Il libro
dell’ex Governatore della Banca
d’Inghilterra consente di osservare, in merito al grande tema della crisi
della finanza e della forma di economia ad essa connessa (e subalterna) il
punto di vista di un banchiere centrale di cultura neoclassica, formatosi negli
anni in cui il paradigma keynesiano crollava e veniva quindi letto come il
vecchio, mentre la scuola monetarista era considerata nuova ed eccitante. E’ lo
stesso King a ricordarlo in più passaggi del suo libro.
Abbiamo letto il punto di Massimo Amato e Luca Fantacci,
in “Fine
della finanza” nel quale sono riproposti alcuni elementi qualificanti
della posizione di Keynes, ed in particolare è avanzata una proposta altamente
inattuale: la neutralizzazione della funzione di riserva di valore e quindi
della preferenza per la liquidità che la moneta, imperniata sull’atto fondante
del debito, oggi riveste in prima e superiore istanza. Con essa la
neutralizzazione del capitalismo, inteso come possibilità di fare merce del
tempo (come il pensiero medioevale ben
vedeva), e quindi in qualche modo di appropriarsene. Il discorso di Amato e
Fantacci, nella sua densa complessità, si impernia, come per Keynes, sul
momento fondante dell’incertezza, del rischio che invece la finanza, nella sua
illusoria costruzione, cerca di disciplinare ed esorcizzare. Sapendo che chi controlla
il rischio (ottenendo che si accumuli su alcuni, facendoli deboli, e salvi
altri) governa il mondo.
Lord Mervyn
King è stato in Banca d’Inghilterra
dal 1990, direttamente come Direttore e subito dopo come Capo Economista, e dal
2003 ne è stato Governatore. È andato in pensione nel 2013, entrando nella Camera dei Lord. Ha studiato a Cambridge
e ad Harvard, ed è stato professore alla London School of Economics. Una carriera
di grandissimo prestigio, come si vede, in particolare è stato alla guida della
Banca d’Inghilterra in tutti i
cruciali anni di preparazione della crisi finanziaria e durante il primo
quinquennio della sua gestione.
Il suo libro è dunque anche una sorta di autodifesa;
ma la profondità della ferita inferta all’onore del capitalismo finanziario
anglosassone è talmente grande che l’economista neoliberale si vede costretto
ad affondare il coltello con il piglio del chirurgo che cerca disperatamente di
salvare il paziente. Il fallimento, dice, è di un intero sistema di idee.
Anche per King, come per Amato e Fantacci, l’essenza
del tentativo della finanza è di creare una particolare “alchimia” che consenta
di “giocare con il tempo” (p.23), collegando
presente e futuro in modo che il secondo diventi controllabile. Cioè che la sua
strutturale incertezza sia esorcizzata (o meglio, indirizzata).
Nel farlo il sistema bancario crea, letteralmente il
denaro come forma di debito (l’analisi parte dalle stesse assunzioni, anche se
con minore coerenza, di Fantacci ed Amato; anche il nostro definisce la
creazione della moneta come un fenomeno endogeno), trasformando depositi a
breve termine, sicuri, in prestiti a lungo termine, intrinsecamente rischiosi. Oscillando
come si vede tra la descrizione neoclassica del denaro come merce, focalizza
ciò che comunque accade: si prende il
futuro e lo si attualizza. Una simile “alchimia” dipende, come per ogni
forma di trasformazione magica, dalla fiducia. È questa che conferisce al
sistema finanziario nel suo complesso il potere di creare il debito; ovvero il
denaro.
Ma la creazione del debito, quindi del capitalismo, è
per King comunque la “strada più efficace per sfuggire alla povertà e
conquistare il benessere” (p.28). Questo è, in effetti, l’unico luogo in cui si
cerca di fondare un argomento in difesa dell’operazione per la quale “i
proprietari privati del capitale ingaggiano altre persone pagando un salario
affinché lavorino nelle loro imprese e fanno investimenti raccogliendo denaro
dalle banche e dai mercati finanziari”. Un sistema a favore del quale è
istituito un intero sistema di istituzioni (piuttosto confusamente di seguito
elencate) che “creano un equilibrio tra libertà e restrizioni, tra concorrenza
sfrenata e regolamentazione”. Tutte queste parole mostrano, con evidenza, come
l’autore (che certo non è un filosofo) sia legato radicalmente al punto di
vista neoliberale; la ‘libertà’ è concorrenza e si oppone a regolamentazione,
intesa come restrizione.
Di seguito spiega la fine di Bretton Woods come
effetto dell’accumulo di squilibri (e di tensioni valutarie) e l’avvio di tre “esperimenti
economici” interconnessi:
-
L’indipendenza delle Banche Centrali (che difenderà per tutto il libro, ed è il “buono”,
come fonte di stabilità);
-
La libera circolazione dei capitali e la neutralizzazione dei tassi variabili (che rende
fragile il sistema bancario, e dunque è “il brutto” della sua storia);
-
La deregolamentazione (che genera un aumento degli squilibri, quindi del
debito, ed è “il cattivo”).
Nel 2008, alla fine, il “brutto” prevale, consentendo
al “cattivo” di prevalere sul “buono” (p.34).
Ma la crisi parte da prima, il momento chiave è il
1989, ovvero il crollo del sistema sovietico (prima nell’est e poi nella stessa
Russia), a partire da cui si muove una sequenza di eventi che vanno a scapito
dell’occupazione nel settore manifatturiero in occidente ed a determinare delle
simmetriche ipertrofie: del risparmio in oriente e della spesa per consumi, non
coperta da produzioni, in occidente. Questo squilibrio porta ad un calo a lungo
termine dei tassi di interesse, perché “la crescita costante delle economie
asiatiche ha generato un flusso di denaro in continuo aumento dai risparmiatori
di quei paesi verso il mercato mondiale dei capitali” (p.39).
Questo macrofenomeno, come dice King: ha depresso sia i lavoratori sia i tassi.
E, questo è uno snodo autocritico, dato che tutti
banchieri centrali non hanno dato prova di volersene fare carico durante gli
anni trionfali, ciò ha incoraggiato con il tempo ad investire in progetti che,
in cerca di un’apparente sicurezza, erano caratterizzati da tassi di rendimento
sempre più bassi. Tassi di rendimento nascosti da una patina di innovazione
finanziaria, secondo il modello “eroga e
distribuisci” (una delle migliori e tempestive descrizioni in Raghuram
Rajan, “Terremoti
finanziari”). L’insieme del meccanismo, che King descrive molto
sommariamente probabilmente perché è ormai molto noto, determina una crescente
complessità degli assett finanziari, la cui oscurità anche e soprattutto per
chi li costruisce e negozia, è un fattore di fragilità non secondario. E insieme
provoca la loro crescente quantità; cosa che crea quella che chiama una “miscela
tossica tra una economia mondiale fortemente squilibrata e l’esplosione dei
bilanci mondiali”.
Bisogna notare che l’economia squilibrata, e
segnatamente il deficit dell’area del dollaro, avrebbe dovuto essere compensata
dal deprezzamento della divisa (che avrebbe agito come fattore di riequilibrio,
spingendo la produzione e riducendo i consumi esteri), ma ciò non è avvenuto perché
l’esplosione delle riserve (sovrane e non) ha neutralizzato il meccanismo. Il
risultato è stato il continuo accumulo di squilibri commerciali (e quindi anche
della tendenza alla esternalizzazione di segmenti sempre maggiori dei cicli
produttivi) e delle riserve sovrane in valuta.
Un simile equilibrio si può tenere per un certo tempo,
ma non per sempre. Il banchiere centrale che, come il suo collega della FED e
quello della BCE, poco ha fatto in quegli anni (dato probabilmente che agire
avrebbe voluto dire arrestare la crescita vertiginosa degli interessi in campo
e dei profitti delle istituzioni finanziarie) oggi descrive questo accumulo di
squilibri come la radice del successivo crollo.
Comunque il motivo per il quale, come dice, nessuno ha
cambiato rotta, lasciando consolidare una complessiva debolezza della domanda
(ormai anche gli autori liberisti riconoscono che questo è il cuore del problema,
anche se non la sua causa), è che l’economia capitalista è “intrinsecamente una
economia monetaria”. E questa vive di uno squilibrio di fondo, determinato dal
bisogno di neutralizzare l’incertezza.
Ma “il problema è che non si può prevedere il futuro”,
in particolare con istituzioni sviluppate in contesti tecnologici del tutto
diversi.
Anche King, alla fine, pone sotto attenzione la funzione di riserva di valore del denaro,
e la sua natura di passività. Ovvero il fatto che, per dirlo con i suoi
termini, “usiamo come moneta le passività delle banche” (il riferimento è
ovviamente alla descrizione della stessa Banca d’Inghilterra, sulla creazione
di moneta, che abbiamo riassunto qui),
e in conseguenza la circostanza che la produzione di denaro “è diventato un
compito del sistema privato” (p.66). Infatti, in sostanza, “le banche generali
depositi come sottoprodotto della concessione di prestiti” (p.92). Cosa che non
impedisce che siano comunque le Banche Centrali ad essere i soggetti che
influiscono maggiormente (anche se con sistemi indiretti), comprando e vendendo
assett, con ciò influenzando la loro liquidità e quindi il prezzo (ed il
rendimento). King, in una miscela di critica e conservazione di posizioni tradizionali,
tiene ferma la posizione secondo la quale alla fine attraverso l’acquisto di
valori le Banche Centrali possono influenzare l’offerta di denaro, e quindi i
prezzi. Si legge insomma, e chiaramente, l’eco (in una certa sopravvalutazione
di questi meccanismi, piuttosto marginali e molto controversi) dell’impostazione
monetarista nella quale il giovane economista fu formato negli anni in cui
Milton Friedman (che è citato molte volte e sempre senza alcuna distinzione
critica) era in auge. Come è citata la teoria dell’equilibrio generale di Arrow
e Debreu (p.80).
La Banca Centrale è dunque un “deus ex machina” (così
la chiama) che, avendo di mira il compito essenziale di impedire l’inflazione,
garantisce la stabilità finanziaria. Stabilità posta a rischio dalla mossa di
Nixon nel 1971 (p.75).
Il problema è che i meccanismi per nascondere l’incertezza,
distribuendo apparentemente il rischio su più ampi mercati, creano una
illusione di ricchezza, in effetti, fittizia
e creata sull’attesa del valore, capitalizzato oggi in funzione di algoritmi di
valutazione e sistemi di certificazione apparentemente terzi, ma in realtà
rappresentante “una proiezione futura del flusso di profitti atteso”. Si tratta
in particolare di strumenti come i derivati e le varie forme di
cartolarizzazione (p.135), che non sono veri e propri contratti a fronte di una
attività economica, ma strumenti sintetici il cui scopo è di capitalizzare il
futuro e l’incerto (una critica di parte marxista, che focalizza in particolare
questa funzione del denaro “fittizio” creato dalla finanza, è quella
di Trenkle e Lohoff, su cui torneremo). Questo meccanismo è fragile perché spesso
i valori, come i rischi, si contagiano a vicenda, cosa che determina la
tendenza a crolli subitanei e generalizzati (l’esempio di scuola, citato a pag.
112, è il fallimento del fondo LTCM).
Il rischio
sistemico cresce, insomma, e non diminuisce con l’interdipendenza, che fornisce solo una illusione di liquidità.
Se questa è la critica, la soluzione proposta è in
effetti molto classica (ed alla radice intellettuale dell’indipendenza delle
Banche Centrali che ovviamente difende): fare affidamento su euristiche che
operano trascurando intenzionalmente le informazioni (p. 129) e sviluppano
narrazioni. Ma euristiche operative
(un esempio è guardare alla ‘leva’ finanziaria, prendendola a parametro medio
di rischiosità al posto dei complessi ma oscuri modelli formalizzati) e
narrazioni credibili.
Ora una strategia di coping, ovvero di adattamento al
mutare delle situazioni tenendo di mira una regola semplice, è proprio quello
che fa la Banca Centrale con l’inflazione. In effetti non sa come e perché esattamente
salga o scenda, ma cerca di reagire al manifestarsi degli effetti, attraverso
un “target” di breve termine. Ala fine la tiene bassa costantemente. Questa presentazione,
e difesa, della principale mission delle Banche Centrali dal momento della
svolta neoliberale degli anni ottanta (prima era la piena occupazione, anche al
prezzo di qualche anno di inflazione più alta) è condotta con argomenti molto
deboli e dogmatici. In effetti, qui si legge da una parte un eco di una teoria
quantitativa della moneta non compatibile con le stesse affermazioni poste in
precedenza, quindi una intonazione morale e financo religiosa (arriva a
parlare, per la crescita dell’inflazione, di “tentazione ad allontanarsi dalla
retta via”, p.154). Come anche una chiarissima, ed esplicitamente posta,
impostazione antidemocratica e tecnocratica, i governi eletti hanno bisogno di
spogliarsi di questo capitale potere, perché non capiscono come funziona l’economia
e rischiano di essere indotti a cambiare politica per inseguire il consenso. Sulla
base di questa molto tradizionale posizione King, propone in sostanza di tenere
fermo “il buono”: la discrezionalità con vincoli in capo alla Banca Centrale,
indipendente dalla politica.
Dunque non bisogna mai abbandonarsi, neppure nelle
condizioni di stagnazione persistente dell’oggi, alla idea “disperata” di
lasciar salire l’inflazione, anche perché (ancora il classico argomento
neoliberale in voga a partire dagli anni ottanta) i mercati “non ci
crederebbero” e vanificherebbero gli effetti. Insomma, i mercati prediligono “uno
stile di vita sano”, alle avventure rischiose.
In questo snodo, in cui l’ex banchiere centrale mostra
esattamente la sua relazione con il potere circolante nel sistema economico e
la posizione nel conflitto distributivo relativo, si allontana enormemente
dalla proposta di Amato e Fantacci, i quali puntano esattamente sulla
neutralizzazione della funzione di riserva di valore del denaro, attraverso
forme più o meno raffinate di inflazione della moneta non impiegata. Il punto è
che qualsiasi inflazione dei prezzi colpisce chi possiede il mezzo di pagamento
(che si deflaziona), ovvero colpisce il capitale che è il mezzo di pagamento
universale. Anzi la sua tesaurizzazione. Contrariamente a tanta retorica
interessata, di cui sono pieni da decenni i nostri giornali, i finanzieri non
temono l’inflazione perché colpisce i poveri conti correnti dei lavoratori o
delle casalinghe, i quali vivono del proprio lavoro e non delle rendite finanziarie,
ma proprio perché svuotano queste ultime. Essa, infatti, colpisce i loro
clienti, i loro fornitori e loro stessi, in sostanza chi detiene capitale.
Oggi, preso nell’intreccio inestricabile di questi
problemi, King riconosce comunque che la “grande stabilità”, cui credeva quando
era Governatore, non era sostenibile. Ma ne cerca la soluzione in una blanda
ridefinizione della condivisione dei rischi, e nella riduzione della liquidità
(p.227). La già citata regola euristica della riduzione della leva finanziaria.
Riconosce anche che il mondo economico è troppo
complesso e difficile da prevedere, ma da questa considerazione
sorprendentemente fa emergere l’accettazione, perché “più proficua” della
semplificazione implicata nei modelli impostati sull’ottimizzazione neoclassici
(p.274). Almeno in quei casi in cui non si può andare verso il modello del “coping”.
Sono possibili, però, anche riforme più radicali, come
la riserva al 100% proposta già in passato, e che ridefinisce come “proposta del Banco dei Pegni” (p.245). Oppure
lasciando aprire conti (digitali) direttamente presso le Banche Centrali da
ogni singolo operatore economico (saltando l’intermediazione bancaria).
In prospettiva, se la situazione non si riequilibra, una
soluzione è andare alla cancellazione parziale di debiti e crediti (p. 287),
causati dagli eccessi di risparmio e quindi dalla carenza di domanda (in un
circolo che deprime occupazione, produttività e quindi capacità di sostenere i
consumi con il reddito).
Questo sarà dunque il destino della prossima crisi,
che è in arrivo e forse imminente: provocare attraverso la remissione dei
debiti sovrani un reboot dell’economia (p.300) che sia propedeutico a trovare a
livello globale un nuovo equilibrio che non generi più accumuli di debiti e
crediti gli uni verso gli altri armati. Ciò dovrebbe significare rilanciare il
ruolo del FMI e dei tassi fluttuanti (interrompendo i molti accordi valutari a tasso
fisso, o volti ad agganciarsi ad altre monete, che avvantaggiano solo la
finanza a breve termine).
Quel che ci vuole è, insomma, un “nuovo ordine
mondiale”. Quello che si potrebbe chiamare neocolonialismo con i mezzi della finanza va interrotto, prima che sia troppo tardi mentre altre e più energiche crisi si intravedono all'orizzonte, costruendo un nuovo ordine mondiale (anche qui fa capolino, ma molto discretamente, uno schema multilaterale che allude ad un ruolo della Cina).
Ma cosa succede in
Europa?
È chiaro che in questa prospettiva alla Germania
dovrebbero fischiare le orecchie. Ed infatti il banchiere inglese ha il
meccanismo dell’Unione Europea al centro del mirino. Per lui è un classico caso
di dilemma del prigioniero esteso ad un intero continente, con un’Unione Monetaria
che “ha creato un conflitto tra un’élite centralistica e le forze della
democrazia a livello nazionale” (p.304). Si tratta, insomma, di un approccio “profondamente
sbagliato” che alla fine mette la Germania davanti ad una “scelta terribile”:
perdere i propri capitali, imprudentemente prestati all’estero, dato che non
intendeva impiegarli in patria sotto forma di investimenti o di maggiori
consumi (per paura dell’inflazione), e quindi accettare anche un’unione di
trasferimenti a tempo indeterminato o porre fine all’Unione ed ai suoi vantaggi
per le proprie industrie. Parte dei capitali saranno comunque persi.
Ma è chiaro ormai che la rottura, per tutti i paesi
indeboliti dalla neutralizzazione del meccanismo equilibrante del cambio (che
da una parte tende a deindustrializzarle, dall’altra favorisce il loro
indebitamento e l’industria finanziaria) determinerebbe “benefici a lungo
termine superiori ai costi a breve” (vedremo che Stiglitz è dello stesso
avviso).
Del resto in linea generale un’Unione Monetaria può
essere sostenuta, senza essere squilibrante, solo se sono presenti esigenti
condizioni che mancano del tutto. È stato quindi “un enorme azzardo” (p.200)
che, di fatto, “ha esasperato le distanze” secondo un meccanismo ormai chiaro i
cui effetti (e non causa) sono anche i problemi di sostenibilità del debito
pubblico.
In queste condizioni ci sono solo quattro alternative:
1-
“continuare con l'attuale forte disoccupazione dei
paesi periferici, finché in questi
paesi i salari ed i prezzi saranno scesi abbastanza da recuperare la
competitività perduta [ovvero saranno diventati abbastanza poveri]. Ma è una strada lunga, perché i loro
deficit commerciali in piena occupazione [cioè quelli che si avrebbero se
tornassero alla piena occupazione] sono ancora significativi, e ulteriori
riduzioni sarebbero sicuramente dolorose, visto che la disoccupazione è già a
livelli molto elevati. Per i paesi minori, che in caso di cambio fluttuante
rischierebbero troppo [ma non per l'Italia, che di questi è il maggiore],
questa potrebbe essere la soluzione obbligata.
2-
Far salire l'inflazione in Germania e in altri paesi con surplus commerciale e comprimere
i salari e i prezzi nei paesi periferici [ma meno che nel caso 1], al fine di
eliminare le differenze di competitività tra Nord e Sud. Ciò richiederebbe una
forte e prolungata svalutazione dell'Euro, cosa molto impopolare in Germania
(dove i risparmiatori sarebbero ulteriormente penalizzati in termini di
rendimenti dei loro investimenti), sia nel resto del mondo, che la
considererebbe una mossa ostile.
3-
abbandonare il tentativo di ripristinare la
competitività dei paesi periferici
dell'eurozona [quindi lasciarli deindustrializzare, come è accaduto al Sud
italiano] e accettare la necessità di trasferimenti espliciti a tempo
indeterminato per finanziare i loro deficit commerciali in piena occupazione e
consentir loro di onorare il debito. Tali trasferimenti potrebbero addirittura
essere superiori al 5% del Pil dei paesi del Nord; per limitarne l'entità, i
paesi periferici si vedrebbero imporre condizioni capestro. Inoltre non c'è
alcun consenso popolare a favore di trasferimenti di tale entità, né nei paesi
donatori né in quelli beneficiari.
4-
Accettare la disintegrazione parziale o totale dell'eurozona”.
Chiaramente l’ipotesi 3 prevede, come clausola
collaterale che i paesi trasferenti assumano il controllo delle economie dei
paesi “beneficiari”. In genere cose del genere sono successe come parte di processi
di anschluss non privi di violenza (più o meno nascosta sotto qualche spesso
strato di retorica universalista) e nel quadro di un progetto di potenza. Progetto
che peraltro oggi
non manca e che sono visti come “il tentativo di riportare in vita il Sacro
Romano Impero” (come scrivevamo qui).
Infatti, per come la mette King, “la crisi dell’unione
monetaria continuerà a trascinarsi, e non può essere risolta senza fare i conti
con le ambizioni sovranazionali dell’UE o con la natura democratica dei governi
nazionali sovrani: una delle due cose dovrà fare un passo indietro” (p.214).
O si rinuncia ai
sogni egemonici, per quanto confusi e per interposta élite, oppure alla
democrazia.
Del resto questa è una vera e propria “battaglia tra i
politici e l’aritmetica economica” (p.223), una battaglia che fa dire a King
che l’ipotesi che vada ancora avanti senza scegliere (cioè nell’ipotesi 1) è, a
ben vedere, la vera tragedia.
La crisi dell’eurozona è, insomma, una sorta di
immagine in piccolo della crisi del mondo sotto la pressione degli identici
meccanismi di base: per entrambe ci vuole un nuovo ordine, quello immaginato a
seguito del crollo dell’impero sovietico non funziona più.
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