L’ipotesi,
a quanto sembra anticipata dal nuovo libro di Matteo Renzi, e dunque in parte
strategia editoriale, in parte elettorale, di forzare le regole del “Fiscal Compact”, cancellando l’impegno
in esso presente di ridurre il debito nei termini del 60% del rapporto
debito/Pil secondo un percorso preordinato, mi sembra contenere un grave
errore, che però ha del metodo.
Questa
ipotesi, che è fatta della materia delle
nuvole, si può riassumere come una forma di “reaganomics”: ridurre le tasse
in modo accelerato, al prezzo di creare nell’immediato deficit, con la speranza
(ovvero il sogno) che questo
determini crescita per effetto dell’espansione della spesa privata. Sappiamo che
non ha funzionato, e peraltro era accompagnata nella pratica da una enorme
espansione di spesa pubblica militare (il programma dello “scudo spaziale”).
Ma
nel nostro contesto, che è del tutto diverso, suona a dirla tutta in modo
alquanto più pericoloso: più che un sogno
rischia di tramutarsi in un incubo. Infatti dentro la camicia di forza
delle regole europee e della carenza di sovranità che ne deriva, solo tentare di forzare per cinque anni, con
una sfida manifesta e palese, i dogmi che consolidano il dominio insieme
nazionale e di classe del grande capitale e della casalinga sveva (purché “risparmiatrice”,
ovvero titolare di un qualche gruzzoletto da far fruttare), può portare a
reazioni inconsulte “di tipo greco”. In particolare quando, come avverrà nella
prossima legislatura, la BCE fosse tornata all’ovile nelle capaci mani del
presidente della Bundesbank.
Ma
al di là delle forze in campo, che contano, rigettare quell’obbligo a far
scendere progressivamente il deficit corrente (dal 3% massimo previsto nel Trattato di Maastricht, regola anch’essa
del tutto arbitraria)
dalle parti del 2% e poi più in giù, conducendo quindi una grande battaglia nel
campo inclinato europeo, solo per ridurre in modo imprecisato le tasse a qualche
clientela politica, è di fatto l’annuncio di un disastro. Nelle condizioni
attuali, che assomigliano molto a quelle nelle quali scriveva Keynes, la
crescita è infatti ostacolata non dal prelievo fiscale, ma dalla “trappola della liquidità” e dalla
conseguente carenza della domanda. E’ questa la direzione causale prevalente: l’eccesso di indebitamento privato, e la
carenza di fiducia nelle prospettive
del paese, inducono famiglie ed imprese a risparmiare
eccessivamente, questo conduce a detenere in forma liquida i capitali e
rifiutarsi di investirli; la preferenza per la liquidità di tutti conduce un
effetto aggregato che rafforza enormemente la dinamica. Il calo della domanda
conferma gli agenti nella loro decisione di non investire e aumentare il
risparmio prudenziale. Il resto lo fa l’enorme fluidità del mercato
finanziario, che sposta i capitali risparmiati dove marginalmente sono più
redditizi.
Quindi
le catene cliente-fornitore, che sono estese a livello internazionale, si
asciugano e per questa via si attiva anche un ulteriore, potentissimo, anello
di rafforzamento: poiché la gran parte del denaro è creato dal sistema bancario
al momento dell’espansione del credito a qualche agente economico (mettendo in
questo termine per ora anche le famiglie), ed è distrutto corrispondentemente
dalla sua restrizione, la riduzione del giro di affari e dei redditi degli
agenti comporta effettiva distruzione di moneta circolante. Per le due vie,
quindi, della riduzione della circolazione (degli eventi spesa/incasso/spesa) e
della diretta riduzione della massa monetaria (per la riduzione del credito),
si potenzia la carenza di domanda che assume un andamento dinamico potenzialmente
distruttivo.
Senza
interrompere questa dinamica qualsiasi incremento della disponibilità liquida sarà
catturato dalla “trappola” e provocherà solo modesti incrementi di spesa e
quindi crescita. Certo, il deficit va aumentato in queste condizioni (Richard
Koo, stima
che per l’Italia andrebbe portato al 6%, secondo un semplice ragionamento
fondato sul metodo dei saldi settoriali, per pareggiare il surplus del settore
privato), ma usando bene l’occasione.
Invece
di investire fantasmatiche risorse faticosamente ottenute in una direzione
nella quale il cosiddetto “moltiplicatore” è di gran lunga inferiore ad 1
(ovvero nel quale 1 euro di spesa, o di minore incasso, e dunque di deficit,
porta 0,5 o 0,7 euro di incremento del Pil), bisognerebbe spenderle piuttosto nei
molti settori in cui, date le risorse inutilizzate dell’attuale economia, esso
è superiore a 1 (e può essere anche superiore a due, ovvero dove 1 euro di
spesa provoca 2 euro di incremento di Pil).
La
matematica del rapporto debito/Pil mostra in questo caso subito la differenza:
se aumento il debito di 1 euro, ma il Pil cresce di 0,5 euro il rapporto
peggiora; se aumento di 1 ma il Pil cresce di 2 euro, questo migliora. Avrò
fatto un deficit che si ripaga da solo (fino a che l’economia, occupando tutte
le risorse e i disoccupati, riduce il moltiplicatore).
Sembrerebbe tutto piuttosto ovvio.
Almeno per ora (e credo, in alcuni settori, sempre) nessuno spiazzamento di
inesistenti investimenti privati (secondo un diffuso pregiudizio più
efficienti), si darebbe con l’investimento diretto da parte dello Stato in
scuole, ponti, infrastrutture energetiche ed informatiche, difesa del
territorio, bonifiche, ricerca scientifica, e via dicendo. Invece queste spese
aumenterebbero la capacità del sistema economico e sociale di produrre
ricchezza, la sua produttività complessiva, e quindi anche la competitività, mettendo il paese in una traiettoria
ascendente.
Ma
allora perché si propone di spendere il sogno in una direzione così dannosa?
Le
risposte possono essere tante:
-
Cattive
teorie economiche,
-
Pressione
di interessi delle lobby degli industriali (che aspettano di
riproporre la riduzione del cuneo fiscale a loro esclusivo vantaggio),
-
Populismo (l’argomento
“spesa cattiva” e “tasse cattive”, porta a definire la riduzione delle seconde
ed il contenimento della prima come “buone”, indipendentemente dal
funzionamento dell’economia),
E
in parte sono tutte giuste. Ma credo ce ne sia anche un’altra:
-
La
riduzione delle tasse, a ben mirati soggetti, è una mossa che
ci si può intestare politicamente in modo certo, e che funziona senza
intermediari. È dunque adatta ad un post-partito leggero, come quello che il
parlante guida.
-
L’espansione
della spesa, come correttamente ricorda
Calenda e il sempre preciso Fassina, pur essendo più efficace, richiede un
piano di spesa e una logica industriale, ovvero un progetto esplicito e
consapevole sul posizionamento del paese nei grandi movimenti in corso nel
mondo. E, soprattutto, non può essere implementata con qualche Decreto Legge, e
un paio di slide. Richiede necessariamente l’attivazione di quei corpi
intermedi nel paese, la diffusione verso il basso delle risorse, la mediazione
dei corpi politici decentrati. Richiede, insomma, una infrastruttura che
abbiamo lasciato atrofizzarsi, e che non
c’è più.
Dunque
la mossa del segretario del PD ha una sua logica profonda, non è solo una
manovra cinica, ma un destino dei nostri tempi: la spesa pubblica richiede delle abilità, e delle infrastrutture, che
abbiamo lasciato morire, quella privata si è dissolta con lo scoppio delle
bolle della finanza.
Senza
l’una e l’altra ci resta solo il declino.
Sarebbe
questo il coraggio che bisognerebbe trovare.
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