Il Presidente della Federal Reserve durante la crisi del
2008, il prof. Ben Bernanke, scrive nel 2014 questo piccolo libro in occasione di una presentazione agli
studenti in quattro lezioni agli studenti della George Washington University a marzo 2012. A quella data era ancora
Presidente della FED (entra in carica nel 2006, in sostituzione di uno dei
principali responsabili del degrado del sistema finanziario americano, Alan
Greenspan, e viene confermato da Obama fino al 2014; prima era il Presidente
del Comitato dei Consiglieri Economici di Bush).
Ciò spiega il tono del testo, che è molto prudente,
molto difensivo, molto tradizionale: in pratica
una sorta di catechismo.
Il racconto procede in modo cronologico, dalla
presentazione generale di ruolo e scopo di una Banca Centrale, alla storia
della FED e dell’economia americana, alla preparazione della crisi e poi alla
sua gestione. L’economista di chiarissimo orientamento repubblicano cita a più
riprese, e senza l’ombra di critica, la scuola monetarista e la figura apicale
di Milton Friedman; conferma che lo scopo essenziale dell’istituzione è
garantire il sistema finanziario, nella convinzione che questo sia il centro
del sistema economico generale; e difende a spada tratta l’indipendenza della
Banca e l’orientamento essenziale a contenere l’inflazione.
Mentre nel testo di King, che abbiamo
letto, il banchiere centrale inglese (in carica dal 2003 al 2013), essendo
ormai decaduto, avanza una incisiva critica delle deformazioni del sistema
finanziario, volte nei suoi intendimenti a porre sotto controllo la generazione
di moneta ‘fittizia’ e la moltiplicazione del debito (critica molto meno
serrata di quella
di Amato e Fantacci, ma comunque apprezzabile data la fonte e la cultura dell’autore),
Bernanke conclude invece che le crisi finanziarie sono inevitabili, come le
bolle, e si può solo cercare di fare in modo che il sistema comunque tenga.
Se lo scopo delle Banche Centrali, del resto, è
presidiare il meccanismo di accumulazione finanziario, garantendone la
stabilità, e solo attraverso questo perseguire anche la “stabilità macroeconomica”
(anche questa in sostanza definita attraverso la stabilità dei prezzi), si
spiega che le crisi siano inevitabili. Evitarle, come mostrano Fantacci e
Amato, e in misura minore King, significherebbe interrompere la festa di molti.
Probabilmente richiederebbe di intervenire radicalmente nei meccanismi di base
della creazione del valore, e quindi della organizzazione sociale.
Ma se si concepisce il ruolo come custode del proprio
ambiente sociale (riletto sottilmente come depositario degli interessi
generali) questa strada neppure può entrare nell’orizzonte. Del resto, come
detto, Bernanke è ancora in carica quando pronuncia il suo catechismo.
Il testo procede attraverso descrizioni molto
tradizionali, nella scuola monetarista, del processo di formazione e
circolazione della moneta (p.16) e identifica la minaccia, citato come di rito
Bagehot, essenziale solo nella interruzione della fiducia, quindi della
liquidità dei titoli, e quindi nel meccanismo psicologico del panico: la classica
“fuga agli sportelli”.
Nel descrivere la situazione nella quale si arrivò
alla definizione dell’interesse ad avere un “prestatore di ultima istanza”
(Bagehot), in sostituzione dei meccanismi di compensazione che il mercato
bancario aveva messo a punto di sua iniziativa (ovvero di Morgan), tratteggia anche
una franca descrizione dei difetti del Gold Standard, che, creando rigidità nel
cambio e ridotta flessibilità nell’offerta di moneta (almeno di quella
primaria, bisognerebbe aggiungere), fa sì che le conseguenze delle politiche
economiche locali si trasferiscano da un paese all’altro senza potere essere
smorzate. Per questo motivo “nel mondo di oggi l’adesione al gold standard
implicherebbe la rinuncia definitiva all’uso della politica monetaria per
ovviare al problema della disoccupazione, anche se questa salisse a livelli
eccessivi” (p.40). E’ un poco quel che succede in Europa, nel combinato dell’assenza
di cambi e nella indisponibilità monetaria vista dal punto di ogni singolo
stato nazionale: non si può far nulla per la disoccupazione, se non lasciarla
operare, sperando che si riequilibri da sé al prezzo di enormi sofferenze. La cosa
è talmente evidente che ormai neppure un economista conservatore nel pieno
della sua carica può evitare di dirlo.
Dopo la seconda guerra mondiale, e le parziali misure
di “disarmo finanziario” decise a Bretton Woods, sotto l’egemonia americana, le
Banche Centrali comunque diventano indipendenti (in America, in Europa la cosa
procederà in modo molto articolato e accelererà solo dopo gli anni ottanta).
Ovvero diventano indipendenti dalla politica democratica, ma certamente non dal
loro ambiente sociale di riferimento (nel quale sono formati anche tutti i loro
esponenti). Emerge però alla metà degli anni sessanta “il ladro nella notte”: l’inflazione.
Le cause sono diverse, ma per Bernanke sono essenzialmente
monetarie (come sosteneva Milton Friedman, p.50) e mostrano la giustezza della
profezia dell’economista monetarista circa l’insostenibilità della lotta alla
disoccupazione, nel medio periodo. Dunque per lui la politica deve fare un “bagno
di umiltà”, ed affidarsi alle capaci mani dei banchieri (centrali), per evitare
che “il ladro” rubi il valore del denaro (ai loro protetti). L’umiltà (che deve
esercitare la democrazia) si contrappone, in altre parole, alla sapienza dei
sacerdoti del capitalismo finanziario.
Il gran sacerdote che è per primo innalzato nel testo
è ovviamente Volker. L’eroe che ruppe il meccanismo keynesiano, insieme alla
capacità di difesa dei lavoratori, e decimò l’inflazione al prezzo,
strettamente necessario, di portare in brevissimo tempo la disoccupazione dal
3% medio del trentennio precedente al 11% nel 1982. Sono quelli che chiama “effetti
collaterali molto negativi” (p.54), quando sono evidentemente effetti primari
della politica degli alti tassi. La questione era di garantire i profitti
finanziari, riducendo l’inflazione che li ostacolava, e contemporaneamente i
profitti produttivi, riducendo i salari che dalla cura di Volker in avanti non
hanno mai più seguito il passo della crescita della produttività.
Nasce la “grande
moderazione”, che è un lungo periodo
di bassa inflazione, disoccupazione media, crescita complessiva bassa (e molto
squilibrata), sotto Alan Greenspan (dal 1987 al 2006). Bernanke, che ne eredita
le conseguenze, la qualifica come “un fenomeno reale e impressionante”. La variabilità
nella crescita del Pil cala significativamente (figura 10), ma con essa anche
la crescita (mentre il campo di oscillazione andava da +10 a -5, con sei
episodi di calo dal 1950 al 1980, dopo va da +5 a 0, con solo tre eccezioni
positive di 2,3 punti e due negative di un paio). Ma se il nostro avesse
proposto un grafico della composizione del Pil per settore e per gruppo sociale
avremmo visto che questa modesta crescita è stata tutta concentrata su pochi
settori e ancora meno gruppi sociali.
Ma si sa, un
catechismo deve essere semplice.
Dunque prosegue con la conclusione che sia il
contenimento dell’inflazione ad essere preferibile in ogni caso, anche al
prezzo della disoccupazione, e passa a descrivere la bolla immobiliare come
fenomeno “essenzialmente psicologico” (p.61). Ma soffermiamoci: quando si nega
che ci sia un trade-off tra inflazione e disoccupazione, dichiarando che la
riduzione della prima è un bene per tutti, si fa una scelta specifica della
classe sociale alla quale si concede riconoscimento. L’inflazione e la
disoccupazione, infatti, non colpiscono nella stessa maniera i diversi gruppi. È
chiaro che la prima impedisce le rendite (o le ostacola grandemente), mentre la
seconda non colpisce i ceti medi e medio-alti renditieri e produce effetti
indiretti sui salari che vanno a vantaggio dei ceti produttivi proprietari dei
mezzi di produzione. Dunque dire che non c’è trade-off significa, con altro
linguaggio, che solo gli interessi rappresentati dalla bassa inflazione e bassi
salari, cioè gli interessi delle diverse forme di profitto, hanno spazio. Per questo
è indispensabile che la Banca Centrale sia indipendente (dai rappresentati dei
perdenti), e per questo la prima modifica strutturale introdotta nella fase
neoliberale è stata questa.
Ma torniamo alla bolla immobiliare: Bernanke dice che
sia un fenomeno “psicologico”, ovvero una manifestazione di fiducia esasperata,
nel contesto di una crescente liquidità (causata dal risparmio orientale, anche
qui una spiegazione tradizionale), e favorita da innovazioni tecniche
rischiose. Come sia quando la bolla scoppia (ricordiamo che concluderà che
queste sono inevitabili, dunque lo è anche i periodici scoppi), prende la FED
di sorpresa.
In effetti la sopravvalutazione dei valori era più che
evidente (a tutti), ma quando nel 2006 Bernanke prese la guida dell’Istituto
fece fare una valutazione, e i modelli predissero un calo modesto, simile a
quello del 2001, al massimo qualche mese di rallentamento. Una palese
dimostrazione di incapacità previsionale e totale incomprensione delle ragioni
strutturali e tecniche della crisi incipiente.
A pag. 68 Bernanke dichiara quindi, ma senza
avvedersene, il totale fallimento della sua disciplina.
Ma anche il fallimento dell’assetto politico della
regolazione nelle condizioni della “grande moderazione”. Infatti esplorando le
ragioni della vulnerabilità arriva a dire che in effetti nessuna istituzione di
regolazione aveva il compito di rilevarle. Insomma: ognuno guardava un piccolo
albero e nessuno il bosco.
La deregolazione aveva prodotto i suoi risultati. O,
in altre parole, le volpi avevano avuto le chiavi del pollaio e il guardiano
era stato messo in pensione.
La FED reagisce, accorgendosi finalmente dei mutui
predatori, della debolezza di Freddie e Fannie, delle “triple A” completamente
prive di senso, solo quando la liquidità evapora e un’ondata di disinvestimenti
si abbatte sul sistema. La cronologia è quella notissima e procede da p.90. La
reazione è volta a proteggere, ancora una volta, la liquidità. Cioè a rinviare
la chiusura delle posizioni debitorie, anche se insostenibili. Per farlo
allenta, con una cruciale decisione tecnica (che sta a più riprese prendendo
anche la nostra BCE), i criteri di accettazione dei collaterali. In sostanza
accetta titoli dubbi e non liquidi (che nessuno vuole al prezzo indicato), come
collaterali a garanzia di aperture di linee di credito (cioè di nuovo denaro
creato all’atto della concessione) con modesti “aircut”.
L’obiettivo non è di ridurre la disoccupazione (che
anzi fa bene, entro certi limiti), ma “ripristinale l’integrità ed efficacia
del sistema finanziario” (p.131).
Per questo viene adoperato il QE (che non è affatto
una politica non convenzionale, essendo stata suggerita da Milton Friedman, come
ricorda a p.137), che determina un enorme aumento dei conti di riserva (come
mostra nella figura 31), ed un corrispondente incremento del bilancio della FED
(fig. 32) dopo aver azzerato i tassi senza successo. Ma gli impatti sono stati
deboli sui mercati non finanziari (come quello immobiliare), ed anche sulla
disoccupazione (che è calata, ma di poco, restando lontana dal valore del 2007,
fig. 34).
Nel frattempo è iniziata la crisi europea (ma qui
siamo al primo trimestre del 2012, e dunque la tratta solo in pochi cenni, si
avvia la problematica greca).
Pochi anni dopo, in una intervista
a Martin Wolf, pubblicata sul Financial Times, sarà più coraggioso ed
incoraggerà qualche grado di riregolazione e di espansione fiscale.
Ma ora il catechismo finisce qui.
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