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domenica 9 luglio 2017

Poche note sulla questione dell’immigrazione: della svalutazione dell’uomo.


Il manifesto che il PD ha pubblicato sul sito, a firma Matteo Renzi, e prontamente ritirato quando è stata evidenziata l’assonanza con alcune dichiarazioni di Matteo Salvini segna da una parte la difficoltà (sembra che sondaggi diano il partito del primo dalle parti del 20%) elettorale della fase, dall’altra però, e più profondamente lo stato di grande confusione che regna intorno ad uno dei più difficili nodi della fase di trasformazione/adattamento della piattaforma tecnologica del capitalismo contemporaneo ed insieme, ma non disgiunto, degli assetti egemonici mondiali. Ovvero, tradotto in termini diversi, degli effetti della deregolazione progressiva (che implica anche trasformazione) della forma capitale, capace ormai di spostarsi quasi senza attrito su grandi network abilitanti, concentrati in luoghi densi disconnessi dai territori contermini; assetto che prende la forma della finanziarizzazione e della mondializzazione dei cicli produttivi e di scambi di merci e prodotti intermedi.



A queste due “libertà” si assomma quella di movimento delle persone (ottenendo il pacchetto già previsto ai tempi del Trattato di Roma, considerando anche i servizi, e ribadito a Maastricht), determinando nel suo insieme una enorme pressione competitiva che spinge i sistemi-paese a specializzarsi progressivamente. In questo contesto, anche per effetto del quadro determinato dalla moneta unica, che interrompe i segnali di prezzo trasportati dal cambio, l’Italia vede ormai da una ventina di anni il suo sistema produttivo, schiacciato da una parte dalla pressione competitiva generata dai prodotti ad alta specializzazione, e contemporaneamente basso costo, del nord Europa (fatti tali, appunto, dalla moneta unica), e dall’altra da quelli ad media specializzazione e basso prezzo derivanti dai mercati asiatici (dove giocano altri fattori, essenzialmente la scala della produzione, l’intensità degli investimenti pubblici e il basso costo del lavoro).
Sotto la pressione di questa divisione internazionale della produzione, e della mobilità dei fattori che la determina, il sistema produttivo italiano si sta sempre più dividendo in due o più settori:
    -        Uno, sempre più piccolo (circa 1.500 imprese e parte dei loro fornitori) che si posiziona in segmenti di nicchia della competizione internazionale, ma occupa sempre meno persone (si possono leggere gli studi di Giuseppe Berta, come “La produzione intelligente”);
      -        uno, dedito per lo più al mercato interno e alla esportazione di prodotti poveri a bassa tecnologia e basso costo, che si riposiziona costantemente su livelli inferiori di produttività per carenza di investimenti e cerca costantemente di recuperare margini sfruttando il lavoro in modo più intenso (ovvero nell’equazione che vede la redditività effetto del costo unitario di “lavoro astratto” estratto dal “lavoro vivo”, cerca di ridurre il costo invece di aumentare il saggio di estrazione, dato che per ottenere il secondo effetto è necessario investimento di capitale).
     -        E poi c'è l'enorme settore dei servizi, nel quale è massima la frammentazione, la precarietà, e la bassa produttività e dove gli investimenti sono assolutamente nulli.
-  Quindi c’è la valvola di sfogo finale dei servizi di cura alle famiglie, ma essenziale per la costruzione del consenso interessato sul tema.

Questa dinamica, costantemente autoalimentata, può essere considerata efficiente solo dal punto di vista del singolo operatore del capitale, e nel breve termine; tuttavia questo è l’unico punto di vista che è rappresentato sulla scena pubblica. Ne è ottimo esempio l’esternazione di qualche giorno fa di Boeri sull’impatto aritmetico dei versamenti pensionistici degli immigrati regolarizzati (a fronte dei quali, nel medio periodo ci saranno restituzioni pensionistiche).


Uno studio del 2014 dell’Ocse sull’integrazione degli immigrati in Italia aggiunge qualche elemento di conoscenza a questa complessa questione. Si legge che l'Italia negli ultimi quindici anni è il paese con maggiore capacità di attrazione, a causa di una persistente domanda di forza lavoro a bassa qualifica e bassi salari. Detto in altre parole, l’Ocse mostra che il nostro mercato del lavoro si sta dividendo in un settore a salari medi o alti e un vasto settore a salari talmente bassi che è necessario importare, ovvero attirare, disperati perché li accettino. Questo in un paese che ha una delle disoccupazioni strutturali più alte dell'occidente.
Ora, questo è semplicemente il modo attraverso il quale il mercato reagisce alle condizioni competitive in cui è immerso, e da una prospettiva mainstream non ci si può fare nulla. Nella logica di Boeri, ad esempio, se non ci fossero gli immigrati di fatto non si potrebbero erogare i servizi, molte aziende andrebbero fuori mercato o sarebbero costrette ad alzare i prezzi, si creerebbe in questo caso inflazione, e questo danneggerebbe in ultimo la competitività dell'Italia entro il quadro costrittivo dell'euro. C'è del vero, l’Euro ci mette in trappola.


Ma resta un fatto che non è eludibile: andare avanti su questa strada determinerà le inevitabili conseguenze di una sempre maggiore polarizzazione, lotta tra poveri, incrudimento dei rapporti sociali, deriva verso destra del quadro politico, deflazione e indebolimento ulteriore del lavoro, in una spirale a scendere che danneggerà sempre di più il patrimonio sociale ed umano (e lavorativo) della nazione. Siamo, in altre parole, diretti contro l'iceberg.

Lo studio dell'Ocse raccomanda quindi:
1-     subordinare l'ammissione di nuovi lavoratori immigrati alle esigenze del mondo del lavoro italiano;
2-     dopo questa una serie di misure per l'integrazione, che mi vedono favorevole, ma nel quadro della prima.

Il punto 1 è quello attraverso il quale bisogna passare, se si intende correttamente la formula “le esigenze del mondo del lavoro” come esigenze dei lavoratori (tutti, italiani e non) e non solo degli imprenditori.
Non si può, in altre parole, accettare che le contraddizioni del sistema siano sempre pagate solo dai più deboli.



E' chiaro però che tutta questa cosa si capisce bene solo nel quadro della “grande moderazione” e della divisione internazionale del lavoro che ha favorito. Contrastando questo quadro, se si volesse costringere invece il settore produttivo (includendo i servizi) a ricollocarsi su un maggiore livello di produttività, compiendo i necessari massivi investimenti, bisogna che sia fermata la strada facile di inseguire ogni volta un disperato di turno che accetti ancora meno.

Dunque il tema dell’immigrazione, come frammento di un problema molto più ampio di riassetto del posizionamento del paese nella competizione e cooperazione internazionale, si deve affrontare dai tre lati:
-     della discussione con l'Europa,
-     delle politiche industriali (in buona parte incluso nel primo),
-     e della regolazione dei flussi di diverse competenze entro il mercato del lavoro visto dinamicamente.

Proprio considerando che la relazione tra offerta di lavoratori e domanda organizzata da parte della struttura produttiva (nei suoi diversi segmenti di industria da esportazione, rivolta al mercato interno e settore dei servizi) va prevalentemente dalla prima alla seconda, bisogna creare cioè le condizioni di scarsità invertite, che attivino una dinamica ascendente: competizione tra capitali per acquisire il lavoro, aumento della produttività, cioè del saggio estrazione di valore, per via di investimenti, spostamento del paese su segmenti di valore superiori.
Quel che non si valuta abbastanza è che se ho un'ampia platea di persone disponibili a lavorare per 400 euro non avrò mai la spinta per cercare di fare un prodotto migliore, investendo milioni, sapendo che poi avrò bisogno di personale più specializzato che ne vuole 2000. Le due cose sono connesse e si rimandano, in parole più semplici non ne usciremo mai se c'è un flusso costante richiamato dalla domanda di lavoro povero.


Ma tutto questo, la terza “libertà” liberale, evoca irresistibilmente il tema difficile delle “frontiere” non appena se ne tematizzino i costi. E questo attiva quelli che potremmo chiamare campi sentimentali molto diversi nei diversi ascoltatori. Coloro che fanno parte della generazione dei “millennials” tende a vedere l’attraversamento delle frontiere come un’ineludibile liberazione, in particolare quando appartiene ad una qualche classe media. Molti altri ricordano, ed associano, a queste le tragedie del novecento ed il richiamo alla patria come sangue e terra.

Non intendo certamente trattare questo enorme tema, ma richiamare soltanto la più semplice meccanica ed aritmetica della dinamica dei mercati del lavoro. Nella quale, semplicemente, il fattore più scarso ottiene normalmente il prezzo più alto.

Lo sforzo di base del progetto europeo (e dell’intero nuovo capitalismo che esce dalla revoca del compromesso fordista), sapendo questo, è di disciplinare la pretesa del mondo del lavoro di partecipare alla distribuzione delle risorse prodotte attraverso l’inflazione della sua base. L’ideale eliminazione (ovvero tendenziale e progressiva) di qualsiasi regola ai movimenti di capitale, merci e lavoratori (e adesso anche di lavoro che passa sulle piattaforme informatiche) ha creato letteralmente l’attuale insostenibile condizione del mondo, nella quale si sta giocando la “grande partita” dell’egemonia per il nuovo millennio.
In particolare è la piena libertà di movimento dei capitali, nelle attuali condizioni e infrastrutture tecnico-legali (che significa anche sistema delle “città globali” di cui parla Sassen), che porta, insieme alla libertà di spostamento delle merci (nelle condizioni della rivoluzione informatica), a quella insostenibile segmentazione delle catene produttive nei settori tradabili (o mobili) su lunghe filiere logistiche che è disegnata espressamente per massimizzare lo sfruttamento dei fattori non mobili (ambiente e lavoro), i quali restano al contrario localmente sempre abbondanti in senso relativo. E’ in questo contesto generale che interviene la libertà di movimento anche dei lavoratori, contribuendo a creare un effetto simile nei settori produttivi non mobili: quelli dei servizi e delle produzioni deboli.

In altre parole, se nei settori in cui le produzioni sono rivolte a mercati globali (dunque in cui le merci, ovunque prodotte, possono essere vendute su ogni mercato alle stesse condizioni), si riesce a garantire la piena mobilità dei fattori produttivi capitale e conoscenza, si ottiene che questi possano andare sistematicamente a rintracciare quelle condizioni locali di relativa abbondanza del fattore mancante (lavoro ed ambiente) in modo che il suo saggio di sfruttamento sia massimo. Ciò a fronte del ricatto di non collocarsi lì ma andare dal secondo migliore e via dicendo.

L’immigrazione, dunque la resa in condizione mobile anche del lavoro, adempie la stessa funzione; a questo punto il capitale può generare ovunque le desiderate condizioni di inflazione (e quindi debolezza) del fattore mancante.

Come scriveva Marx: 
«Il progresso industriale che segue la marcia dell'accumulazione, non soltanto riduce sempre più il numero degli operai necessari per mettere in moto una massa crescente di mezzi di produzione, aumenta nello stesso tempo la quantità di lavoro che l'operaio individuale deve fornire. Nella misura in cui esso sviluppa le potenzialità produttive del lavoro e fa dunque ottenere più prodotti da meno lavoro, il sistema capitalista sviluppa anche i mezzi per ottenere più lavoro dal salariato, sia prolungando la giornata lavorativa, sia aumentando l'intensità del suo lavoro, o ancora aumentando in apparenza il numero dei lavoratori impiegati rimpiazzando una forza superiore e più cara con più forze inferiori e meno care, l'uomo con la donna, l'adulto con l'adolescente e il bambino, uno yankee con tre cinesi. Ecco diversi metodi per diminuire la domanda di lavoro e rendere l'offerta sovrabbondante, in una parola per fabbricare una sovrappopolazione. ... L'eccesso di lavoro imposto alla frazione della classe salariata che si trova in servizio attivo ingrossa i ranghi della riserva aumentandone la pressione che quest'ultima esercita sulla prima, forzandola a subire più docilmente il comando del capitale» (Il Capitale, Libro, I, 7,25)

Dunque senza riuscire a toccare tutti e tre gli elementi è difficile produrre una soluzione. Ovvero sono tutte e tre le “libertà” da rimettere in questione. O meglio è il concetto stesso di libertà da mettere in questione: sottraendolo all'anemica e astratta definizione liberale, come ad una logica semplicemente funzionale.

Qui la questione, cioè, non è affatto di chiudere frontiere, ma di garantire l’equilibrio dei mercati senza che questo viva della sistematica svalutazione di un fattore produttivo. Ed in particolare del lavoro, che non è solo un fattore produttivo ma in modo inseparabile (Polanyi) è vita.


Aggrava il problema la creazione di due distinte ma connesse economie politiche reciprocamente rovesciate:
-     da una parte i nostri settori produttivi (ma anche la piccola e media borghesia, con la sua domanda di servizi di cura a basso costo), creano una costante domanda di “forza lavoro” debole e disciplinata che riadatti verso il basso la struttura dei costi, e la remunerano a dei livelli che sono bassi rispetto al contesto locale, ma alti rispetto a quello di provenienza; creando le condizioni per una trasmissione di surplus che alimenta indirettamente (e forse anche direttamente) la seconda. Ciò induce quindi nella prima, ovvero in una economia lontana dal pieno impiego (con buona pace del ‘tasso naturale di disoccupazione’ inventato da Milton Friedman), effetti di aggiustamento regressivi, abbassamento degli investimenti, creazione di settori a bassi salari altamente inefficienti, freno all'innovazione.
-     Dall’altra l'economia politica della emigrazione determina, sulla base di un flusso derivante dal surplus sopra ricordato (per via di anticipazione o per via di trasferimento), un’intera  catena di agenti con caratteristiche relazioni economiche e politico-sociali tra di essi. Ovvero la creazione di lunghi network che si diramano dalle coste nord verso l'Africa profonda, o il medio oriente, specializzati nell'estrazione di valore dai migranti stessi e indirettamente dagli Stati di destinazione. Alla fine, questo che può apparire come un effetto, finisce per divenire esso stesso una delle cause del fenomeno. Come lo schiavismo nel settecento era alimentato da un'autentica destrutturazione della società locale, causata dall'esistenza di una domanda di uomini. I centri specializzati nel commercio sulla costa erano il terminale, come oggi, di una capillare rete di agenti di commercio, ai primi anelli occidentali e poi africani, che acquistava uomini da chiunque. L'effetto fu che il padre vendeva il figlio, il re conduceva guerre di saccheggio in cerca di uomini e non più di terra o rispetto. Gli effetti furono immani, a quanto sembra lo stiamo riguardando.

Ora è possibile che si stia creando, spinta da molteplici fattori (tecnologia, guerre, cambiamenti climatici, avvio dello sviluppo con mercatizzazione e sradicamento), un’economia della migrazione che corrompe in basso, gestisce in mezzo e sfrutta in alto (basso/alto essendo mere immagini).


D’altra parte, anche considerando tutto quanto sopra detto, è necessario non cadere nella vecchia trappola della divisione tra deboli, essenziale strumento di governo e controllo.
Qui occorre ricordare che la questione del razzismo stessa può essere compresa come strumento di controllo e disciplinamento implicito, quindi come tecnica (quella dei capponi di Renzo) ben nota. E' chiaro quindi che non si può cedere a questo antico gioco che è stato condotto nei nostri tempi prima con l'unificazione forzata tedesca, poi con l'allargamento ad Est della UE, quindi con i flussi incoraggiati, tutti fenomeni che non sono stati condotti solo per questo (anzi, i primi due essenzialmente per ragioni geopolitiche), ma che sono stati funzionalizzati alla creazione e conservazione di un settore a bassi salari e grigio, che consentisse anche ai settori economici meno “commerciabili” ed a produttività bassa di essere profittevoli, sganciandosi dal potenziale trascinamento verso l'alto tirato dal settore di esportazione. Questa è, nelle condizioni della globalizzazione vista da una forza mercantilista, cioè da un esportatore come è la Germania e per essa vuole essere l'intera Europa sotto la sua egemonia, la strada per evitare l'inflazione e restare competitiva (in particolare verso di noi ma che si dice a fare). Sono cose piuttosto trattate nella tradizione del movimento dei lavoratori (immigrazione irlandese, 1815-45 e anni seguenti). 

Ciò che hanno in comune, e ne fa delle tecniche, è che il confine, più o meno artificiale, tracciato consente allo status di prevalere sulla meccanica di produzione e riproduzione sociale; per cui una persona od un gruppo che è oggettivamente dominata e sfruttata in rapporti sociali altamente ineguali, per la sola presenza di un “altro” ancora più esterno e sfruttato ed “inferiore”, può trarre il conforto e le ragioni per restare leale. E anche contento.

In questo meccanismo la dinamica “centro/periferia” insieme a quella “dentro/fuori” della competizione con il mondo del fuori (sia quello assimilabile, prossimo, sia quello più o meno “amico”), ed entro le società produttive come è il caso del post quella “giusti/lazzaroni” (a vario grado tutti gli immigrati, i non integrati, gli stranieri) sono la meccanica stessa della costruzione imperiale a più strati europea. Ogni segmento o gruppo subalterno, dominato o controllato da uno più centrale, trova conforto “beccando” il cappone ancora più esterno, sentendosi parte di una cosa grande, e soddisfatto che altri non lo siano.

Tutto ciò aspira ad essere un Impero che, come tutti, si pensa “buono” e “saggio”. Naturale, anche progressivo, parte del cammino della Storia.  Ma che, come tutti, resta costruito su piramidi di odio, sfruttandole in modo passivo.

Non sono certo cose nuove:
«A causa della concentrazione crescente della proprietà della terra, l'Irlanda invia la sua sovrabbondanza di popolazione verso il mercato del lavoro inglese, e fa abbassare così i salari degradando la condizione morale e materiale della classe operaia inglese. [...]
«E il più importante di tutto: Ogni centro industriale e commerciale in Inghilterra possiede ora una classe operaia divisa in due campi ostili, i proletari inglesi e i proletari irlandesi. L'operaio inglese medio odia l'operaio irlandese come un concorrente che abbassa il suo livello di vita. Rispetto al lavoratore irlandese egli si sente un membro della nazione dominante, e così si costituisce in uno strumento degli aristocratici e dei capitalisti del suo paese contro l'Irlanda, rafforzando in questo modo il loro dominio su lui stesso. Si nutre di pregiudizi religiosi, sociale e nazionali contro il lavoratore irlandese. La sua attitudine verso di lui è molto simile a quella dei poveri ‘bianchi’ verso i ‘negri’ degli antichi Stati schiavisti degli Stati Uniti d'America. L'Irlandese gli rende la pariglia, e con gli interessi. Egli vede nell'operaio inglese nello stesso tempo il complice e lo strumento stupido del dominio inglese sull'Irlanda. [...] «Questo antagonismo è artificialmente mantenuto e intensificato dalla stampa, dagli oratori, dalle caricature, in breve da tutti i mezzi di cui dispongono le classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell'impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. E' il segreto grazie al quale la classe capitalista mantiene il suo potere. E questa classe ne è perfettamente cosciente» (Lettera di K. Marx a S. Meyer e A. Vogt, 9/4/1870).


Dunque si potrebbe dire che lotta di classe ha anche a che fare con la lotta tra i poveri, perché questa è uno strumento nelle mani del capitale. Ma riconoscere questo non può neppure voler dire negare che la creazione e conservazione di un settore a bassi salari impedisce di fatto al movimento complessivo del lavoro di riequilibrare i rapporti di forza. La concentrazione complessiva delle ricchezze che si osserva è l'effetto congiunto di tutti questi funzionamenti, non cade dal cielo della tecnologia. O meglio, questa è inscritta dentro questi funzionamenti sociali.

Tra le cose c'è, in diverse parole, una meccanica che le unisce: per riequilibrare la ricchezza occorre che i settori a maggiore produttività trascinino verso l'alto quelli a minore (costringendoli a investimenti e qualificazione), portando tutto il sistema economico verso livelli più alti di equilibrio, o meglio verso una dinamica ascendente. Ma come detto l'intero sistema è disegnato invece secondo una dinamica discendente, deflazionaria. Ed uno dei più importanti meccanismi che la determina è la costante sostituzione dei lavoratori con strati dal basso sempre più deboli che ottiene il duplice effetto di consolidare i profitti e il consenso.


Questa dovrebbe essere quindi la battaglia centrale, che non si può prendere dal lato “accogliamo tutti”, perché in questo quadro produce quegli effetti e non altri, e lo fa per ragioni strutturali. E non si può prendere neppure dal lato “aiutiamoli (solo) a casa loro”, ovvero respingiamoli tutti, perché non fattibile e foriero di spinta a creare un settore clandestino sempre più potente.

La linea dovrebbe, secondo me, essere che accogliere significa sempre assumere una responsabilità che non può essere demandata al “mercato”, perché è compito dello Stato creare e governare il mercato.


Dunque dobbiamo chiederci quale è la nostra responsabilità, verso tutti noi.


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