Un
articolo del 2013, di Maryann Bylander, pubblicato
da Voci dall’Estero, consente di
riprendere lo spunto di un precedente
post sull’economia politica
dell’emigrazione. Si proponeva di guardare all’ambiguo, ma cruciale, tema
della emigrazione delle persone dai paesi e dalle aree ‘povere’ (il termine va
interrogato, come di seguito dirò) a quelle ‘sviluppate’ del mondo, e quello
della immigrazione di queste nuove ‘forze lavoro’ nelle economie di
destinazione come intimo intreccio di due “economie
politiche”:
-
La “economia
politica dell’immigrazione”, che genera la spinta estrattiva e insieme
trasformativa (nel caso in oggetto, che non è l’unico, da persona immersa in
una società locale a “forza lavoro” incorporata in una economia) che per così
dire ‘aspira’ gli individui, divenuti ‘risorse’, per fornire risposta ad una
domanda insaziabile di lavoro debole e disciplinato da far valere nei mercati
locali in integrazione o sostituzione (secondo i casi) della più costosa, ed
esigente, forza lavoro locale. In particolare in dimensioni economiche molto
lontane dal pieno impiego, la generale debolezza del “lavoro astratto” (ovvero
di quello estratto e disciplinato nei rapporti di produzione e riproduzione),
reso abbondante, rispetto al potere di comando ed organizzazione del ‘capitale’
(in tutte le sue forme), rende questa strategia particolarmente efficace. Si
avvia in questo modo un movimento simmetrico all’investimento diretto dei
capitali e dunque alla delocalizzazione di segmenti produttivi, attraverso
l’importazione diretta di forza lavoro. Naturalmente questa economia è
altamente complessa e frastagliata e non è l’unica dimensione in campo, ma
dovrà essere osservata in un successivo post.
-
A questa si affianca quindi una “economia politica della emigrazione”, che
simmetricamente, vede l’utilizzo dei surplus ottenuti dalla pur povera
remunerazione della ‘forza lavoro’ inserita nella periferia delle economie
‘sviluppate’ (cioè, come diremo, ‘monetizzate’), previo trasferimento, da parte
di una lunga catena di agenti che si diramano, come i vasi sanguigni
periferici, nei vasti corpi delle strutture sociali e territoriali ancora
parzialmente ‘de-monetizzate’, ovvero “povere”. Tutti questi termini
costituiscono problema.
Tra
le due “economie politiche” si istituisce una relazione, tenuta insieme, come vedremo,
dal circuito autoalimentato e intrinsecamente espansivo della monetizzazione
dei rapporti e delle vite. Ovvero, a ben vedere, dal circuito astratto e
impersonale del capitale, della sua stessa logica incorporata.
La
complessiva ‘economia’ che si genera, dicevamo nel precedente post: corrompe in basso, gestisce in mezzo e
sfrutta in alto.
Tendiamo,
infatti, a vedere le ‘economie povere’ come una sorta di vuoto, di mancanza.
Una dimensione in tutto uguale alla nostra alla quale manca solo il denaro.
Ogni economista, con una sorta di cecità educata, vede in questo modo il
problema dello ‘sviluppo’. Yunus, e la sua Grameen Bank, non fanno eccezione (anche
se in alcune versioni viene posta la cruciale questione della remunerazione,
cioè dell’interesse, del capitale). Le società locali demonetizzate, ovvero
quelle che sono impegnate in quella che ci appare come “economia di
sussistenza”, del tutto immobile, e nella quale vivono ancora centinaia di
milioni di persone, in India, Cina, Africa, estremo oriente e nelle zone interne
del sud America, ma anche in fondo nelle sacche interne più profonde delle
nostre grandi società, sono invece piene di organizzazione sociale e di diverse
forme di creazione dell’umano e di identificazione della persona e della
relazione individuo-comunità. Quello che si ottiene attraverso l’inserimento in
questo tipo di società “povera” dei beni delle società “ricche” (con il loro
particolare e sofisticato glamour, sul quale l’ultimo
Pasolini era divenuto così attento) è una sorta di “corruzione”. Di
disgregazione delle strutture della personalità locali e di estrazione e
reinserimento entro strutture relazionali tipiche del moderno.
Vorrei
sospendere in qualche modo il giudizio morale, l’etnocentrico giudizio, sulla
superiorità di uno o l’altro. Questa operazione può essere considerata
interamente un guadagno solo dalla prospettiva occidentale, di chi, come me, è
nato ed è stato socializzato in una struttura in cui la forza simbolica del
denaro, della moneta, è onnipresente e incorpora i segni morali. Solo da una
prospettiva che vede l’occidente come unica ‘forma di vita’ possibile ed
adeguata allo stato della tecnica e dello sviluppo della modernità (termine nel
quale è incorporato, nella mente occidentale, un segno temporale ed una teleologia
completamente inconsapevole e per questo potentissima) l’unico stile di vita
idoneo all’umano è il nostro.
Se
si parte invece da una prospettiva pluralista, che accetta in via di principio
possibili diverse vie di accesso all’umano, si diventa sensibili alla visione
di quello che appare con un segno per lo
meno ambiguo. La distruzione, per via di corruzione interna, di una via in
favore di un’altra. Una disgregazione dall’interno provocata dall’inserimento
di persone, fatte individui, e di nuclei familiari chiamati a distinguersi
dalla presenza dei beni dell’occidente (che ormai è ovunque, naturalmente),
resi accessibili dalla moneta che la rete di credito/debito rende disponibile,
come vedremo.
Rimandando
quindi l’osservazione della prima “economia politica”, il testo in oggetto ci
consente di guardare meglio alcuni aspetti della seconda, almeno nei casi più
estremi. Ovvero, permette di focalizzare il modo in cui i flussi di surplus,
estratti dai migranti dalle nostre economie monetizzate come controvalore della
loro prestazione come lavoratori, vengono indirizzati e come quindi si producono e riproducono. E, forse soprattutto, di
osservare quali agenti effettivi siano all’opera in alcuni e più avanzati casi
e quali effetti introducano nelle società locali ‘povere’ (ovvero prive di
adeguata circolazione monetaria).
Autori
come David Stoll, in “El norte or bust”, accusano in effetti il
microcredito di essere alla radice di una sorta di nuova bolla finanziaria (esplosa di recente a partire dal nobel a
Yunus del 2006) che valorizza questa volta la potenzialità di crescita della
monetizzazione delle risorse umane e i flussi relativi di rimesse. Dal punto di
vista di un’economia che si pensa come unica forma di vita possibile e moderna
(il punto anche dei libri di Yunus) tutto ciò è del tutto logico: persone e
famiglie esterne al circuito dell’economia moderna, incapaci di tradurre in
denaro il loro lavoro, sono aiutate ad inserirsi grazie alla disponibilità di
credito, e dunque grazie all’intrinseca disciplina del debito, che va
remunerato con lavori finalmente utili; la logica incorporata nel rapporto di
debito/credito fa il resto. Sotto la spinta della promessa di beni
inattingibili nella comunità locale (il ben vestito, la casa ‘moderna’, il
telefono o la moto), ovvero dello ‘sviluppo’, le famiglie accettano di estrarre
alcune loro parti, facendone delle risorse spendibili, ed entrano così nel
circuito del debito. Questo, a sua volta, impone la sua semplice regola e crea
un nuovo tempo astratto e lineare (quello della valorizzazione dei suoi
‘interessi’) nel quale le persone dovranno diventare ‘forza lavoro’,
impiegandosi.
Questa
radicale trasformazione antropologica e sociale ha la potenzialità di
destrutturare e rendere fragile l’intero mondo, e le categorie stesse di
valore, delle comunità locali ‘povere’ (di denaro) dalle quali in modo
necessariamente crescente, come vedremo, sono estratte le persone. Quelle che
ritroviamo poi, umiliate e ridotte ad oggetti per il nostro benessere, da noi
ad alimentale la seconda “economia politica”. In particolare le ritroviamo nei
luoghi più interni e invisibili, nei campi, nei cantieri meno organizzati, nel
chiuso degli scantinati di qualche fabbrichetta di terzisti. Il modesto livello
di ‘produttività’, in assenza della disciplina che va appresa, li confina qui.
Altri strati, o altre generazioni, sono introdotte nei luoghi meno periferici,
nella segmentazione del lavoro importato.
Il
microcredito è comunque uno degli anelli di trasmissione di questa relazione
funzionale. Certamente quello più organizzato e in qualche modo trasparente,
quello più ‘normale’. Chiaramente quel che sto scrivendo non accusa l’intera
impresa del microcredito (che è estesa anche in occidente) di produrre effetti
negativi non voluti, o di essere parte di una logica insostenibile,
trasformandosi in altra forma di ciò che combatte. Ma è solo volto ad
evidenziare come talvolta la stessa meccanica (in particolare la remunerazione
del capitale) dei mezzi usati, al di là degli scopi, determini effetti non
voluti.
Conviene
quindi guardarlo meglio dai suoi vari lati:
-
La rete del microcredito, spesso
alimentata dalle stesse organizzazioni pubbliche internazionali, o dalla rete
delle Ong, ma anche da qualche tempo parte della strategia di crescita delle
stesse grandi organizzazioni finanziarie internazionali (che vedono la
potenzialità di espansione in ‘mercati’ fino ad ora refrattari, e la buona
possibilità di remunerazione), a volte utilizzando le formule della finanza
“etica e solidale”, è cresciuta enormemente, arrivando ad interessare centinaia
di milioni di persone in oltre cento paesi.
-
La presenza di una offerta di moneta,
povera per i nostri canoni ma non per quelli delle famiglie di destinazione,
genera automaticamente, una volta compreso il necessario meccanismo della
restituzione ad interesse, degli effetti espansivi di disciplinamento e rende
razionale la strategia di destinare parte del proprio potenziale umano
all’emigrazione allo scopo di ottenere rimesse e quindi capitale. Ci sono qui diversi
aspetti da osservare contemporaneamente: l’emigrazione
costa, e moltissimo in rapporto alle povere risorse monetarie delle
famiglie locali di provenienza; d’altra parte i figli all’estero diventano
fonte di preziose rimesse in denaro
che non sono disponibili in loco (dato che l’economia locale è ‘povera’, ovvero
priva di adeguata circolazione di denaro e fondata più su economie dello
scambio, cfr. Mauss).
-
Ecco che le risorse estratte dalla seconda
“economia politica” (quella dell’immigrazione) alimentano l’espansione della “economia politica della emigrazione”
attraverso il più classico degli strumenti del capitalismo: il credito ed il debito. Il credito,
reso possibile dalla promessa delle rimesse, consente a famiglie estranee
all’economia moderna di inserirvisi indebitandosi.
Ed il microcredito funge, in alcuni casi, da infrastruttura di questo canale di
trasmissione (in altri lo fanno, con ben maggiore danno, più opache reti
sociali, confinanti con l’usura e la criminalità organizzata).
La
missione di creare sviluppo e microimpresa locale viene quindi a intrecciarsi
con la dinamica dell’emigrazione, che diventa per la forza delle cose la strategia
obbligata per coprire i debiti, rimediare ai fallimenti, e finanziare i costi.
L’emigrazione è, insomma, essa stessa una strategia di sviluppo, e come tale è
anche espressamente promossa da molte organizzazioni, anche governative,
locali. La dimensione del fenomeno è enorme, le rimesse cumulate ormai superano
o raggiungono gli Investimenti Diretti
all’Estero e superano di molto i tradizionali aiuti internazionali.
Stanno
dunque nascendo sempre più prodotti finanziari e reti di agenti, dedicate e
progettate per l’attivazione di questa specifica “economia politica”. La rete
del credito si rende essa stessa disponibile a contattare i potenziali
mutuatari, offrire le risorse per avviare il meccanismo dell’emigrazione,
anticipandole, ma anche a gestire i flussi delle rimesse in modo da garantirsi
la remunerazione. Si tratta di un mercato potenzialmente enorme, nell’ordine
dei miliardi di ‘clienti’, che, dal loro punto di vista, è completamente
win-win:
-
Fa
accedere alla modernità, ed al mercato, individui e famiglie
(perché l’unità bersaglio è in realtà questa in società ancora poco ‘individualizzate’,
cfr “la
nozione di persona”), che vi erano escluse, sottraendole alla ‘povertà’;
-
Amplia
i mercati e gli scambi internazionali, sia di capitali sia di
merci e servizi ai quali i nuovi attori economici sottratti alla povertà ed al
sottosviluppo ora accedono;
-
Contribuisce a disciplinare i mercati del lavoro occidentali, garantendo la
valorizzazione in essi dei capitali.
In
una logica impeccabile e ferrea è la stessa disponibilità ad emigrare ad essere
accolta, nella rete di microcredito, come sufficiente dimostrazione del merito di credito. Ciò perché, appunto,
l’emigrazione attiva il flusso di rimesse che, canalizzato opportunamente,
garantisce il servizio del debito. Non sfuggirà la somiglianza strutturale di
questo meccanismo con la logica del mercato dei mutui subprime (in cui era la
casa, con la sua promessa di valorizzazione intrinseca, a svolgere questa
funzione) che, opportunamente cartolarizzata fu al centro della bolla
immobiliare epicentro della crisi del 2008. Si tratta di meccanismi
potentissimi e potenzialmente illimitati, che trovano la loro nemesi solo nella
piena occupazione della ‘nicchia ecologica’ sfruttata. In questo caso del
bacino di potenziale emigrazione nel confronto e scontro con il bacino di
ricollocamento. Ovvero nella interazione tra le due “economie politiche”, con
le loro intrinseche frizioni.
Dunque
quel che si vede è un fenomeno per il quale la finanza (etica) presta a
famiglie con membri all’estero, considerando questi ultimi come fattore di
merito, canalizzando risorse economiche di fatto su consumi distintivi (ovvero
su simboli di successo e di modernità), anziché sullo sviluppo locale come
risulterebbe dai relativi statuti. Infatti in un sistema locale de-monetizzato,
organizzato da diversi principi sociali, prestare moneta è un grosso rischio
sia per il prenditore, sia per l’erogatore: mancano le condizioni per avviare
iniziative “imprenditoriali” di successo. Le eventuali micro-imprese create con
il credito si inseriscono in un contesto non capitalista, nel quale il
controvalore per ogni prestazione tende ad essere erogato in forma diversa dal
denaro. A ben vedere il denaro è più facile reperirlo dove è abbondante: in occidente. E quindi è logico
sostenere il debito, servirlo, con le rimesse dell’emigrazione.
Il
debito manifesta in questo modo tutta la sua ambiguità: è insieme una leva ed una trappola.
La
parte ‘leva’ induce una trasformazione sociale che siamo abituati a chiamare
‘crescita’, ma la parte ‘trappola’, dalla prima non separabile in quanto intrinseca
alla logica di autoaccrescimento del capitale, interviene a rompere i nessi interni
di una società diversamente organizzata e la disgrega, determinando forme di dipendenza
e di reificazione.
Inoltre
alimenta se stesso, come ogni bolla finanziaria cresce nello spazio che trova. In
questo caso è lo spazio (ovvero la distanza) intercorrente tra le nostre società
e quelle di partenza. Uno spazio molto grande, nel quale potrà crescere a lungo.
Questo
è metà del problema davanti al quale siamo.
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