesa dei lavoratori, e decimò l’inflazione al prezzo, strettamente necessario, di portare in brevissimo tempo la disoccupazione dal 3% medio del trentennio precedente al 11% nel 1982. Sono quelli che chiama “effetti collaterali molto negativi” (p.54), quando sono evidentemente effetti primari della politica degli alti tassi. La questione era di garantire i profitti finanziari, riducendo l’inflazione che li ostacolava, e contemporaneamente i profitti produttivi, riducendo i salari che dalla cura di Volker in avanti non hanno mai più seguito il passo della crescita della produttività.

Nasce la “grande moderazione”, che è un lungo periodo di bassa inflazione, disoccupazione media, crescita complessiva bassa (e molto squilibrata), sotto Alan Greenspan (dal 1987 al 2006). Bernanke, che ne eredita le conseguenze, la qualifica come “un fenomeno reale e impressionante”. La variabilità nella crescita del Pil cala significativamente (figura 10), ma con essa anche la crescita (mentre il campo di oscillazione andava da +10 a -5, con sei episodi di calo dal 1950 al 1980, dopo va da +5 a 0, con solo tre eccezioni positive di 2,3 punti e due negative di un paio). Ma se il nostro avesse proposto un grafico della composizione del Pil per settore e per gruppo sociale avremmo visto che questa modesta crescita è stata tutta concentrata su pochi settori e ancora meno gruppi sociali.
Ma si sa, un catechismo deve essere semplice.

Dunque prosegue con la conclusione che sia il contenimento dell’inflazione ad essere preferibile in ogni caso, anche al prezzo della disoccupazione, e passa a descrivere la bolla immobiliare come fenomeno “essenzialmente psicologico” (p.61). Ma soffermiamoci: quando si nega che ci sia un trade-off tra inflazione e disoccupazione, dichiarando che la riduzione della prima è un bene per tutti, si fa una scelta specifica della classe sociale alla quale si concede riconoscimento. L’inflazione e la disoccupazione, infatti, non colpiscono nella stessa maniera i diversi gruppi. È chiaro che la prima impedisce le rendite (o le ostacola grandemente), mentre la seconda non colpisce i ceti medi e medio-alti renditieri e produce effetti indiretti sui salari che vanno a vantaggio dei ceti produttivi proprietari dei mezzi di produzione. Dunque dire che non c’è trade-off significa, con altro linguaggio, che solo gli interessi rappresentati dalla bassa inflazione e bassi salari, cioè gli interessi delle diverse forme di profitto, hanno spazio. Per questo è indispensabile che la Banca Centrale sia indipendente (dai rappresentati dei perdenti), e per questo la prima modifica strutturale introdotta nella fase neoliberale è stata questa.

Ma torniamo alla bolla immobiliare: Bernanke dice che sia un fenomeno “psicologico”, ovvero una manifestazione di fiducia esasperata, nel contesto di una crescente liquidità (causata dal risparmio orientale, anche qui una spiegazione tradizionale), e favorita da innovazioni tecniche rischiose. Come sia quando la bolla scoppia (ricordiamo che concluderà che queste sono inevitabili, dunque lo è anche i periodici scoppi), prende la FED di sorpresa.
In effetti la sopravvalutazione dei valori era più che evidente (a tutti), ma quando nel 2006 Bernanke prese la guida dell’Istituto fece fare una valutazione, e i modelli predissero un calo modesto, simile a quello del 2001, al massimo qualche mese di rallentamento. Una palese dimostrazione di incapacità previsionale e totale incomprensione delle ragioni strutturali e tecniche della crisi incipiente.
A pag. 68 Bernanke dichiara quindi, ma senza avvedersene, il totale fallimento della sua disciplina.

Ma anche il fallimento dell’assetto politico della regolazione nelle condizioni della “grande moderazione”. Infatti esplorando le ragioni della vulnerabilità arriva a dire che in effetti nessuna istituzione di regolazione aveva il compito di rilevarle. Insomma: ognuno guardava un piccolo albero e nessuno il bosco.
La deregolazione aveva prodotto i suoi risultati. O, in altre parole, le volpi avevano avuto le chiavi del pollaio e il guardiano era stato messo in pensione.

La FED reagisce, accorgendosi finalmente dei mutui predatori, della debolezza di Freddie e Fannie, delle “triple A” completamente prive di senso, solo quando la liquidità evapora e un’ondata di disinvestimenti si abbatte sul sistema. La cronologia è quella notissima e procede da p.90. La reazione è volta a proteggere, ancora una volta, la liquidità. Cioè a rinviare la chiusura delle posizioni debitorie, anche se insostenibili. Per farlo allenta, con una cruciale decisione tecnica (che sta a più riprese prendendo anche la nostra BCE), i criteri di accettazione dei collaterali. In sostanza accetta titoli dubbi e non liquidi (che nessuno vuole al prezzo indicato), come collaterali a garanzia di aperture di linee di credito (cioè di nuovo denaro creato all’atto della concessione) con modesti “aircut”.

L’obiettivo non è di ridurre la disoccupazione (che anzi fa bene, entro certi limiti), ma “ripristinale l’integrità ed efficacia del sistema finanziario” (p.131).
Per questo viene adoperato il QE (che non è affatto una politica non convenzionale, essendo stata suggerita da Milton Friedman, come ricorda a p.137), che determina un enorme aumento dei conti di riserva (come mostra nella figura 31), ed un corrispondente incremento del bilancio della FED (fig. 32) dopo aver azzerato i tassi senza successo. Ma gli impatti sono stati deboli sui mercati non finanziari (come quello immobiliare), ed anche sulla disoccupazione (che è calata, ma di poco, restando lontana dal valore del 2007, fig. 34).

Nel frattempo è iniziata la crisi europea (ma qui siamo al primo trimestre del 2012, e dunque la tratta solo in pochi cenni, si avvia la problematica greca).

Pochi anni dopo, in una intervista a Martin Wolf, pubblicata sul Financial Times, sarà più coraggioso ed incoraggerà qualche grado di riregolazione e di espansione fiscale.


Ma ora il catechismo finisce qui. 

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