Ricevo da Riccardo Achilli il seguente testo che sono
lieto di ospitare sul blog:
“Le
nazioni più ricche sono tenute ad accogliere, NELLA MISURA DEL POSSIBILE, lo
straniero alla ricerca della sicurezza e delle risorse necessarie alla vita,
che non gli è possibile trovare nel proprio paese di origine. Le autorità
politiche, in vista del bene comune, di cui sono responsabili, possono
subordinare l'esercizio del diritto di immigrazione a diverse condizioni
giuridiche, in particolare AL RISPETTO DEI DOVERI DEI MIGRANTI NEI CONFRONTI
DEL PAESE che li accoglie. L'immigrato E' TENUTO A RISPETTARE con riconoscenza
il patrimonio materiale e spirituale del paese che lo ospita, ad obbedire alle
sue leggi, a contribuire ai suoi oneri". Catechismo della Chiesa
Cattolica, passo 2.241.
Premessa:
l’insufficiente stato dell’arte della riflessione a sinistra
Il tema dell’immigrazione è di grande criticità nel
pensiero della sinistra. Di fronte alla crescita di ciò che, con una certa
superbia intellettuale, si etichetta come “populismo di destra” o xenofobo, che
in tutta Europa (e non solo, basti pensare a determinati temi posti da Trump
nella campagna elettorale degli USA) si è radicato in una quota non
indifferente delle classi popolari che dovrebbero essere la base di
rappresentanza stessa della sinistra, essa balbetta. Balbetta per motivi
comprensibili, per certi versi “nobili”. La sinistra socialdemocratica post
bellica è cresciuta dentro un quadro di riferimento che affermava i valori
della pace, della solidarietà e dell’internazionalismo popolare, avendo come
principali avversari, da un lato, i fantasmi del nazifascismo e delle sue
teorie fondate sul razzismo ed il nazionalismo corporativo, autoritario ed
aggressivo. Sono state dimenticate le pagine di Marx in cui si ammonisce che
l’immigrazione di massa non fa altro che far aumentare l’esercito industriale
di riserva, impedendo agli immigrati un duraturo e continuo processo di
miglioramento delle proprie condizioni sociali dopo l’arrivo nei nostri Paesi,
ed al contempo contribuendo a ridurre i diritti dei lavoratori autoctoni, per
l’ovvio gioco dell’aumento dell’offerta di lavoro.
Il neoimperialismo aggressivo, condotto spesso (vedi
la Francia, ad esempio) dalle stesse sinistre socialdemocratiche postbelliche,
e per certi versi indurito dalla condizione di multipolarismo che è seguita
alla caduta del muro di Berlino, ha generato differenziali di ricchezza e di
prospettive di crescita, fra Nord e Sud del mondo, che hanno superato la soglia
della tollerabilità. Anche perché la predazione crescente di risorse naturali,
sia dal punto di vista della catena del valore che da quello del dissesto
ambientale, ha sprofondato ulteriormente nel baratro economie non
industrializzate, che delle risorse naturali stesse vivono. Peraltro, tale
processo, non di rado, ha distrutto in quei Paesi modelli socio-etnici, tribali
e familiari tradizionali, malamente, e dannosamente, sostituiti da posticci
modelli europeizzanti o nordamericani calati dall’alto, generando conflitti sanguinosi
e crescente miseria. In questo quadro, però, una sinistra che aspiri a
rappresentare le classi popolari non può semplicemente scaricare l’analisi
sugli effetti del neoimperialismo e dei suoi devastanti effetti sulla divisione internazionale del
lavoro. Tali analisi globali e caratterizzate da un certo grado di astrattezza,
peraltro, solo in parte sono corrette, nella misura in cui tale nuova divisione
internazionale del lavoro non ha soltanto generato miseria e sfruttamento nel
Terzo Mondo, ma anche l’aggressiva ascesa di Paesi di nuova
industrializzazione, che usano come leva competitiva l’ipersfruttamento del
loro lavoro e delle loro risorse ambientali, in un paradossale eccesso di
capitalismo predatorio tipico delle prime fasi di rivoluzione industriale,
rispetto al quale clausole, da parte dei Paesi europei, che pongano pesanti
limiti all’importazione di beni industriali prodotti con tale ipersfruttamento,
sarebbero giustificabili proprio in una ottica socialista.
Ma soprattutto, a prescindere dalla loro correttezza,
tali analisi appaiono, agli occhi dei ceti sociali di riferimento della
sinistra, incomprensibili, o quantomeno astratte ed autogiustificative. Non
credo che il proletario che si vede negare un lavoro in cantiere edile perché
hanno già assunto (più o meno in nero) operai indiani che si accontentano di un
terzo del suo salario, possa essere interessato a tali ragionamenti. O che
possa esserne interessato chi si vede preceduto, nella graduatoria comunale di
assegnazione di una casa popolare, dalla famiglia del Bangladesh. Ora, se è
vero, e lo abbiamo appreso da un certo Lenin, che la sinistra non può inseguire
passivamente ed acriticamente gli umori del popolo, ma esserne guida ed
educatrice politica, è anche vero che difficilmente un insegnante incapace di
mettersi dalla parte dei suoi allievi riesce ad essere efficace.
Allora la sinistra dovrebbe quantomeno interrogarsi
sul perché crescano, fra i ceti sociali di potenziale riferimento, l’avversione
ad una immigrazione indiscriminata e ritorni di nazionalismo. E non parlo solo
di Paesi, come l’Ungheria, governati da movimenti nazionalisti e sfavorevoli
all’immigrazione, a forte base elettorale popolare. Ma anche di Paesi come la
Francia e l’Italia in cui la Lega Nord, sarebbe bene ricordarlo, ha un consenso
elettorale a due cifre, basato anche sui ceti popolari più colpiti dalla crisi.
Alcuni
miti da sfatare e soluzioni non praticabili: immigrati, mercato del lavoro e
welfare
L’occupazione
straniera è sostitutiva o complementare a quella degli italiani?
Per anni la sinistra ha cercato di difendere un
approccio multiculturalista sulla base di un assioma: negli anni buoni, quelli
pre-crisi, gli immigrati non erano un problema perché facevano “lavori che i
nostri concittadini non vogliono più fare”, quindi erano una integrazione verso
il basso del mercato del lavoro, un gioco win-win. Negli anni di crisi, ci
siamo accorti che, nelle campagne del nostro Sud, gli italiani facevano quegli
stessi lavori umili da caporalato agricolo degli immigrati, ed allora tale
teoria, semplicemente, non regge più. Lo mostrano i dati dell’Istat: l’indagine
sulle forze di lavoro al 2016 rivela che il 6,7% dei lavoratori stranieri opera
in mansioni qualificate e tecniche, il 28,3% come impiegati e addetti al
commercio, il 29,3% come operai qualificati o artigiani. Tutte occupazioni
sicuramente sostitutive, e non complementari, rispetto ai lavoratori italiani.
Solo il 35,7% dei lavoratori stranieri è occupato in mansioni dequalificate,
che per certi versi (ma non sempre, come dimostra, per l’appunto, la scoperta
di italiani che lavorano nella raccolta degli agrumi nel Mezzogiorno) possono
essere considerate “mestieri che gli italiani non vogliono fare”.
Immigrati,
questione demografica e previdenza
Il discorso
giustificazionista rispetto agli immigrati, allora, è cambiato: adesso gli
immigrati servono perché ringiovaniscono la struttura demografica di società
invecchiate, le restituiscono linfa vitale, e del resto si moltiplicano gli
studi che mostrano la vitalità dell’imprenditorialità immigrata in contesti fiaccati
dalla stagnazione economica[1].
Non voglio dire che queste considerazioni siano
sbagliate o meramente strumentali. Tutt’altro. Il problema di fondo è che esse
non colgono la radice profonda dei mali demografici dei nostri Paesi. Le nostre
società invecchiano non per un destino cinico e baro, ma perché la
precarizzazione dell’esistenza di milioni di giovani, la disoccupazione
giovanile, livelli medi di reddito per coloro che lavorano del tutto inadeguati
a sostenere una vita familiare, deprimono la fertilità. A ciò si associano
stili di vita, veicolati dalla propaganda neoliberista che pervade le nostre
società, che esaltano l’individualismo, a discapito della vecchia, ed oramai
consunta, etica del sacrificio familiare in nome dei figli. A tal proposito, il Rapporto Istat 2017
evidenzia come almeno un terzo del declino della natalità in Italia sia legato
ad una minore propensione a fare figli, a sua volta basata su fattori
reddituali e socio-culturali. Anche l’aumento dell’età media al primo parto,
arrivata per le donne italiane fino a 32 anni, è un effetto della debolezza
economica e reddituale: sempre l’Istat, infatti, ci avverte che una donna con
figli ha il 30% di probabilità in meno di trovare un lavoro rispetto ad una
donna di pari età senza figli. Evidentemente, se i lavoratori italiani si
impoveriscono, anche per la crescente pressione dal lato dell’offerta di lavoro
degli immigrati, la tendenza a ridurre la natalità proseguirà, anziché
invertirsi. E se si volesse contrastare tale declino, occorrerebbe focalizzarsi
sulle condizioni reddituali e lavorative delle famiglie e delle donne italiane,
prima di pensare ad importare stranieri.
Foto Gabriele Pasutto |
La stessa retorica, poco fondata dal punto di vista
analitico, degli immigrati che sosterrebbero il sistema previdenziale italiano,
soltanto a patto di un continuo flusso di ingressi, non tiene conto della
necessità di un sistema previdenziale di tipo contributivo di mantenere un
punto di equilibrio intertemporale fra entrate ed uscite. Ciò che nel breve
periodo è un vantaggio (ovvero l’incremento di lavoratori giovani che
contribuiscono a mantenere in equilibrio il sistema pensionistico) nel medio
lungo periodo si ribalta inevitabilmente, quando quegli stessi giovani
immigrati invecchiano ed iniziano a bussare alle porte del sistema
pensionistico. Se al tempo “t” gli immigrati giovani contribuiscono
positivamente ai conti previdenziali, al tempo “t+n” essi stessi matureranno i
requisiti per la pensione. A quel punto, l’effetto congiunto di una popolazione
autoctona sempre più invecchiata e di nuovi coorti di immigrati di prima
generazione che premono per ricevere la pensione richiederà, per compensare i
conti del sistema previdenziale, un nuovo afflusso di immigrati giovani di
dimensioni maggiori rispetto a quello verificatosi al tempo “t”. E così via, in
una spirale di fabbisogno crescente di nuove forze di lavoro provenienti da
oltremare[2].
Il problema, però, è che il mercato del lavoro non ha
una capacità di assorbimento infinita, per cui pressioni crescenti di offerta
di lavoro finiscono per tradursi in disoccupazione e/o lavoro nero, entrambe
modalità, evidentemente, del tutto inefficaci nel finanziamento del sistema
previdenziale. Alla fine di questa spirale di aumento sempre più rapido della
forza-lavoro, il mercato del lavoro salta in aria, insieme ai conti
previdenziali. Il ragionamento sul contributo degli immigrati al sistema
pensionistico è quindi affetto da un problema di carenza di analisi dinamica.
E’ un ragionamento che si basa su un modello statico.
Tra l’altro, il ragionamento sul contributo
previdenziale degli immigrati è parziale, perché la previdenza è soltanto uno
dei tanti capitoli della spesa pubblica. Ci sono molti altri servizi pubblici, finanziati
dalla fiscalità generale, che hanno un costo unitario tendenzialmente fisso. Ad
esempio, la giustizia ha gli stessi costi per un italiano che per un immigrato.
Lo stesso vale, ad esempio, per i trasporti pubblici, la sanità, la scuola,
ecc. Se il costo di tali servizi per utente è tendenzialmente fisso (o comunque
indipendente dalla nazionalità dell’utente) esso cresce con legge aritmetica
all’aumentare della domanda (perché, ovviamente, e legittimamente, l’immigrato
chiederà di fruire dei servizi sanitari, scolastici, di trasporto, ecc. del
Paese di accoglienza). Tuttavia, la massa di risorse necessarie per il
finanziamento di tale spesa crescente non aumenterà nella medesima proporzione,
poiché essa è alimentata dalla fiscalità generale, che è progressiva. Ora, al
netto dell’incidenza particolarmente alta del lavoro nero fra gli immigrati
(una stima della Fondazione Moressa parla di un tasso di irregolarità, fra gli
occupati stranieri in Italia, del 20%, ben più alto di quello dei lavoratori
italiani, che oscilla fra il 15 ed il 16%)[3].
E’ chiaro che coloro che lavorano regolarmente hanno livelli reddituali (e
quindi capacità fiscale) molto bassi. In altri termini, rispetto ai servizi
pubblici finanziati da fiscalità generale, gli immigrati costano quanto gli
italiani ma finanziano tali servizi in una proporzione inferiore rispetto agli
italiani, perché si concentrano nelle fasce reddituali inferiori rispetto a
quella mediana. Evidentemente, nel lungo periodo tale assetto rischia di far
saltare ogni sostenibilità finanziaria dei servizi pubblici a finanziamento
fiscale. A meno che l’obiettivo non sia proprio quello di farli saltare, per
poi privatizzarli, a danno, oltre che degli italiani, anche degli stessi
immigrati.
Tali considerazioni non sono nemmeno particolarmente
originali, e sono state già autorevolmente avanzate, solo che ci si volesse
aggiornare. L'ultimo rapporto della Fondazione Leone Moressa, con il contributo
della Cgia di Mestre, prende in considerazione gli oltre 5 milioni di immigrati
regolari presenti nel nostro Paese all'inizio del 2016. Questa popolazione ha
versato imposte per 6 miliardi e 10,9 miliardi di contributi per un totale
incassato dal fisco che sfiora i 17 miliardi.
Tuttavia, la somma di spesa aggiuntiva per i servizi
pubblici erogati agli immigrati, inclusiva della spesa per l’accoglienza dei
migranti, è stimata attorno ai 16 miliardi circa. Praticamente la stessa cifra
incassata a titolo di contributi e imposte. Quindi nell’immediato il saldo fra
entrate e spese legato alle migrazioni appare in equilibrio.
I guai, però, subentrano non appena si considerano gli
scenari prospettici, quindi si passa da un approccio statico ad uno dinamico. Tra
il 2040 e il 2050, quando molti immigrati accederanno ai requisiti
pensionistici, emergeranno tensioni nel sistema previdenziale. Attualmente più
del 70% della popolazione di origina straniera residente in Italia si situa
nella fascia di reddito inferiore ai 25mila euro lordi annui. Questo lascia
presagire che, una volta pensionati l'assegno sarà del tutto insufficiente a
garantire loro un'esistenza dignitosa se resteranno in Italia. Essi
diventeranno, pertanto, un problema in più a carico delle generazioni future,
perché quei contributi che versano oggi dovranno essere restituiti sotto forma
di pensione ed integrati con altre forme di sostegno al reddito[4].
Il professor Gian Carlo Blangiardo dell'Università di Milano
Bicocca ha calcolato che sarebbe necessario un flusso aggiuntivo di 400-500
mila nuovi immigrati «giovani» all'anno per rendere il sistema sostenibile.
Questo, però, significherebbe far saltare gli equilibri del mercato del lavoro
e far esplodere una questione sociale senza precedenti.
Immigrati
e mercato del lavoro
Il mercato del lavoro italiano, per le sue
caratteristiche di acuto dualismo, ma anche per la debolezza intrinseca dei
suoi sistemi di formazione tecnico-professionale e di orientamento ed
integrazione nel mondo del lavoro, è del tutto inadeguato a sostenere ingenti
flussi di nuove forze di lavoro. Non a caso, come sottolinea nuovamente l’Ocse
(2014) queste caratteristiche sono particolarmente nocive per gli stessi
immigrati, particolarmente esposti al ciclo economico. L’Ocse rileva infatti
che “con la recente crisi economica, i risultati sul mercato del lavoro degli
immigrati hanno subito un calo ancora più drastico di quelli dei nativi (…) i
lavoratori immigrati sono generalmente più vulnerabili perché concentrati
soprattutto in settori duramente colpiti dalla crisi, come l’edilizia (che è
tipicamente un settore prociclico, nda) e hanno situazioni contrattuali più
precarie”. Il che pone seri interrogativi circa “la loro occupazione a lungo
termine”.
Foto Gabriele Pasutto |
La domanda inquietante che la sinistra dovrebbe porsi,
a questo punto, oltre il buonismo di facciata, è la seguente: come garantire
una armoniosa e pacifica integrazione socio-lavorativa di gente che, pur di
venire da noi, è stata disposta a investire tutti i suoi magri risparmi ed
affrontare un viaggio pericolosissimo, nel momento in cui non si riesce a
garantire loro prospettive occupazionali di lungo termine perlomeno uguali a
quelle, peraltro magrissime, dei lavoratori italiani? Non c’è il rischio
concreto che il sogno infranto si traduca in rabbia e rancore verso il Paese di
accoglienza? Come abbiamo purtroppo sperimentato con tanti cittadini “francesi”,
“belgi” o “inglesi” di origini maghrebine attivi nel terrorismo dell’Isis, non
c’è il rischio che la mancata integrazione di lungo periodo ricacci i giovani
immigrati di seconda generazione in una terra di mezzo fra la cultura di
origine e quella del Paese di accoglienza, trasformandoli in sradicati ed
emarginati perenni, disponibili per qualsiasi avventura criminale o
terroristica?
Il tutto viene ulteriormente peggiorato, in
prospettiva, dal fatto che siamo alla vigilia di una enorme rivoluzione
tecnologica che, perlomeno nel medio periodo, tramite l’estensione
dell’informatizzazione, dell’automazione e dell’intelligenza artificiale,
sopprimerà milioni di posti di lavoro e creerà un assetto sociale neo feudale,
con milioni di esclusi, dal lavoro e quindi dall'identità sociale (perché
l'identità sociale, sotto specie capitalistica, dipende dal lavoro). In queste
condizioni, non cercare di fermare l'immigrazione, ma anzi, addirittura
facilitarla, è un suicidio, perché moltiplica il numero potenziale di esclusi.
Foto Gabriele Pasutto |
Purtroppo non ci sono ricette facili, non è un gioco
win-win. Anche l’ultima frontiera delle soluzioni “facili” proposte dalla
sinistra, ovvero l’integrazione dei lavoratori immigrati dentro il mercato del
lavoro regolare, tramite l’estensione delle tutele dei contratti collettivi di
categoria (“aumentiamo il numero di ispettori del lavoro nei cantieri e i
lavoratori immigrati inseriti nei CCNL, al pari dei loro colleghi italiani, non
eserciteranno più una concorrenza sleale”) è, a medio termine, inefficace. Infatti,
la crescente contrattualizzazione di lavoratori immigrati nella forma attualmente
più “protetta” (ovvero tramite i CCNL) finirà per far lievitare il costo del
lavoro di quelle imprese che li utilizzano diffusamente con modalità informali
o con contratti precari e sottopagati. Per un modello di specializzazione
produttiva come quello italiano, spostato sui settori a più basso valore
aggiunto e su una forte propensione all’esportazione, la perdita di
competitività dal lato dei costi di produzione finirà presto per indurire le
rivendicazioni della parte datoriale in sede di negoziazioni sul rinnovo dei
contratti collettivi. Ben presto, per conservare i livelli occupazionali più
tutelati (gonfiati dall’immigrazione di nuova forza lavoro inclusa nei CCNL) i
sindacati saranno costretti ad accettare rinnovi contrattuali al ribasso,
peggiorando così le condizioni e le tutele di tutti i lavoratori delle
categorie interessate, siano essi italiani o stranieri. Le leggi dell’offerta e
della domanda, sia pur in un mercato parzialmente intermediato come quello del lavoro,
non possono essere eluse per troppo tempo, a maggior ragione in un contesto
macroeconomico di elevata e crescente apertura dei mercati interni e di
concorrenza globalizzata. Alla fine, è inevitabile che si avveri la previsione
marxiana, contenuta nel Capitale, secondo la quale “l'eccesso di lavoro imposto
alla frazione della classe salariata che si trova in servizio attivo ingrossa i
ranghi della riserva aumentandone la pressione che quest'ultima esercita sulla
prima, forzandola a subire più docilmente il comando del capitale”.
Foto Gabriele Pasutto |
Che
fare? Una proposta, fra maggiore controllo e nuovo modello di integrazione
Nel
lungo periodo: riequilibrare la catena del valore globale
Rimane allora il problema del “che fare”. Certo non è
pensabile, per la stessa esistenza etica e valoriale della sinistra, indulgere
verso approcci xenofobi o di chiusura, scimmiottando la destra. Però non è
parimenti possibile ignorare sostanzialmente il problema, rinviandolo
all’Iper-Uranio di una politica di cambiamento radicale del paradigma di
sistema orientata verso lontane, nebbiose ed utopistiche mete di
ristrutturazione a livello globale dei rapporti sociali di produzione. Non
voglio generare un equivoco: ritengo ovviamente necessario, anzi
indispensabile, impostare detto lavoro di lunga lena mirato a ridurre il
condizionamento neo imperialistico sui Paesi di origine dei flussi migratori,
sostanzialmente al fine di riequilibrare parzialmente i dualismi di sviluppo
globale (e sottolineo il “parzialmente”, dobbiamo essere consapevoli che in un
modello capitalistico, che certo non possiamo cambiare, lo sviluppo economico
e sociale del Terzo Mondo corrisponde a
frenare, ed oltre certi livelli ad invertire, quello dei Paesi più ricchi). Occorre
lavorare, in termini di politica estera e di cooperazione reale allo sviluppo
(che non si fa con i doni, ma con il trasferimento di capacità tecniche e di
ristrutturazione della catena del valore a favore dei produttori primari) per creare
condizioni minime di stabilità politica, etnico-religiosa e sociale, e di
eliminazione delle forme più estreme di miseria e deprivazione
economico-ambientale, nei Paesi africani e medio-orientali di origine dei
flussi che interessano il nostro Paese.
Nell’immediato:
maggiore selettività
Ma tale lavoro è di lunghissimo periodo, e non si può
ignorare che esista, nell’hic et nunc, una emergenza migratoria, nei termini di
devastazione dei nostri sistemi lavorativi e sociali, e della nostra stessa
identità culturale, tratteggiato in precedenza. Non possiamo aspettare che si
compiano i lustri, o i decenni, necessari per ottenere i frutti di una politica
di riequilibrio delle contraddizioni più acute del modello socio-economico
globale e della divisione internazionale del lavoro. Tale attesa produrrebbe
una devastazione nei nostri mercati del lavoro e nel nostro welfare non più
sanabile. Chiunque spacci come facile e generatrice di effetti immediati tale
strada di modifica del modello produttivo e sociale globale, così lunga e
difficile, è un idiota, oppure un truffatore.
L’emergenza va affrontata con gli strumenti
dell’emergenza, e con le armi della politica, che non è pietismo (per il
pietismo ci sono i preti ed i benefattori) ma concretezza e durezza, se
necessario. L’accoglienza, come ben sottolinea il passaggio del Catechismo che
ho inserito in premessa, va modulata “nella misura del possibile”. Ed è anche
inutile aspettarsi una solidarietà europea sul tema, che non ci sarà mai, come
dimostra chiaramente la sequela di riunioni infruttuose sulla questione delle
quote[5].
L’ingresso di nuovi migranti deve essere selettivo e
filtrato. Devono poter entrare soltanto coloro che hanno ricevuto il
riconoscimento di rifugiati ed una piccola quota di immigrati economici che,
mediante un sistema a punti analogo a quello usato da Paesi come l’Australia,
basato su dati quali il livello di istruzione, le competenze lavorative, la
buona condotta, lo stato di salute, ecc. risultino effettivamente utili a
coprire shortages effettivi di specifiche figure professionali. Una istituzione
come l’Ocse, che è uno dei templi della globalizzazione, arriva a suggerire di
“subordinare l’ammissione di nuovi lavoratori alle esigenze del mercato del
lavoro italiano”. La Marina Militare, sostanzialmente disimpegnata da compiti
difensivi tradizionali, va utilizzata, con il supporto degli strumenti
tecnologici moderni di identificazione e controllo (ad iniziare dai satelliti,
dalla copertura radar aero-navale e dalle capacità AWACS dell’Aeronautica) per
intercettare i barconi in mare e, dopo aver prestato il necessario soccorso
alimentare e sanitario agli occupanti, agganciarli e riportarli in acque
territoriali libiche. Un dispositivo eccezionale di truppe di terra va
schierato lungo i litorali siciliani e appulo-calabresi interessati dagli
sbarchi, con regole di ingaggio precise e adeguate. Deve essere applicata una
politica di tolleranza zero verso i clandestini, ovunque scoperti nel
territorio nazionale, o verso gli immigrati che dovessero rendersi responsabili
di reati, anche di tipo contravvenzionale, o che fossero sorpresi a lavorare in
nero. In questo senso, le procedure di espulsione vanno velocizzate al massimo,
e devono scattare in forma automatica al verificarsi di eventi predeterminati
(assenza di permesso di soggiorno, flagranza di reato, manifesta assenza dello
status di rifugiato, come nel caso dell’immigrazione che proviene da Paesi che
non hanno particolari problemi tali da giustificare tale status). Le operazioni
delle navi di Ong private vanno messe fuori legge, affermando il monopolio
dello Stato su tale settore, ed affrontate, se del caso, anche con la forza. Il
personale diplomatico italiano nei Paesi di partenza deve essere formato a
usare i media locali per fare operazioni di scoraggiamento nei confronti di
potenziali migranti. Deve essere garantita per legge l’extraterritorialità dei
centri in cui sistemare i migranti, in attesa della loro accoglienza o
dell’espulsione. Tali centri devono essere gestiti dall’Esercito e non da
cooperative private.
Ma
anche un nuovo modello di accoglienza
Accanto a tale politica di duro contrasto ai nuovi
ingressi, occorre però affiancare una nuova e più efficace politica di
accoglienza per coloro che già risiedono nel nostro Paese o che verranno
accolti a titolo di rifugiati o di piccola quota ammessa di immigrati
economici. Modelli di integrazione che superino quello della ghettizzazione
urbana, tipico della banlieue, così come quello dell’ingenua integrazione
multiculturale “patchwork”, in cui ciascuno fa un po’ come gli pare perché è la
“sua cultura”. Un modello che dovrà essere costruito, volta per volta, tramite
il dialogo con le comunità, per trovare compromessi onorevoli per tutti.
Lo Ius Soli va concesso quindi ai figli di chi già risiede
e di chi sarà accolto legalmente, ed occorre sveltire e facilitare i
ricongiungimenti familiari. Occorre aumentare il grado di partecipazione dei
migranti sia ai programmi di apprendimento della lingua italiana, che a quelli
di formazione professionale e tecnica. Occorre garantire il rispetto assoluto,
anche a scuola, delle diversità religiose e culturali, garantendo spazi di
libera pratica della propria religione e dei propri costumi socio-culturali.
Gli immigrati di prima generazione, nati all’estero ma residenti nel nostro
Paese da un determinato numero di anni e che risultino, dopo accertamenti dei
servizi sociali, positivamente integrati, vanno accompagnati verso
l’acquisizione della cittadinanza, su base volontaria e semplificata. La
politica nei confronti dei nomadi va ripensata in un modo che non oscilli fra
gli estremi, entrambi insostenibili, dei campi e della sedentarizzazione
forzata. Accanto alla sedentarizzazione assistita e volontaria, occorre
garantire uno spazio di libertà e di decenza igienico-sanitaria, anche in siti
posti fuori dalle aree urbane, a chi sceglierà di proseguire la vita nomadica.
[1]
Cfr. ad es. Unioncamere, indagine sulle imprese straniere, I trimestre 2017, su
http://www.unioncamere.gov.it/P42A3436C160S123/imprese--una-su-10-e-guidata-da-stranieri.htm
[2]
Peraltro, come dimostrano alcuni studi empirici (cfr. ad es. Andersson, 2004, Child bearing after migration: fertility patterns
of foreign born women in Sweden, in International Migration Review, vol.
38, n.3) gli immigrati integrati dentro il sistema sociale del Paese europeo di
accoglienza tendono ad adottarne, nel tempo, anche gli schemi riproduttivi,
portando il tasso di fertilità specifico, inizialmente più alto, a scendere
verso la media della popolazione autoctona. Quindi non c’è, nel medio e lungo
periodo, un effetto strutturale di ringiovanimento della popolazione generale
legato al tasso di fertilità specifico delle donne immigrate.
Tale fenomeno si registra
anche in Italia: mentre il tasso di fecondità delle donne italiane resta
stabile fra 2008 e 2015, esso crolla, nel medesimo periodo, dal 2,65 all’1,94
per le donne straniere residenti in Italia (fonte: Istat).
[3] Elemento
sottolineato anche dall’Ocse che, in uno studio del 2014 sull’immigrazione nel
mercato del lavoro italiano evidenzia come “gli immigrati tendono a lavorare in
settori come l’edilizia o i servizi assistenziali, così come in piccole aziende
a conduzione familiare, dove l’informalità del lavoro (leggi “irregolarità”,
nda) è più difficile da contrastare”.
[4]
In realtà, i primi sintomi di insostenibilità del sistema previdenziale si
manifestano già oggi: Secondo i dati dell’Inps, nel 2015 gli stranieri che
percepivano una pensione erano 81.619. Di questi, 49.852 (il 61%) incassano pensioni
assistenziali che non prevedono il versamento di alcun contributo, quindi che
creano squilibrio nei conti previdenziali. Altri 9.071 percepiscono assegni di
indennità o civili (anche questi ottenibili senza contributi) e solo nei casi
di incidenti sul lavoro il soggetto garantito ha l'obbligo di aver versato
contributi all'Inps (fonte: Il Giornale).
[5]
In questo senso, circolano anche idee che stanno fra il buffo ed il tragico,
come quella di accogliere gli immigrati che esprimono il desiderio di andare in
altri Paesi europei. Bastano quattro blindati austriaci sulle Alpi ed il blocco
dei valichi di frontiera fra Ventimiglia e la Francia per rendere tale idea del
tutto inutilizzabile.
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