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mercoledì 26 luglio 2017

Mervyn King, “La fine dell’alchimia”


Il libro dell’ex Governatore della Banca d’Inghilterra consente di osservare, in merito al grande tema della crisi della finanza e della forma di economia ad essa connessa (e subalterna) il punto di vista di un banchiere centrale di cultura neoclassica, formatosi negli anni in cui il paradigma keynesiano crollava e veniva quindi letto come il vecchio, mentre la scuola monetarista era considerata nuova ed eccitante. E’ lo stesso King a ricordarlo in più passaggi del suo libro.

Abbiamo letto il punto di Massimo Amato e Luca Fantacci, in “Fine della finanza” nel quale sono riproposti alcuni elementi qualificanti della posizione di Keynes, ed in particolare è avanzata una proposta altamente inattuale: la neutralizzazione della funzione di riserva di valore e quindi della preferenza per la liquidità che la moneta, imperniata sull’atto fondante del debito, oggi riveste in prima e superiore istanza. Con essa la neutralizzazione del capitalismo, inteso come possibilità di fare merce del tempo (come il pensiero medioevale ben vedeva), e quindi in qualche modo di appropriarsene. Il discorso di Amato e Fantacci, nella sua densa complessità, si impernia, come per Keynes, sul momento fondante dell’incertezza, del rischio che invece la finanza, nella sua illusoria costruzione, cerca di disciplinare ed esorcizzare. Sapendo che chi controlla il rischio (ottenendo che si accumuli su alcuni, facendoli deboli, e salvi altri) governa il mondo.


Lord Mervyn King è stato in Banca d’Inghilterra dal 1990, direttamente come Direttore e subito dopo come Capo Economista, e dal 2003 ne è stato Governatore. È andato in pensione nel 2013, entrando nella Camera dei Lord. Ha studiato a Cambridge e ad Harvard, ed è stato professore alla London School of Economics. Una carriera di grandissimo prestigio, come si vede, in particolare è stato alla guida della Banca d’Inghilterra in tutti i cruciali anni di preparazione della crisi finanziaria e durante il primo quinquennio della sua gestione.

Il suo libro è dunque anche una sorta di autodifesa; ma la profondità della ferita inferta all’onore del capitalismo finanziario anglosassone è talmente grande che l’economista neoliberale si vede costretto ad affondare il coltello con il piglio del chirurgo che cerca disperatamente di salvare il paziente. Il fallimento, dice, è di un intero sistema di idee.
Anche per King, come per Amato e Fantacci, l’essenza del tentativo della finanza è di creare una particolare “alchimia” che consenta di “giocare con il tempo” (p.23), collegando presente e futuro in modo che il secondo diventi controllabile. Cioè che la sua strutturale incertezza sia esorcizzata (o meglio, indirizzata).

Nel farlo il sistema bancario crea, letteralmente il denaro come forma di debito (l’analisi parte dalle stesse assunzioni, anche se con minore coerenza, di Fantacci ed Amato; anche il nostro definisce la creazione della moneta come un fenomeno endogeno), trasformando depositi a breve termine, sicuri, in prestiti a lungo termine, intrinsecamente rischiosi. Oscillando come si vede tra la descrizione neoclassica del denaro come merce, focalizza ciò che comunque accade: si prende il futuro e lo si attualizza. Una simile “alchimia” dipende, come per ogni forma di trasformazione magica, dalla fiducia. È questa che conferisce al sistema finanziario nel suo complesso il potere di creare il debito; ovvero il denaro.

Ma la creazione del debito, quindi del capitalismo, è per King comunque la “strada più efficace per sfuggire alla povertà e conquistare il benessere” (p.28). Questo è, in effetti, l’unico luogo in cui si cerca di fondare un argomento in difesa dell’operazione per la quale “i proprietari privati del capitale ingaggiano altre persone pagando un salario affinché lavorino nelle loro imprese e fanno investimenti raccogliendo denaro dalle banche e dai mercati finanziari”. Un sistema a favore del quale è istituito un intero sistema di istituzioni (piuttosto confusamente di seguito elencate) che “creano un equilibrio tra libertà e restrizioni, tra concorrenza sfrenata e regolamentazione”. Tutte queste parole mostrano, con evidenza, come l’autore (che certo non è un filosofo) sia legato radicalmente al punto di vista neoliberale; la ‘libertà’ è concorrenza e si oppone a regolamentazione, intesa come restrizione.


Di seguito spiega la fine di Bretton Woods come effetto dell’accumulo di squilibri (e di tensioni valutarie) e l’avvio di tre “esperimenti economici” interconnessi:
-        L’indipendenza delle Banche Centrali (che difenderà per tutto il libro, ed è il “buono”, come fonte di stabilità);
-        La libera circolazione dei capitali e la neutralizzazione dei tassi variabili (che rende fragile il sistema bancario, e dunque è “il brutto” della sua storia);
-        La deregolamentazione (che genera un aumento degli squilibri, quindi del debito, ed è “il cattivo”).

Nel 2008, alla fine, il “brutto” prevale, consentendo al “cattivo” di prevalere sul “buono” (p.34).

Ma la crisi parte da prima, il momento chiave è il 1989, ovvero il crollo del sistema sovietico (prima nell’est e poi nella stessa Russia), a partire da cui si muove una sequenza di eventi che vanno a scapito dell’occupazione nel settore manifatturiero in occidente ed a determinare delle simmetriche ipertrofie: del risparmio in oriente e della spesa per consumi, non coperta da produzioni, in occidente. Questo squilibrio porta ad un calo a lungo termine dei tassi di interesse, perché “la crescita costante delle economie asiatiche ha generato un flusso di denaro in continuo aumento dai risparmiatori di quei paesi verso il mercato mondiale dei capitali” (p.39).

Questo macrofenomeno, come dice King: ha depresso sia i lavoratori sia i tassi.

E, questo è uno snodo autocritico, dato che tutti banchieri centrali non hanno dato prova di volersene fare carico durante gli anni trionfali, ciò ha incoraggiato con il tempo ad investire in progetti che, in cerca di un’apparente sicurezza, erano caratterizzati da tassi di rendimento sempre più bassi. Tassi di rendimento nascosti da una patina di innovazione finanziaria, secondo il modello “eroga e distribuisci” (una delle migliori e tempestive descrizioni in Raghuram Rajan, “Terremoti finanziari”). L’insieme del meccanismo, che King descrive molto sommariamente probabilmente perché è ormai molto noto, determina una crescente complessità degli assett finanziari, la cui oscurità anche e soprattutto per chi li costruisce e negozia, è un fattore di fragilità non secondario. E insieme provoca la loro crescente quantità; cosa che crea quella che chiama una “miscela tossica tra una economia mondiale fortemente squilibrata e l’esplosione dei bilanci mondiali”.
Bisogna notare che l’economia squilibrata, e segnatamente il deficit dell’area del dollaro, avrebbe dovuto essere compensata dal deprezzamento della divisa (che avrebbe agito come fattore di riequilibrio, spingendo la produzione e riducendo i consumi esteri), ma ciò non è avvenuto perché l’esplosione delle riserve (sovrane e non) ha neutralizzato il meccanismo. Il risultato è stato il continuo accumulo di squilibri commerciali (e quindi anche della tendenza alla esternalizzazione di segmenti sempre maggiori dei cicli produttivi) e delle riserve sovrane in valuta.
Un simile equilibrio si può tenere per un certo tempo, ma non per sempre. Il banchiere centrale che, come il suo collega della FED e quello della BCE, poco ha fatto in quegli anni (dato probabilmente che agire avrebbe voluto dire arrestare la crescita vertiginosa degli interessi in campo e dei profitti delle istituzioni finanziarie) oggi descrive questo accumulo di squilibri come la radice del successivo crollo.

Comunque il motivo per il quale, come dice, nessuno ha cambiato rotta, lasciando consolidare una complessiva debolezza della domanda (ormai anche gli autori liberisti riconoscono che questo è il cuore del problema, anche se non la sua causa), è che l’economia capitalista è “intrinsecamente una economia monetaria”. E questa vive di uno squilibrio di fondo, determinato dal bisogno di neutralizzare l’incertezza.

Ma “il problema è che non si può prevedere il futuro”, in particolare con istituzioni sviluppate in contesti tecnologici del tutto diversi.

Anche King, alla fine, pone sotto attenzione la funzione di riserva di valore del denaro, e la sua natura di passività. Ovvero il fatto che, per dirlo con i suoi termini, “usiamo come moneta le passività delle banche” (il riferimento è ovviamente alla descrizione della stessa Banca d’Inghilterra, sulla creazione di moneta, che abbiamo riassunto qui), e in conseguenza la circostanza che la produzione di denaro “è diventato un compito del sistema privato” (p.66). Infatti, in sostanza, “le banche generali depositi come sottoprodotto della concessione di prestiti” (p.92). Cosa che non impedisce che siano comunque le Banche Centrali ad essere i soggetti che influiscono maggiormente (anche se con sistemi indiretti), comprando e vendendo assett, con ciò influenzando la loro liquidità e quindi il prezzo (ed il rendimento). King, in una miscela di critica e conservazione di posizioni tradizionali, tiene ferma la posizione secondo la quale alla fine attraverso l’acquisto di valori le Banche Centrali possono influenzare l’offerta di denaro, e quindi i prezzi. Si legge insomma, e chiaramente, l’eco (in una certa sopravvalutazione di questi meccanismi, piuttosto marginali e molto controversi) dell’impostazione monetarista nella quale il giovane economista fu formato negli anni in cui Milton Friedman (che è citato molte volte e sempre senza alcuna distinzione critica) era in auge. Come è citata la teoria dell’equilibrio generale di Arrow e Debreu (p.80).

La Banca Centrale è dunque un “deus ex machina” (così la chiama) che, avendo di mira il compito essenziale di impedire l’inflazione, garantisce la stabilità finanziaria. Stabilità posta a rischio dalla mossa di Nixon nel 1971 (p.75).

Il problema è che i meccanismi per nascondere l’incertezza, distribuendo apparentemente il rischio su più ampi mercati, creano una illusione di ricchezza, in effetti, fittizia e creata sull’attesa del valore, capitalizzato oggi in funzione di algoritmi di valutazione e sistemi di certificazione apparentemente terzi, ma in realtà rappresentante “una proiezione futura del flusso di profitti atteso”. Si tratta in particolare di strumenti come i derivati e le varie forme di cartolarizzazione (p.135), che non sono veri e propri contratti a fronte di una attività economica, ma strumenti sintetici il cui scopo è di capitalizzare il futuro e l’incerto (una critica di parte marxista, che focalizza in particolare questa funzione del denaro “fittizio” creato dalla finanza, è quella di Trenkle e Lohoff, su cui torneremo). Questo meccanismo è fragile perché spesso i valori, come i rischi, si contagiano a vicenda, cosa che determina la tendenza a crolli subitanei e generalizzati (l’esempio di scuola, citato a pag. 112, è il fallimento del fondo LTCM).
Il rischio sistemico cresce, insomma, e non diminuisce con l’interdipendenza, che fornisce solo una illusione di liquidità.


Se questa è la critica, la soluzione proposta è in effetti molto classica (ed alla radice intellettuale dell’indipendenza delle Banche Centrali che ovviamente difende): fare affidamento su euristiche che operano trascurando intenzionalmente le informazioni (p. 129) e sviluppano narrazioni. Ma euristiche operative (un esempio è guardare alla ‘leva’ finanziaria, prendendola a parametro medio di rischiosità al posto dei complessi ma oscuri modelli formalizzati) e narrazioni credibili.


Ora una strategia di coping, ovvero di adattamento al mutare delle situazioni tenendo di mira una regola semplice, è proprio quello che fa la Banca Centrale con l’inflazione. In effetti non sa come e perché esattamente salga o scenda, ma cerca di reagire al manifestarsi degli effetti, attraverso un “target” di breve termine. Ala fine la tiene bassa costantemente. Questa presentazione, e difesa, della principale mission delle Banche Centrali dal momento della svolta neoliberale degli anni ottanta (prima era la piena occupazione, anche al prezzo di qualche anno di inflazione più alta) è condotta con argomenti molto deboli e dogmatici. In effetti, qui si legge da una parte un eco di una teoria quantitativa della moneta non compatibile con le stesse affermazioni poste in precedenza, quindi una intonazione morale e financo religiosa (arriva a parlare, per la crescita dell’inflazione, di “tentazione ad allontanarsi dalla retta via”, p.154). Come anche una chiarissima, ed esplicitamente posta, impostazione antidemocratica e tecnocratica, i governi eletti hanno bisogno di spogliarsi di questo capitale potere, perché non capiscono come funziona l’economia e rischiano di essere indotti a cambiare politica per inseguire il consenso. Sulla base di questa molto tradizionale posizione King, propone in sostanza di tenere fermo “il buono”: la discrezionalità con vincoli in capo alla Banca Centrale, indipendente dalla politica.
Dunque non bisogna mai abbandonarsi, neppure nelle condizioni di stagnazione persistente dell’oggi, alla idea “disperata” di lasciar salire l’inflazione, anche perché (ancora il classico argomento neoliberale in voga a partire dagli anni ottanta) i mercati “non ci crederebbero” e vanificherebbero gli effetti. Insomma, i mercati prediligono “uno stile di vita sano”, alle avventure rischiose.

In questo snodo, in cui l’ex banchiere centrale mostra esattamente la sua relazione con il potere circolante nel sistema economico e la posizione nel conflitto distributivo relativo, si allontana enormemente dalla proposta di Amato e Fantacci, i quali puntano esattamente sulla neutralizzazione della funzione di riserva di valore del denaro, attraverso forme più o meno raffinate di inflazione della moneta non impiegata. Il punto è che qualsiasi inflazione dei prezzi colpisce chi possiede il mezzo di pagamento (che si deflaziona), ovvero colpisce il capitale che è il mezzo di pagamento universale. Anzi la sua tesaurizzazione. Contrariamente a tanta retorica interessata, di cui sono pieni da decenni i nostri giornali, i finanzieri non temono l’inflazione perché colpisce i poveri conti correnti dei lavoratori o delle casalinghe, i quali vivono del proprio lavoro e non delle rendite finanziarie, ma proprio perché svuotano queste ultime. Essa, infatti, colpisce i loro clienti, i loro fornitori e loro stessi, in sostanza chi detiene capitale.


Oggi, preso nell’intreccio inestricabile di questi problemi, King riconosce comunque che la “grande stabilità”, cui credeva quando era Governatore, non era sostenibile. Ma ne cerca la soluzione in una blanda ridefinizione della condivisione dei rischi, e nella riduzione della liquidità (p.227). La già citata regola euristica della riduzione della leva finanziaria.
Riconosce anche che il mondo economico è troppo complesso e difficile da prevedere, ma da questa considerazione sorprendentemente fa emergere l’accettazione, perché “più proficua” della semplificazione implicata nei modelli impostati sull’ottimizzazione neoclassici (p.274). Almeno in quei casi in cui non si può andare verso il modello del “coping”.

Sono possibili, però, anche riforme più radicali, come la riserva al 100% proposta già in passato, e che ridefinisce come “proposta del Banco dei Pegni” (p.245). Oppure lasciando aprire conti (digitali) direttamente presso le Banche Centrali da ogni singolo operatore economico (saltando l’intermediazione bancaria).


In prospettiva, se la situazione non si riequilibra, una soluzione è andare alla cancellazione parziale di debiti e crediti (p. 287), causati dagli eccessi di risparmio e quindi dalla carenza di domanda (in un circolo che deprime occupazione, produttività e quindi capacità di sostenere i consumi con il reddito).

Questo sarà dunque il destino della prossima crisi, che è in arrivo e forse imminente: provocare attraverso la remissione dei debiti sovrani un reboot dell’economia (p.300) che sia propedeutico a trovare a livello globale un nuovo equilibrio che non generi più accumuli di debiti e crediti gli uni verso gli altri armati. Ciò dovrebbe significare rilanciare il ruolo del FMI e dei tassi fluttuanti (interrompendo i molti accordi valutari a tasso fisso, o volti ad agganciarsi ad altre monete, che avvantaggiano solo la finanza a breve termine).
Quel che ci vuole è, insomma, un “nuovo ordine mondiale”.  Quello che si potrebbe chiamare neocolonialismo con i mezzi della finanza va interrotto, prima che sia troppo tardi mentre altre e più energiche crisi si intravedono all'orizzonte, costruendo un nuovo ordine mondiale (anche qui fa capolino, ma molto discretamente, uno schema multilaterale che allude ad un ruolo della Cina).

Ma cosa succede in Europa?

È chiaro che in questa prospettiva alla Germania dovrebbero fischiare le orecchie. Ed infatti il banchiere inglese ha il meccanismo dell’Unione Europea al centro del mirino. Per lui è un classico caso di dilemma del prigioniero esteso ad un intero continente, con un’Unione Monetaria che “ha creato un conflitto tra un’élite centralistica e le forze della democrazia a livello nazionale” (p.304). Si tratta, insomma, di un approccio “profondamente sbagliato” che alla fine mette la Germania davanti ad una “scelta terribile”: perdere i propri capitali, imprudentemente prestati all’estero, dato che non intendeva impiegarli in patria sotto forma di investimenti o di maggiori consumi (per paura dell’inflazione), e quindi accettare anche un’unione di trasferimenti a tempo indeterminato o porre fine all’Unione ed ai suoi vantaggi per le proprie industrie. Parte dei capitali saranno comunque persi.
Ma è chiaro ormai che la rottura, per tutti i paesi indeboliti dalla neutralizzazione del meccanismo equilibrante del cambio (che da una parte tende a deindustrializzarle, dall’altra favorisce il loro indebitamento e l’industria finanziaria) determinerebbe “benefici a lungo termine superiori ai costi a breve” (vedremo che Stiglitz è dello stesso avviso).

Del resto in linea generale un’Unione Monetaria può essere sostenuta, senza essere squilibrante, solo se sono presenti esigenti condizioni che mancano del tutto. È stato quindi “un enorme azzardo” (p.200) che, di fatto, “ha esasperato le distanze” secondo un meccanismo ormai chiaro i cui effetti (e non causa) sono anche i problemi di sostenibilità del debito pubblico.

In queste condizioni ci sono solo quattro alternative:
1-     “continuare con l'attuale forte disoccupazione dei paesi periferici, finché in questi paesi i salari ed i prezzi saranno scesi abbastanza da recuperare la competitività perduta [ovvero saranno diventati abbastanza poveri]. Ma è una strada lunga, perché i loro deficit commerciali in piena occupazione [cioè quelli che si avrebbero se tornassero alla piena occupazione] sono ancora significativi, e ulteriori riduzioni sarebbero sicuramente dolorose, visto che la disoccupazione è già a livelli molto elevati. Per i paesi minori, che in caso di cambio fluttuante rischierebbero troppo [ma non per l'Italia, che di questi è il maggiore], questa potrebbe essere la soluzione obbligata.
2-     Far salire l'inflazione in Germania e in altri paesi con surplus commerciale e comprimere i salari e i prezzi nei paesi periferici [ma meno che nel caso 1], al fine di eliminare le differenze di competitività tra Nord e Sud. Ciò richiederebbe una forte e prolungata svalutazione dell'Euro, cosa molto impopolare in Germania (dove i risparmiatori sarebbero ulteriormente penalizzati in termini di rendimenti dei loro investimenti), sia nel resto del mondo, che la considererebbe una mossa ostile.
3-     abbandonare il tentativo di ripristinare la competitività dei paesi periferici dell'eurozona [quindi lasciarli deindustrializzare, come è accaduto al Sud italiano] e accettare la necessità di trasferimenti espliciti a tempo indeterminato per finanziare i loro deficit commerciali in piena occupazione e consentir loro di onorare il debito. Tali trasferimenti potrebbero addirittura essere superiori al 5% del Pil dei paesi del Nord; per limitarne l'entità, i paesi periferici si vedrebbero imporre condizioni capestro. Inoltre non c'è alcun consenso popolare a favore di trasferimenti di tale entità, né nei paesi donatori né in quelli beneficiari.
4-     Accettare la disintegrazione parziale o totale dell'eurozona”.

Chiaramente l’ipotesi 3 prevede, come clausola collaterale che i paesi trasferenti assumano il controllo delle economie dei paesi “beneficiari”. In genere cose del genere sono successe come parte di processi di anschluss non privi di violenza (più o meno nascosta sotto qualche spesso strato di retorica universalista) e nel quadro di un progetto di potenza. Progetto che peraltro oggi non manca e che sono visti come “il tentativo di riportare in vita il Sacro Romano Impero” (come scrivevamo qui).

Infatti, per come la mette King, “la crisi dell’unione monetaria continuerà a trascinarsi, e non può essere risolta senza fare i conti con le ambizioni sovranazionali dell’UE o con la natura democratica dei governi nazionali sovrani: una delle due cose dovrà fare un passo indietro” (p.214).

O si rinuncia ai sogni egemonici, per quanto confusi e per interposta élite, oppure alla democrazia.


Del resto questa è una vera e propria “battaglia tra i politici e l’aritmetica economica” (p.223), una battaglia che fa dire a King che l’ipotesi che vada ancora avanti senza scegliere (cioè nell’ipotesi 1) è, a ben vedere, la vera tragedia.



La crisi dell’eurozona è, insomma, una sorta di immagine in piccolo della crisi del mondo sotto la pressione degli identici meccanismi di base: per entrambe ci vuole un nuovo ordine, quello immaginato a seguito del crollo dell’impero sovietico non funziona più. 

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