Robert Kurz è
stato un filosofo ed editore della rivista di critica marxista “Exit”, scomparso nel 2012, in questo testo, tradotto in italiano la piccola casa
editrice radicale Bepress raccoglie alcuni
saggi dell’autore che si collocano nell’ultimo biennio di lavoro. Cioè diversi
anni dopo la spaccatura con il resto del “Gruppo
Krisis”, ed in particolare con Ernst Lohoff e Norbert Trenkle, che abbiamo
già letto in “Terremoto
nel mercato mondiale”.
Abbiamo letto la critica della propensione alla
liquidità ed il rapporto con il tempo nella bella ricostruzione della finanza e
delle sue aporie compiuta da Amato e Fantacci in “Fine
della finanza” (che sono autori di scuola keynesiana e non marxisti). La questione
si può riassumere nella messa a valore e scambio del tempo, e nello sforzo
costante di neutralizzare l’incertezza, contro ogni evidenza e contro ogni
ragionevolezza. Persino un economista neoclassico, già Governatore della Banca
d’Inghilterra negli anni della crisi, Mervyn King, ammette in “La
fine dell’alchimia”, quando cade dalla carica, che così non è possibile
andare avanti; che quindi i continui rinvii dovranno essere sostituiti da
qualche forma di razionalizzazione che sottragga al denaro parte della sua
funzione di riserva di valore. Nei suoi termini, cioè, che riporti sotto
controllo la tendenza sistemica di accumulare valore ‘fittizio’, ovvero fragile
e fondato essenzialmente sull’attesa di valorizzazione futura, attualizzato
tramite complesse tecniche e dense strutture sociali radicate in luoghi
dominanti. Algoritmi di valutazione, società specializzate e saperi esperti,
sistemi di certificazione fondati sulla fiducia dei pari, sono il centro
produttivo di questa circolazione di valore in ultima analisi autoreferente.
È interessante notare che lo stesso tipo di
funzionario del capitale finanziario, Ben Bernanke, pochi anni prima si
eserciti in una recitazione del catechismo nel 2012 (“La
FED e la crisi finanziaria”), mentre nel 2015, lasciato l’incarico, ammette
con Martin Wolf che il sistema finanziario va “represso” e la spesa fiscale
espansa, nel contesto di una ripresa dei diritti della regolazione locale. E’
davvero poco, ma mostra, a chi non se ne fosse accorto, la pressione che il
sistema sociale e degli interessi vivi dell’autovalorizzazione del capitale,
quale che sia la sua forma, esercita sui sacerdoti preposti alla gestione della
magia della creazione di valore (ovvero di potere). Si tratta di un controllo
inaggirabile, solo al margine si può prendere parola; chi è nel vortice deve
danzare il sabba della liquidità. Sarà quel che Kurz chiama, il “soggetto
automatico”.
Chi è più al
margine di un intellettuale marxista?
Può essere interessante osservare il suo punto di vista, ed anche le differenze
tra la sua posizione e quella del suo ex compagno di ricerca Lohoff, di cui
leggeremo anche “Crisi: nella discaricadel capitale”, del 2012. Ma torniamo un attimo ai due professori della
Bocconi, Amato e Fantacci: in qualche modo, come acutamente dice Mikez 73 in un
commento al post,
per loro la merce di cui si occupa la finanza, ovvero ciò di cui fa merce
inserendolo in una circolazione, è il
tempo. La stessa cosa, in termini meno critici, è proposta da Mervyn King.
Con il tempo si fa merce del rapporto di soggezione che si istituisce tra
debitore e creditore; rapporto enormemente ambiguo e problematico e che
richiederebbe al termine di “fare pace” (ovvero pagare). Ma un sistema che fa
valore con il debito, ovvero in altri termini che fa valore con la soggezione, non può fare pace; perché la pace
distrugge un valore che è insieme ‘fittizio’ e concretissimo.
Questo valore esiste fino a che circola (ovvero nei
termini di Fantacci e Amato “è liquido”), e si dissolve -precipitando nelle ‘crisi’
che Bernanke nel 2012 giudicava inevitabili – non appena la sua fragilità
intrinseca si manifesta e la fiducia evapora (ovvero si scopre “illiquido”).
Questo è dunque il centro della preoccupazione dei sacerdoti del capitale:
conservare liquido il sistema. Liquido significa conservare in piedi la
piramide dei debiti, la gerarchia delle soggezioni (che coinvolge persone,
società, nazioni), l’acquartieramento nei nodi sistemici del ‘valore’; consentirne
l’accumulazione in sicurezza.
Lohoff, per dare conto di questi fenomeni, che hanno
una loro materiale e concretissima forza, pur nella costante fragilità, arriva
a parlare di “merce del secondo ordine”,
in qualche modo allontanandosi da una visione ingenua del “fittizio” come non
autentico, in quanto non connesso direttamente con la produzione di beni. Questo
spostamento si dà dall’osservazione delle dinamiche della crisi del 2008 e dei
circuiti imperscrutabili (su cui tutti i libri citati si dilungano) di
creazione di valore, moltiplicato da occasioni e flussi di debito, in un
movimento progressivamente espansivo che è in senso reale un processo di
produzione (nel vecchio libro della Sassen del 1991, “Città
globali”, il reimpacchettamento è definito nei termini della vera
produzione che i network densi di imprese specializzate, professionalità rare,
capacità ed accumulazioni, concentrati nei luoghi centrali mondiali,
garantiscono). È necessaria a questa peculiare “fabbrica”, sia la materia prima
dell’economia ‘reale’
(a partire dalla quale costruire i suoi pacchetti di valore), sia la garanzia
della circolazione e quindi la conservazione della liquidità. Ma è nella
circolazione, fino a che dura, che i meccanismi estrattivi di questa finanza
traggono la forza per produrre la magia della creazione di denaro in uno con la
sua accumulazione. È intrinseco (come vede la stessa Sassen nel suo ultimo
libro, il più critico), a questo meccanismo che chiamiamo ‘fittizio’ solo
per mancanza di fantasia, la costruzione di legami. Ovvero la costruzione di
debiti impiramidati che consentono di creare ordine nella gerarchia.
Tutto questo ha molto a che fare, e non potrebbe
essere altrimenti, con la struttura del potere nella gerarchia imperiale (o
quasi) che si è costantemente trasformata nel dopoguerra nella dinamica
competitiva tra centri d’ordine, poi slittata su scala sempre maggiore e
tracimata, dopo la dissoluzione del contropotere sovietico su scala mondiale. Ovvero
ha molto a che fare con il ciclo di letture aperto da “la
grande partita” e che è in debito ancora di molte puntate.
Robert Kurz |
Ma andiamo ora a
Robert Kurz: il fenomeno da cui
parte è la rivoluzione neoliberale e la divaricazione di politiche di emergenza
tra USA e Europa a guida tedesca; espandere la liquidità e i bilanci delle
istituzioni pubbliche o restringere il credito, inasprendo la condizione dei
debitori nella illusoria speranza di salvare i creditori (che sono invece
sempre solo l’altra faccia di un rapporto che presuppone la vita di entrambi). L’austerità
draconiana è sempre stata dissimmetrica, alcuni devono stringere la cinghia, ma
nel centro del sistema (abbiamo visto il “catechismo”
di Bernanke) la liquidità deve essere garantita a qualsiasi costo. Nella periferia
la mancanza di liquidità, tutta attratta al centro, determina un essiccamento
degli investimenti e la ricerca della protezione dei margini esclusivamente sul
versante dei costi, cioè della quota rilasciata ai fattori produttivi. Ciò porta
una tendenza irresistibile di deflazione dei salari e dei prezzi dei prodotti
intermedi, che si propaga ad amplissimi settori della domanda, allargando onde
di ulteriore disinvestimento, deflazione, indebolimento.
Il fenomeno è parzialmente nascosto, bisogna notare,
dalla simmetrica inflazione dei valori finanziari, e dalla crescita dei redditi
e patrimoni dei relativi operatori, diretti ed indiretti. La società e l’economia,
insomma, si polarizzano.
Per come la mette Kurz: “chi vuole salvare il sistema
finanziario non ha altra scelta che lasciar deperire la domanda, e chi vuol salvare
la domanda si vede costretto a rovinare il sistema finanziario” (p.9).
La critica di Kurz ripercorre la dinamica strutturale
dell’accumulazione, la dipendenza della crescita cinese, grande speranza di
molti, dal riciclaggio avanti-indietro degli squilibri gemelli commerciali e
finanziari tra i paesi in deficit (per i primi gli USA e per i secondi appunto
i paesi ‘risparmiatori’ ed in surplus commerciale, dunque prestatori). Scrivendo
prima del 2012 il filosofo tedesco vede l’arresto di questa ‘pompa’ e la
stimolazione imponente della domanda da parte dei programmi pubblici in Cina e
investimenti potenzialmente rovinosi (leggeremo il libro di Prem Shankar Yha “Quando la tigre incontra il dragone”, che è
del 2010, nel quale questo meccanismo è ben spiegato). Vede anche il potenziale
inflazionistico di una stimolazione che in occidente procede solo da parte dell’area
monetaria, ed è rivolta solo a garantire la liquidità e tenuta dei titoli
finanziari. Qui non sembra di rintracciare una distinzione sufficiente tra i
circuiti di valorizzazione (ad esempio utilizzando la teoria dei “due prezzi”
di Minsky, ripresa da Keynes) e l’evidenza che l’inflazione si dà,
effettivamente, ma solo su alcuni sottosistemi di prezzi e beni, senza
propagarsi all’insieme dei prezzi, che anzi vanno tendenzialmente nella
direzione opposta. Guardare, come Minsky, all’economia capitalista come un set
di bilanci interconnessi (che intrecciano debiti e crediti, ovvero promesse ed
impegni di pagamento, quindi strutture temporali) e non come un sistema di
scambio di merci, o tanto meno come sistema di produzione primario e distribuzione
secondaria con la finanza come ancella in fondo neutra, aiuterebbe a fare i
conti con le implicazioni inconsapevoli del definire ‘fittizio’ il denaro
finanziario. Ma questo passo, altamente complesso ma in qualche modo
rintracciabile anche in alcuni momenti della scrittura più tarda di Marx, viene
compiuto, dopo il 2012, come detto per lo più da Lohoff.
Kurz parla comunque di assenza di “accumulazione reale”
e di “accumulazione virtuale”, connessa alle bolle (significativamente
qualificate come “inevitabili” da Bernanke, come abbiamo visto). E la qualifica
come “sana”, dunque propone di considerare che essa sia sostanzialmente prorogata
artificialmente, non essendo reale, “attraverso precari programmi di
simulazione”.
L’autore vede la complessa dinamica nell’intreccio tra
forme di capitale e relativi meccanismi di produzione come dinamica fittizia di
anticipazione di produzioni di valore future, che per loro natura sono incerte
ed eventuali. L’attualizzazione (come conferma King) del valore prodotto nel
futuro, fonda effettivamente il prezzo che oggi viene riconosciuto ai prodotti
altamente sofisticati delle macchine finanziarie interconnesse e che è in buona
sostanza promessa di liquidità permanente. Una promessa che solo ben costruite
macchine statuali (nascoste sotto il velo della ‘indipendenza’) possono
adempiere fino alla prossima crisi. Con il suo linguaggio, il fatto è che “il
capitale deve ricorrere sempre più all’anticipazione del plusvalore futuro per
mantenere in funzione la produzione del plusvalore attuale” (p.19).
È chiaro che questa analisi, che fa uso della consapevole
astrazione insegnata da Marx, vede il declino della classe operaia, e lo
spostamento del plusvalore dalla produzione all’anticipazione di produzione
(dunque il carattere strutturale e ‘produttivo’ delle bolle finanziarie), solo come
rovescio di una crisi “sostanziale” del meccanismo di valorizzazione del
capitale.
La resistenza dunque necessita della riduzione della
concorrenza universale, e della dichiarazione che ci sono interessi vitali non
negoziabili ed “irresponsabili”. Necessita di rompere “l’interiorizzazione
delle forme di vita capitalistiche attraverso la forma merce della forza
lavoro, del lavoro astratto, della logica della valorizzazione e della forma
merce della riproduzione” (p.24).
Nel resto del libro Kurz propone la sua teoria del “doppio Marx”, nella lettura dell’ampio e
disomogeneo corpus dell’autore di Treviri rintraccia, infatti, un “Marx essoterico”,
quello del Marxismo, che individua al fine il movimento automatico del capitale
come agente di modernizzazione, e rifiuta di assumere il tragico fatto che la ‘civiltà
del denaro’ è una contraddizione in sé, in quanto predominio delle cose morte
sulla vita, dell’affrancarsi certo dai vincoli e dalle “strettezze” dell’uomo tradizionale,
della gerarchia degli ordini, e dal cosmo chiuso, ma solo al prezzo di essere
reso soggetto astratto ed in lotta permanente, fondandosi su una paradossale socializzazione
non socievole che è un “potenziale di barbarie” (sarà da leggere anche “Ragione sanguinaria”, del 2004). La “necessità
storica” interviene nell’illuminista radicale ad interrompere questa tirata.
Ma c’è anche un ‘altro Marx’, quello “esoterico”, che evita
sia di ricadere nella trasfigurazione romantica delle società precapitaliste (nelle
quali noi saremmo rapidamente bruciati sui roghi come eretici e apostati, in
primo luogo politicamente), sia di arrestare la critica. Il capitolo del
capitale ‘sull’accumulazione originaria’ (che è da leggere come exempla, e
comprendere nell’ordine logico, non in quello temporale, ovvero si dà sempre
entro il ciclo di accumulazione) è un buon esempio. La barbarie si fa
strutturale, ed è riprodotta costantemente “dalla concorrenza cieca dei mercati
e dalla razionalità della gestione d’impresa”, ed è in effetti solo la
conseguenza ultima della ubiquità dei rischi e dei legami che si creano nella
lotta concorrenziale universale e permanente.
Una dottrina dunque “contraddittoria” (p.52); che ha a
che fare contemporaneamente con lo statalismo autoritario (p.40), e con
concezioni razionaliste, deterministe, del progresso, e con un “altro Marx” che
invece coinvolge nella critica il feticismo della società, il lavoro astratto, il
sistema repressivo della produzione di merci, e vede la natura storica del
sistema, intravedendo il capitalismo come forma religiosa (si può leggere anche
il meraviglioso frammento di Walter Benjamin “Il
capitalismo come religione”). La critica qui si deve estendere alla
radicale insufficienza della libertà borghese in assenza di mezzi per essere
davvero “libero”. Una svolta che si compie intorno alla Comune
di Parigi.
L’autoritarismo dello stato è dunque solo una faccia che
non può essere superata ricadendo nell’autoritarismo del mercato, tanto più
sottile ma anche più ferreo.
In altre parole la questione per Kurz non è di “plusvalore
non pagato” o di appropriarsi del potere giuridico di disporre della proprietà
privata (strada che ha portato allo statalismo novecentesco), ma di ridefinire
la “forma sociale del valore stesso”, ed il suo feticismo che mette in
concorrenza tra di loro tutte le classi e gli individui entro esse.
La “forma sociale del valore” si costituisce, senza
che nessuno la progetti, come struttura senza soggetto con l’immenso potere di
agire “dietro le spalle” di tutti gli uomini, sottomettendoli ad un processo di
trasformazione dell’energia umana in
denaro. Ovvero in una oggettivazione dei rapporti di dominazione che si
nutrono delle vite che incapsulano. Che di fatto le identificano.
Il capitale, così letto, non è appropriabile. Non è
questione di possedere i mezzi di produzione, perché la vera produzione è di
rapporti sociali e quindi forme dell’umano, oggettivati nel rapporto con il
denaro come dominus totale. O meglio del denaro come traduttore e condensazione
in uno della dominazione, che coinvolge insieme “possessore” e “posseduto”,
creditore e debitore, accumuli e decumuli.
Lo spunto di Kurz, è a questo punto logico, anche se in
un certo senso schematico: “per superare questo rapporto assurdo e mettere fine
al feticismo moderno, non ci si può perciò accontentare di perpetuare le lotte
di interesse immanenti al sistema. Quel che bisogna fare, al contrario è in
definitiva una rottura cosciente con la forma comune ai differenti interessi,
per passare dal movimento folle del valore e delle sue categorie (‘lavoro’, ‘merce’,
‘denaro’, ‘mercato’, ‘stato’) ad una ‘amministrazione delle cose’ comune ed
emancipata, ed attirare coscientemente parte delle forze produttive secondo i
criteri della ‘ragione sensibile’, in luogo di abbandonarsi alla sottomissione
cieca alla ‘macchina’ feticista” (p.56).
Per questo compito, dice: “bisognerà redigere un nuovo
manifesto per il quale non è stato ancora trovato il linguaggio”.
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