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martedì 18 luglio 2017

Massimo Amato, Luca Fantacci, “Fine della finanza”


Il libro di Massimo Amato e Luca Fantacci è del 2009, in seconda edizione del 2012. Gli stessi autori, specialisti della storia della moneta e finanziaria, entrambi professori alla Bocconi di Milano, sin dall’inizio degli anni duemila si interessano di questi temi, nel 1999 Amato ha pubblicato “Il bivio della moneta”, e nel 2008 “Radici di una fede”, nel 2010 “L’enigma della moneta”. Fantacci nel 2005 “La moneta”. Mentre insieme nel 2016 hanno scritto “Per un pugno di bitcoin”.


In “Radici di una fede”, che è scritto ad immediato ridosso di questo libro e nell’anno della piena manifestazione della crisi finanziaria (dunque appena prima, ma non senza che fosse pienamente visibile), è enunciato il tema centrale: la moneta è una istituzione che si relaziona, attraverso le sue due funzioni di misura e mezzo di pagamento, alla relazione antropologicamente fondante la vita economica tra debito e credito. Il deficit di regolazione, nel continuo rinvio del momento della messa in ordine del rapporto attraverso il ‘clearing’ (il fare pace attraverso il pagamento) genera i “mercati finanziari”, che sono, con il capitalismo, in sostanza quegli spazi ordinati alla procrastinazione del debito.

Si tratta di un libro intenso e difficile, scritto da due economisti di tradizione non marxista, ma rivolti ad una sorta di liberalismo critico che vede in Keynes il principale riferimento. Ma il Keynes che qui si legge non è tanto quello della “Teoria Generale e delle sue ricette macroeconomiche, quanto quello del “Trattato sulla moneta”, del 1930, e della proposta per Bretton Woods, che è riportata (con prefazione di Luca Fantacci) nella raccolta “Moneta internazionale” che abbiamo già letto.
Verso la conclusione gli autori ricorderanno il saggio di Kant “Per la pace perpetua”, scritto alla vigilia delle guerre napoleoniche, nel quale il grande filosofo tedesco metteva in connessione la finanza alla guerra e la pace al commercio. E ricorderanno a più riprese come il meccanismo di “clearing” degli scambi e di generazione di una moneta specificamente orientata agli scambi e non all’accumulo sia stata vista dal suo autore essenzialmente come misura di “disarmo finanziario”.

L’intero libro è dunque iscritto nell’ombra della crisi finanziaria, come frutto dello squilibrio del capitalismo, tesaurizzazione dissimmetrica, desiderio di potenza e dominio. Si intravede nelle sue pagine l’idea che il dominio anglosassone, nella duplice e successiva veste di egemonia inglese e poi americana a cavallo delle quali cade la proposta (non a caso rigettata) di Keynes, sia ormai al tramonto. E che questo tramonto, certo rinviabile ma non senza prezzo, sia determinato dai difetti di non-costruzione di una lunga storia che il testo si impegna a ricostruire, come vedremo. Lo sguardo è rivolto dunque alla possibilità che siano le potenze dell’est (Cina e Russia) a prendere il testimone, ma che lo facciano secondo una diversa idea di moneta e di credito. Entro questa crisi è tratteggiata in modo molto efficace anche lo scontro, che nel 2012 era agli albori ma che è in corso di escalation, tra le soluzioni anglosassoni, imperniate sull’incremento della liquidità, e quelle continentali europee egemonizzate dalla Germania, imperniate sulle banche e la restrizione del credito. Appena accennata la questione dell’Euro (anche se viene spesa una parola generale sull’utilità dei cambi flessibili, e più specifica sulle monete parallele, che sono del resto la loro soluzione preferita).

Il problema davanti al quale siamo è in definitiva determinato dal continuo accumulo di crescenti squilibri, e la causa profonda è la preferenza per la liquidità e il rinvio del momento del pagamento (ovvero del momento in cui un rapporto di dipendenza, intrinseco nel rapporto tra creditore e debitore, è sciolto ed onorato); alla risoluzione viene preferita appunto la tesaurizzazione ed anche la rendita del denaro in forma liquida è privilegiata rispetto alla detenzione della ricchezza in forma di merci. Il capitalismo è per gli autori in sostanza questo: “un’economia di mercato con un mercato di troppo, il mercato finanziario”. Ed il suo auspicato superamento passa quindi per la ridefinizione del denaro.

Per gli autori il capitalismo non è dunque la stessa cosa dell’economia di mercato (p.12).

In un sistema più equilibrato, come quello che gli autori auspicano, i debiti non devono essere negoziabili, non devono essere resi liquidi e cartolarizzati (in uno degli innumerevoli modi contemporanei), ma devono essere creati solo per essere pagati in un momento successivo. Pagare un debito significa infatti ‘onorarlo’ e porgli un termine, cosa che si può fare in diversi modi, oltre alla semplice liquidazione: per esempio attraverso la compensazione (il “clearing”) o attraverso l’istituto della partecipazione (agli utili o alle perdite).
Per gli autori la finanza in definitiva, come si vede in modo paradigmatico in quell’evento da fine del mondo che è la liberazione del dollaro (dall’obbligo dello scambio con l’oro ad un valore prefissato) nel 1971, è un enorme sistema di rimozione della fine.

Si può dire anche diversamente: ciò che bisogna fare è superare quella idea e quella pratica di moneta che la vede come merce. Una merce il cui prezzo si forma in appositi mercati di tipo speciale: quelli finanziari.

Riportato in forma sintetica il testo si chiede se la liquidità, ovvero la convertibilità incondizionata tra moneta e credito (per cui qualsiasi credito sia sempre rilevabile a richiesta in moneta) sia in effetti l’unico, o anche solo il più efficace, strumento per rendere possibile un’erogazione del credito che serva alle esigenze dell’economia. O se questo principio, in effetti, contribuisca a confondere le distinzioni tra le une e le altre. Cioè a rendere impossibile, in effetti, distinguere tra:
-        Breve e lungo periodo,
-        Finanza ed economia reale,
-        Speculazione e investimento,
-        Variabili congiunturali e fondamenti.

Per capirlo bisogna chiedersi che cosa è il credito, cosa la moneta, cosa voglia dire propriamente risparmiare. Nelle prime intense pagine gli autori compiono un’opera di decostruzione della doxa che passa per la definizione del credito come anticipazione. Ora, se qualsiasi produzione richiede anticipazione (che è quindi inevitabile), ciò non è indispensabile è che questa avvenga in forma di credito; la forma più semplice è il differimento del pagamento. In effetti l’anticipazione non necessita della preventiva accumulazione di moneta, ma solo dell’istituzione di uno spazio tra promessa ed attesa del saldo che sia condiviso tra le parti, necessita quindi di fiducia. Dunque, concludono gli autori: “il credito, come lo scambio, è, per essenza, non una cosa ma una relazione” (p.47), una relazione intrinsecamente rischiosa.

Ne deriva una osservazione cruciale: il rischio è connaturato al rapporto, ovvero implica una fondamentale incertezza. Questo semplice fatto impedisce di costituire le relazioni creditizie come puri e semplici mercati, basati sull’assunzione che tutto possa essere calcolato e sottratto all’incertezza. Il sogno dell’innovazione finanziaria imperniata sulle cosiddette “banche ombra” è una illusione.

Dunque che cosa è la moneta? Credito e liquidità mettono in evidenza la relazione tra risparmio ed investimento, come identità. Ma questa dogmatica è imperfetta, la moneta è innanzitutto potere di acquisto, ovvero una potenzialità di acquisto che può rimanere indefinitamente alla stato di potenzialità (ovvero la moneta può essere tesaurizzata), in quanto istituisce una riserva di valore. È un asset depurato di ogni rischio (salvo del rischio più temuto dal capitale, l’inflazione), che può divenire dunque puro credito. Ma la ‘moneta come mezzo di pagamento’, che dovrebbe essere la sua funzione primaria, è ostacolata dalla funzione potenzialmente deflattiva della ‘moneta come riserva di valore’, dunque come accumulo, come capitale. La moneta quando è riserva teme il momento della spesa e tende a non circolare, dunque provoca in sé la tendenza alla deflazione che è propria di ogni sbilanciamento della finanza.

Risparmiare qui assume il suo significato primo di tesaurizzare la moneta, come riserva e merce essa stessa, indefinitamente, senza alcun rapporto con i beni concreti, “una costante e indefinita accumulazione di un potere di acquisto astratto” (p.62).



La storia che raccontano gli autori, procede al rovescio: dalla svolta del 1971, quando Nixon fa saltare la finzione della convertibilità del dollaro in oro secondo valori prefissati, e apre all’esplosione della finanza, sostenuta dalle Banche Centrali che continuano a dotare i sistemi economici di un mezzo di pagamento che contabilmente non è ormai altro che il loro debito. Ma un debito, bisogna notare, fatto per non essere pagato e per restare indefinitamente in circolazione.
Salvo che quando, improvvisamente, si devono chiudere i conti e si devono pagare i sospesi. È quello il momento della crisi. È allora che il rischio di credito diventa improvvisamente rischio di liquidità, quando la carta che si ha in mano non la vuole più nessuno. Si tratta di un difetto sistemico, la solvibilità diventa una responsabilità condivisa e la liquidità di nessuno. A questo punto è lo Stato che deve intervenire per spegnere i frequenti incendi (di piramidi di carte). L’elemento più dirompente è che “il credito non venga creato su richiesta del debitore, per rispondere a specifiche esigenze di finanziamento, ma su proposta insistente, spesso subdola, di chi vuole a tutti i costi prestare”, sono le pratiche predatorie inscritte strutturalmente nel sistema fondato sulla liquidità che cresce a partire dalla metà degli anni settanta.



Da quando in sostanza il paese più grande e potente del mondo comincia a vivere non più del suo commercio e della sua produzione (che passa in deficit), ma dei suoi debiti. A vivere di rendita sui propri debiti, grazie alla circolazione come moneta del debito della sua Banca Centrale, che è accettata in tutto il mondo come moneta di riserva.
Ma la cosa è anticipata, nel racconto a ritroso degli autori, dalla vicenda degli “eurodollari” (dal 1958), titoli denominati in dollaro creati, in Inghilterra e altrove, fuori dell’area regolatoria USA. Dollari, nella forma della moneta bancaria e creata per essere libera da restrizioni e regolamentazioni. Questa è la prima onda della marea montante, un intero mercato finanziario costruito per essere deregolamentato (p.127) che cresce fino alla dimensione di ca. 1.200 miliardi.

Il passo precedente è l’Unione Europea dei Pagamenti, avviata nel dopoguerra per fare fronte al problema di non disporre di sufficiente moneta per gli scambi internazionali. In attesa di essere reflazionati dai programmi USA, dal 1949 al 1958 (quando le valute europee sono agganciate al dollaro) i paesi europei sia scambiano merci e servizi aprendo accordi bilaterali di scambio. Centinaia di accordi (p.139).

Passando per l’occasione mancata di Bretton Woods (e che gli autori vedono come il modello al quale ritornare), il racconto si sofferma quindi sulla crisi del 1929 che interrompe il castello di carte dei dorati anni venti, in cui sotto l’egida del Gold Exchange Standard i capitali sono oggetto di una “vera e propria duplicazione” nell’area tra gli Stati Uniti e l’Europa, un meccanismo abbastanza simile a quello che si instaura di nuovo negli anni novanta (p.185).



Quindi c’è il Gold Standard, nell’ultimo quarto del XIX secolo e fino a che la sterlina restò credibile e la Gran Bretagna poté essere il direttore di orchestra. L’Inghilterra è alla fine in deficit commerciale permanente, ma è anche concentratrice dei capitali propri, per le proprietà detenute all’estero nell’impero, e in prestito. Capitali che si rifugiano presso il paese egemone.

Ma un simile meccanismo in sostanza funziona solo erodendo sistematicamente i fondamenti del proprio funzionamento, in quanto gli USA alla fine drenano l’oro e lo tesaurizzano, mentre l’impero compensa con il saccheggio, diretto ed indiretto, dell’India. I paesi sottomessi dell’impero comprano i prodotti inglesi e depositano le sterline a Londra.

Lo fanno fondando sul prestigio della Banca d’Inghilterra, fondata nel 1694, che è all’inizio di questa storia della liquidità. Si tratta di un fondo chiuso di investimento al quale si concede con patente reale il potere di emettere “note di banco” per operazioni di sconto fino all’occorrenza del capitale versato. Bisogna notare che qui nasce la magia, il capitale è versato da imprenditori e commercianti nel fondo chiuso, ma è subito prestato al Re. Dunque le “note di banco” che lo rendono nuovamente liquido lo stanno impiegando per la seconda volta. Il denaro è speso dal pubblico e circola come debito del re. Si tratta di quella che gli autori chiamano una “cartolarizzazione del debito pubblico” (p. 222), che muta la natura stessa della moneta e del credito.

Questo intervento, che è alla base della potenza inglese perché rende possibile il finanziamento della flotta militare e commerciale ad un tempo (e con lo stesso denaro), fa seguito al sistema delle fiere (1579) nel quale il denaro di carta, le lettere di cambio, sono essenzialmente misura. La carta sostituisce l’oro, ma ad una scadenza.



Dunque questa è in breve la storia del credito e della moneta.

La crisi aperta nel 2008 mette la politica di fronte a scelte radicali, un sistema che è stato sviluppato attraverso molteplici crisi apparentemente terminali, sviluppatesi nei secoli, sostanzialmente ogni volta rinviandole, ovvero cercando le risposte congiunturali di volta in volta più facili a problemi di natura strutturale, giunge con questa ancora una volta di fronte ai suoi limiti. Ed ancora una volta si contrappongono soluzioni meramente adattive.
Precisamente due generi di soluzioni, a seconda della prevalenza delle forze in campo:
-        Aumentale ancora la liquidità, sostenendo il prezzo dei beni finanziari, e procrastinarne il crollo, al prezzo di aumentare ancora di più il rischio e l’entità di future crisi;
-        Ridurla, ostacolando la ripresa, attraverso forme di regolazione orientate a proteggere in sostanza il sistema bancario.
Le due alternative sono rispettivamente orientate alla prevalenza del capitalismo finanziario anglosassone, che punta a garantire la liquidità dei relativi mercati, e sostanzialmente a non pagare i debiti, rinviandoli. O alla prevalenza della stabilità del sistema bancario e regolatorio continentale (di matrice tedesca) che punta a non prestare più, e quindi a contrarre la liquidità.
La strada di alzare sempre la liquidità, e rinviare il momento della resa dei conti, rischia di inflazionare i prezzi (dei prodotti finanziari), ma con esse ottiene anche di aumentare le rendite.

C’è una terza strada, che è suggerita da cinesi e russi: non puntare a regolare il prezzo dei beni finanziari, garantendoli con costanti iniezioni di liquidità, ma il valore della moneta come mezzo in vista del pagamento dei debiti. Ovvero scegliere tra capitalismo ed economia la seconda, e adottare il clearing come principio architettonico centrale di un nuovo sistema interamente riformato (p.260). Togliendo, in sostanza, alla moneta il tratto della liquidità e quindi della “merce”. Non si tratterebbe di tornare al sistema della fiera (descritto durante l’excursus storico), ma riconoscere che “la liberazione di energie e di possibilità che si è dato con il capitalismo si è accompagnato a forme di sfruttamento e di schiavitù economica ancora più insopportabili di quelle a cui si poneva fine” (p.262). Nel farlo prendere anche atto che fare della moneta, l’unica merce che non costa nulla produrre e che dunque è per sua natura illimitata, porta ad avere come misura della crescita propriamente la crisi. Ovvero la crescita ha in sé una sua aleatorietà che trova di tanto in tanto, quando improvvisamente qualcuno vede il re nudo, il suo limite nell’immane distruzione provocata dalla crisi.

Questo è il nodo gordiano che occorre sciogliere.



Tra non pagare i debiti e non prestare più, bisogna trovare un’altra uscita dalla crisi determinata dall’insostenibile illimitatezza. La strada l’aveva indicata Keynes, con il sistema del “bancor”, una moneta di conto senza liquidità, capace di garantire credito senza leva (p.279). Oggi, per gli autori dovrebbe essere il nuovo egemone potenziale, per il quale scommettono sulla Cina, per il volume di crediti verso l’estero e l’avanzo commerciale, a rifiutarsi di continuare il gioco del rinvio. Quel gioco che gli USA hanno preso dall’Inghilterra e questa dall’Olanda.

Se si sceglie di non giocare più all’egemone (nella figura del creditore universale, e/o paradossalmente in quella del debitore universale che assumono gli USA dagli anni sessanta in poi), si apre la possibilità offerta da Keynes di avviare un generale “disarmo finanziario”. Per ottenerlo bisogna che il credito non sia più una merce indefinitamente trasferibile (insieme fittiziamente e molto concretamente, essendo sostanzialmente potere), ma torni ad essere visto per quel che è: “un rapporto tra un creditore e un debitore conforme, nella struttura giuridica e nella scadenza, allo scopo in vista del quale l’anticipazione è stata concessa; e che la moneta non sia una merce indefinitamente accumulabile, ma un mezzo di scambio e di pagamento all’interno di uno spazio economico e politico definito” (p.283).

Ciò implicherebbe qualcosa di molto semplice, e difficile, introdurre sul piano giuridico alcune distinzioni:
-        Tra moneta e credito;
-        Tra unità di conto e mezzo di scambio;
-        Tra moneta e merce.

In sostanza accettare che la moneta è sempre relativa ad una ben definita comunità di scambi. Distinguendo quindi tra forme di credito, proibire il prestito ad interesse (p.286) in quanto non ha senso immaginare il risparmio come un accumulo di moneta universale ed eterna a caccia di rendimenti. Cioè a caccia di autoaccrescimento.
Al posto del prestito con rendimento dovrebbe essere consentito solo la partecipazione, la condivisione cioè di rischi ed oneri, come di benefici. In altre parole generalizzare la pratica del “venture capital” rinunciando a tutto l’armamentario dei tassi di interesse.

Per ostacolare la tesaurizzazione, e quindi anche la tendenza deflattiva del sistema mondiale (che porta, come Keynes ben vedeva, alcuni a specializzarsi nell’accumulo di surplus e quindi a vivere di rendita dal lavoro altrui, ed altri ad essere costretti nel ruolo di debitori) dovrebbe essere introdotta una tassa di decumulo, o una moneta a scadenza. Esattamente ciò che la Germania teme di più, sotto forma di inflazione.

Se la funzione più importante della moneta è quella di essere un mezzo di scambio, occorre garantire che circoli, e quindi ostacolare la sua tesaurizzazione. Per questo lo strumento giuridico più idoneo è il decumulo (un efficace surrogato l’inflazione, p.303). Ma anche norme per incoraggiare investimenti diretti e non di portafoglio, e infine un’altra parte essenziale del progetto del ’44: programmi pubblici di stoccaggio delle materie prime e dei prodotti per calmierarne i prezzi ed impedire che questi diventino la forma di tesaurizzazione alternativa.


Questo insieme di misure potrebbe garantire che si guardi ai beni e non alla moneta come fonte della ricchezza. Un sistema di clearing che servirebbe a prevenire l’accumulo progressivo ed inarrestabile di squilibri e che farebbe tesoro dei molti errori accumulati nella lunga storia della moneta. 

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