Il manifesto che il PD ha pubblicato sul sito, a firma
Matteo Renzi, e prontamente ritirato quando è stata evidenziata l’assonanza con
alcune dichiarazioni di Matteo Salvini segna da una parte la difficoltà (sembra
che sondaggi diano il partito del primo dalle parti del 20%) elettorale della
fase, dall’altra però, e più profondamente lo stato di grande confusione che
regna intorno ad uno dei più difficili nodi della fase di
trasformazione/adattamento della piattaforma tecnologica del capitalismo
contemporaneo ed insieme, ma non disgiunto, degli assetti egemonici mondiali. Ovvero,
tradotto in termini diversi, degli effetti della deregolazione progressiva
(che implica anche trasformazione) della forma capitale, capace ormai di spostarsi quasi senza attrito su
grandi network abilitanti, concentrati in luoghi densi disconnessi dai territori
contermini; assetto che prende la forma della finanziarizzazione e della mondializzazione
dei cicli produttivi e di scambi di merci e prodotti intermedi.
A queste due “libertà”
si assomma quella di movimento delle persone (ottenendo il pacchetto già
previsto ai tempi del Trattato di Roma, considerando anche i
servizi, e ribadito a Maastricht), determinando nel suo insieme una enorme
pressione competitiva che spinge i sistemi-paese a specializzarsi
progressivamente. In questo contesto, anche per effetto del quadro determinato
dalla moneta unica, che interrompe i segnali di prezzo trasportati dal cambio,
l’Italia vede ormai da una ventina di anni il suo sistema produttivo, schiacciato
da una parte dalla pressione competitiva generata dai prodotti ad alta
specializzazione, e contemporaneamente basso costo, del nord Europa (fatti
tali, appunto, dalla moneta unica), e dall’altra da quelli ad media
specializzazione e basso prezzo derivanti dai mercati asiatici (dove giocano
altri fattori, essenzialmente la scala della produzione, l’intensità degli
investimenti pubblici e il basso costo del lavoro).
Sotto la pressione di
questa divisione internazionale della produzione, e della mobilità dei fattori
che la determina, il sistema produttivo italiano si sta sempre più dividendo in
due o più settori:
-
Uno, sempre più piccolo (circa 1.500
imprese e parte dei loro fornitori) che si posiziona in segmenti di nicchia
della competizione internazionale, ma occupa sempre meno persone (si possono
leggere gli studi di Giuseppe Berta, come “La produzione intelligente”);
-
uno, dedito per lo più al mercato
interno e alla esportazione di prodotti poveri a bassa tecnologia e basso
costo, che si riposiziona costantemente su livelli inferiori di produttività
per carenza di investimenti e cerca costantemente di recuperare margini
sfruttando il lavoro in modo più intenso (ovvero nell’equazione che vede la
redditività effetto del costo unitario di “lavoro astratto” estratto dal
“lavoro vivo”, cerca di ridurre il costo invece di aumentare il saggio di
estrazione, dato che per ottenere il secondo effetto è necessario investimento
di capitale).
-
E poi c'è l'enorme settore dei servizi,
nel quale è massima la frammentazione, la precarietà, e la bassa produttività e
dove gli investimenti sono assolutamente nulli.
- Quindi c’è la valvola di sfogo
finale dei servizi di cura alle famiglie, ma essenziale per la costruzione del
consenso interessato sul tema.
Questa dinamica, costantemente
autoalimentata, può essere considerata efficiente solo dal punto di vista del
singolo operatore del capitale, e nel breve termine; tuttavia questo è l’unico punto di vista che è rappresentato sulla
scena pubblica. Ne è ottimo esempio l’esternazione di qualche giorno fa di
Boeri sull’impatto aritmetico dei versamenti pensionistici degli immigrati
regolarizzati (a fronte dei quali, nel medio periodo ci saranno restituzioni
pensionistiche).
Uno studio del 2014 dell’Ocse
sull’integrazione degli immigrati in Italia aggiunge qualche elemento di
conoscenza a questa complessa questione. Si legge che l'Italia negli ultimi
quindici anni è il paese con maggiore capacità di attrazione, a causa di una
persistente domanda di forza lavoro a bassa qualifica e bassi salari. Detto in
altre parole, l’Ocse mostra che il nostro mercato del lavoro si sta dividendo
in un settore a salari medi o alti e un vasto settore a salari talmente bassi
che è necessario importare, ovvero attirare, disperati perché li accettino. Questo
in un paese che ha una delle disoccupazioni strutturali più alte
dell'occidente.
Ora, questo è semplicemente
il modo attraverso il quale il mercato reagisce alle condizioni competitive in
cui è immerso, e da una prospettiva mainstream non ci si può fare nulla. Nella
logica di Boeri, ad esempio, se non ci fossero gli immigrati di fatto non si
potrebbero erogare i servizi, molte aziende andrebbero fuori mercato o
sarebbero costrette ad alzare i prezzi, si creerebbe in questo caso inflazione,
e questo danneggerebbe in ultimo la competitività dell'Italia entro il quadro
costrittivo dell'euro. C'è del vero, l’Euro ci mette in trappola.
Ma resta un fatto che non è eludibile: andare avanti su questa strada determinerà le inevitabili conseguenze di una sempre maggiore polarizzazione, lotta tra poveri, incrudimento dei rapporti sociali, deriva verso destra del quadro politico, deflazione e indebolimento ulteriore del lavoro, in una spirale a scendere che danneggerà sempre di più il patrimonio sociale ed umano (e lavorativo) della nazione. Siamo, in altre parole, diretti contro l'iceberg.
Lo studio dell'Ocse
raccomanda quindi:
1-
subordinare l'ammissione di nuovi
lavoratori immigrati alle esigenze del mondo del lavoro italiano;
2-
dopo questa una serie di misure per
l'integrazione, che mi vedono favorevole, ma nel quadro della prima.
Il punto 1 è quello
attraverso il quale bisogna passare, se si intende correttamente la formula “le
esigenze del mondo del lavoro” come esigenze dei lavoratori (tutti, italiani e
non) e non solo degli imprenditori.
Non si può, in altre
parole, accettare che le contraddizioni del sistema siano sempre pagate solo
dai più deboli.
E' chiaro però che
tutta questa cosa si capisce bene solo nel quadro della “grande moderazione” e della divisione
internazionale del lavoro che ha favorito. Contrastando questo quadro, se si
volesse costringere invece il settore produttivo (includendo i servizi) a
ricollocarsi su un maggiore livello di produttività, compiendo i necessari
massivi investimenti, bisogna che sia fermata la strada facile di inseguire
ogni volta un disperato di turno che accetti ancora meno.
Dunque il tema
dell’immigrazione, come frammento di un problema molto più ampio di riassetto
del posizionamento del paese nella competizione e cooperazione internazionale,
si deve affrontare dai tre lati:
- della discussione con l'Europa,
- delle politiche industriali (in buona parte
incluso nel primo),
- e della regolazione dei flussi di diverse
competenze entro il mercato del lavoro visto dinamicamente.
Proprio considerando
che la relazione tra offerta di lavoratori e domanda organizzata da parte della
struttura produttiva (nei suoi diversi segmenti di industria da esportazione,
rivolta al mercato interno e settore dei servizi) va prevalentemente dalla
prima alla seconda, bisogna creare cioè le condizioni di scarsità invertite,
che attivino una dinamica ascendente: competizione tra capitali per acquisire
il lavoro, aumento della produttività, cioè del saggio estrazione di valore,
per via di investimenti, spostamento del paese su segmenti di valore superiori.
Quel che non si valuta
abbastanza è che se ho un'ampia platea di persone disponibili a lavorare per
400 euro non avrò mai la spinta per cercare di fare un prodotto migliore,
investendo milioni, sapendo che poi avrò bisogno di personale più specializzato
che ne vuole 2000. Le due cose sono connesse e si rimandano, in parole più
semplici non ne usciremo mai se c'è un flusso costante richiamato dalla domanda
di lavoro povero.
Ma tutto questo, la
terza “libertà” liberale, evoca irresistibilmente il tema difficile delle
“frontiere” non appena se ne tematizzino i costi. E questo attiva quelli che
potremmo chiamare campi sentimentali molto diversi nei diversi
ascoltatori. Coloro che fanno parte della generazione dei “millennials” tende a
vedere l’attraversamento delle frontiere come un’ineludibile liberazione, in
particolare quando appartiene ad una qualche classe media. Molti altri
ricordano, ed associano, a queste le tragedie del novecento ed il richiamo alla
patria come sangue e terra.
Non intendo certamente
trattare questo enorme tema, ma richiamare soltanto la più semplice meccanica
ed aritmetica della dinamica dei mercati del lavoro. Nella quale,
semplicemente, il fattore più scarso ottiene normalmente il prezzo più alto.
Lo sforzo di base del
progetto europeo (e dell’intero nuovo capitalismo che esce dalla revoca del
compromesso fordista), sapendo questo, è di disciplinare la pretesa del mondo
del lavoro di partecipare alla distribuzione delle risorse prodotte attraverso
l’inflazione della sua base. L’ideale eliminazione (ovvero tendenziale e
progressiva) di qualsiasi regola ai movimenti di capitale, merci e lavoratori
(e adesso anche di lavoro che passa sulle piattaforme informatiche) ha creato
letteralmente l’attuale insostenibile condizione del mondo, nella quale si sta
giocando la “grande partita” dell’egemonia per il nuovo
millennio.
In particolare è la
piena libertà di movimento dei capitali, nelle attuali condizioni e
infrastrutture tecnico-legali (che significa anche sistema delle “città globali” di cui parla Sassen), che
porta, insieme alla libertà di spostamento delle merci (nelle condizioni della rivoluzione
informatica), a quella insostenibile segmentazione delle catene produttive nei
settori tradabili (o mobili) su lunghe filiere logistiche che è disegnata
espressamente per massimizzare lo sfruttamento dei fattori non mobili (ambiente
e lavoro), i quali restano al contrario localmente sempre abbondanti in senso
relativo. E’ in questo contesto generale che interviene la libertà di
movimento anche dei lavoratori, contribuendo a creare un
effetto simile nei settori produttivi non mobili: quelli dei servizi e delle
produzioni deboli.
In altre parole, se
nei settori in cui le produzioni sono rivolte a mercati globali (dunque in cui
le merci, ovunque prodotte, possono essere vendute su ogni mercato alle stesse
condizioni), si riesce a garantire la piena mobilità dei fattori produttivi
capitale e conoscenza, si ottiene che questi possano andare sistematicamente a
rintracciare quelle condizioni locali di relativa abbondanza del fattore
mancante (lavoro ed ambiente) in modo che il suo saggio di sfruttamento sia
massimo. Ciò a fronte del ricatto di non collocarsi lì ma andare dal secondo
migliore e via dicendo.
L’immigrazione, dunque la resa in condizione mobile anche del lavoro, adempie la
stessa funzione; a questo punto il capitale può generare ovunque le desiderate
condizioni di inflazione (e quindi debolezza) del fattore mancante.
Come scriveva Marx:
«Il progresso industriale che segue la marcia dell'accumulazione, non
soltanto riduce sempre più il numero degli operai necessari per mettere in moto
una massa crescente di mezzi di produzione, aumenta nello stesso tempo la
quantità di lavoro che l'operaio individuale deve fornire. Nella misura in cui
esso sviluppa le potenzialità produttive del lavoro e fa dunque ottenere più
prodotti da meno lavoro, il sistema capitalista sviluppa anche i mezzi per
ottenere più lavoro dal salariato, sia prolungando la giornata lavorativa, sia
aumentando l'intensità del suo lavoro, o ancora aumentando in apparenza il
numero dei lavoratori impiegati rimpiazzando una forza superiore e più cara con
più forze inferiori e meno care, l'uomo con la donna, l'adulto con l'adolescente
e il bambino, uno yankee con tre cinesi. Ecco diversi metodi per diminuire la
domanda di lavoro e rendere l'offerta sovrabbondante, in una parola per
fabbricare una sovrappopolazione. ... L'eccesso di lavoro imposto alla
frazione della classe salariata che si trova in servizio attivo ingrossa i
ranghi della riserva aumentandone la pressione che quest'ultima esercita sulla
prima, forzandola a subire più docilmente il comando del capitale» (Il
Capitale, Libro, I, 7,25)
Dunque senza riuscire
a toccare tutti e tre gli elementi è difficile produrre una
soluzione. Ovvero sono tutte e tre le “libertà” da rimettere in questione. O
meglio è il concetto stesso di libertà da mettere in questione: sottraendolo
all'anemica e astratta definizione liberale, come ad una logica semplicemente
funzionale.
Qui la questione,
cioè, non è affatto di chiudere frontiere, ma di garantire l’equilibrio
dei mercati senza che questo viva della sistematica svalutazione di un fattore
produttivo. Ed in particolare del lavoro, che non è solo un fattore
produttivo ma in modo inseparabile (Polanyi) è vita.
Aggrava il problema la
creazione di due distinte ma connesse economie politiche reciprocamente
rovesciate:
- da una parte i nostri settori produttivi (ma
anche la piccola e media borghesia, con la sua domanda di servizi di cura a
basso costo), creano una costante domanda di “forza lavoro” debole e
disciplinata che riadatti verso il basso la struttura dei costi, e la
remunerano a dei livelli che sono bassi rispetto al contesto locale, ma alti
rispetto a quello di provenienza; creando le condizioni per una trasmissione di
surplus che alimenta indirettamente (e forse anche direttamente) la seconda.
Ciò induce quindi nella prima, ovvero in una economia lontana dal pieno impiego
(con buona pace del ‘tasso naturale di disoccupazione’ inventato da Milton
Friedman), effetti di aggiustamento regressivi, abbassamento degli
investimenti, creazione di settori a bassi salari altamente inefficienti, freno
all'innovazione.
- Dall’altra l'economia politica della emigrazione determina, sulla base di un flusso derivante dal surplus
sopra ricordato (per via di anticipazione o per via di trasferimento),
un’intera catena di agenti con caratteristiche relazioni economiche e
politico-sociali tra di essi. Ovvero la creazione di lunghi network che si
diramano dalle coste nord verso l'Africa profonda, o il medio oriente,
specializzati nell'estrazione di valore dai migranti stessi e indirettamente
dagli Stati di destinazione. Alla fine, questo che può apparire come un
effetto, finisce per divenire esso stesso una delle cause del fenomeno.
Come lo schiavismo nel settecento era alimentato da un'autentica
destrutturazione della società locale, causata dall'esistenza di una domanda di
uomini. I centri specializzati nel commercio sulla costa erano il terminale,
come oggi, di una capillare rete di agenti di commercio, ai primi anelli
occidentali e poi africani, che acquistava uomini da chiunque. L'effetto fu che
il padre vendeva il figlio, il re conduceva guerre di saccheggio in cerca di
uomini e non più di terra o rispetto. Gli effetti furono immani, a quanto
sembra lo stiamo riguardando.
Ora è possibile che si
stia creando, spinta da molteplici fattori (tecnologia, guerre, cambiamenti
climatici, avvio dello sviluppo con mercatizzazione e sradicamento), un’economia
della migrazione che corrompe in basso, gestisce in mezzo e sfrutta in
alto (basso/alto essendo mere immagini).
D’altra parte, anche considerando tutto
quanto sopra detto, è necessario non cadere nella vecchia trappola della
divisione tra deboli, essenziale strumento di governo e controllo.
Qui occorre ricordare
che la questione del razzismo stessa può essere compresa come strumento di
controllo e disciplinamento implicito, quindi come tecnica (quella
dei capponi di Renzo) ben nota. E' chiaro quindi che non si può cedere a questo
antico gioco che è stato condotto nei nostri tempi prima con l'unificazione
forzata tedesca, poi con l'allargamento ad Est della UE, quindi con i flussi
incoraggiati, tutti fenomeni che non sono stati condotti solo per questo (anzi,
i primi due essenzialmente per ragioni geopolitiche), ma che sono stati
funzionalizzati alla creazione e conservazione di un settore a bassi salari e
grigio, che consentisse anche ai settori economici meno “commerciabili” ed a
produttività bassa di essere profittevoli, sganciandosi dal potenziale
trascinamento verso l'alto tirato dal settore di esportazione. Questa è, nelle
condizioni della globalizzazione vista da una forza mercantilista, cioè da un
esportatore come è la Germania e per essa vuole essere l'intera Europa sotto la
sua egemonia, la strada per evitare l'inflazione e restare competitiva (in
particolare verso di noi ma che si dice a fare). Sono cose piuttosto trattate
nella tradizione del movimento dei lavoratori (immigrazione irlandese, 1815-45
e anni seguenti).
Ciò che hanno in comune, e ne fa delle tecniche, è che il confine, più o meno artificiale, tracciato consente allo status di prevalere sulla meccanica di produzione e riproduzione sociale; per cui una persona od un gruppo che è oggettivamente dominata e sfruttata in rapporti sociali altamente ineguali, per la sola presenza di un “altro” ancora più esterno e sfruttato ed “inferiore”, può trarre il conforto e le ragioni per restare leale. E anche contento.
In questo meccanismo la dinamica “centro/periferia” insieme a quella “dentro/fuori” della competizione con il mondo del fuori (sia quello assimilabile, prossimo, sia quello più o meno “amico”), ed entro le società produttive come è il caso del post quella “giusti/lazzaroni” (a vario grado tutti gli immigrati, i non integrati, gli stranieri) sono la meccanica stessa della costruzione imperiale a più strati europea. Ogni segmento o gruppo subalterno, dominato o controllato da uno più centrale, trova conforto “beccando” il cappone ancora più esterno, sentendosi parte di una cosa grande, e soddisfatto che altri non lo siano.
Tutto ciò aspira ad essere un Impero che, come tutti, si pensa “buono” e “saggio”. Naturale, anche progressivo, parte del cammino della Storia. Ma che, come tutti, resta costruito su piramidi di odio, sfruttandole in modo passivo.
Non sono certo cose nuove:
«A causa della concentrazione crescente della proprietà della terra,
l'Irlanda invia la sua sovrabbondanza di popolazione verso il mercato del
lavoro inglese, e fa abbassare così i salari degradando la condizione morale e
materiale della classe operaia inglese. [...]
«E il più importante di tutto: Ogni centro industriale e commerciale in Inghilterra possiede ora una classe operaia divisa in due campi ostili, i proletari inglesi e i proletari irlandesi. L'operaio inglese medio odia l'operaio irlandese come un concorrente che abbassa il suo livello di vita. Rispetto al lavoratore irlandese egli si sente un membro della nazione dominante, e così si costituisce in uno strumento degli aristocratici e dei capitalisti del suo paese contro l'Irlanda, rafforzando in questo modo il loro dominio su lui stesso. Si nutre di pregiudizi religiosi, sociale e nazionali contro il lavoratore irlandese. La sua attitudine verso di lui è molto simile a quella dei poveri ‘bianchi’ verso i ‘negri’ degli antichi Stati schiavisti degli Stati Uniti d'America. L'Irlandese gli rende la pariglia, e con gli interessi. Egli vede nell'operaio inglese nello stesso tempo il complice e lo strumento stupido del dominio inglese sull'Irlanda. [...] «Questo antagonismo è artificialmente mantenuto e intensificato dalla stampa, dagli oratori, dalle caricature, in breve da tutti i mezzi di cui dispongono le classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell'impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. E' il segreto grazie al quale la classe capitalista mantiene il suo potere. E questa classe ne è perfettamente cosciente» (Lettera di K. Marx a S. Meyer e A. Vogt, 9/4/1870).
«E il più importante di tutto: Ogni centro industriale e commerciale in Inghilterra possiede ora una classe operaia divisa in due campi ostili, i proletari inglesi e i proletari irlandesi. L'operaio inglese medio odia l'operaio irlandese come un concorrente che abbassa il suo livello di vita. Rispetto al lavoratore irlandese egli si sente un membro della nazione dominante, e così si costituisce in uno strumento degli aristocratici e dei capitalisti del suo paese contro l'Irlanda, rafforzando in questo modo il loro dominio su lui stesso. Si nutre di pregiudizi religiosi, sociale e nazionali contro il lavoratore irlandese. La sua attitudine verso di lui è molto simile a quella dei poveri ‘bianchi’ verso i ‘negri’ degli antichi Stati schiavisti degli Stati Uniti d'America. L'Irlandese gli rende la pariglia, e con gli interessi. Egli vede nell'operaio inglese nello stesso tempo il complice e lo strumento stupido del dominio inglese sull'Irlanda. [...] «Questo antagonismo è artificialmente mantenuto e intensificato dalla stampa, dagli oratori, dalle caricature, in breve da tutti i mezzi di cui dispongono le classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell'impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. E' il segreto grazie al quale la classe capitalista mantiene il suo potere. E questa classe ne è perfettamente cosciente» (Lettera di K. Marx a S. Meyer e A. Vogt, 9/4/1870).
Dunque si potrebbe
dire che lotta di classe ha anche a che fare con la lotta tra i poveri, perché
questa è uno strumento nelle mani del capitale. Ma riconoscere questo non può
neppure voler dire negare che la creazione e conservazione di un settore a bassi
salari impedisce di fatto al movimento complessivo del lavoro di riequilibrare
i rapporti di forza. La concentrazione complessiva delle ricchezze che si
osserva è l'effetto congiunto di tutti questi funzionamenti, non cade dal cielo
della tecnologia. O meglio, questa è inscritta dentro questi
funzionamenti sociali.
Tra le cose c'è, in
diverse parole, una meccanica che le unisce: per riequilibrare la
ricchezza occorre che i settori a maggiore produttività trascinino verso l'alto
quelli a minore (costringendoli a investimenti e qualificazione), portando
tutto il sistema economico verso livelli più alti di equilibrio, o meglio verso
una dinamica ascendente. Ma come detto l'intero sistema è disegnato invece secondo
una dinamica discendente, deflazionaria. Ed uno dei più importanti meccanismi
che la determina è la costante sostituzione dei lavoratori con strati dal basso
sempre più deboli che ottiene il duplice effetto di consolidare i
profitti e il consenso.
Questa dovrebbe essere
quindi la battaglia centrale, che non si può prendere dal lato “accogliamo
tutti”, perché in questo quadro produce quegli effetti e non altri, e lo fa
per ragioni strutturali. E non si può prendere neppure dal lato “aiutiamoli
(solo) a casa loro”, ovvero respingiamoli tutti, perché non fattibile e
foriero di spinta a creare un settore clandestino sempre più potente.
La linea dovrebbe,
secondo me, essere che accogliere significa sempre assumere una
responsabilità che non può essere demandata al “mercato”, perché è
compito dello Stato creare e governare il mercato.
Dunque dobbiamo
chiederci quale è la nostra responsabilità, verso tutti noi.
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