Il 19 luglio il Presidente dell’INPS, Tito Boeri, ha
tenuto un’audizione
informale presso la Commissione Migranti
della Camera dei Deputati (qui il link
all’evento). Il messaggio che propone, rispondendo anche ad alcune delle
numerose critiche che gli sono giunte in seguito alla pubblicazione del XVI
Rapporto annuale dell’Istituto di alcuni giorni fa è che bisogna, per
salvaguardare l’equilibrio dei conti della previdenza nel medio periodo,
regolarizzare quanti più lavoratori immigrati possibile, in parte sottraendoli
all’attuale condizione di lavoro nero causata dal loro status di clandestini.
In linea generale andrebbe promossa da ora in avanti una immigrazione regolare
e mirata ai settori di maggiore utilità. Il resto lo farà il mercato.
Viceversa chiudere le frontiere, costringendo tutti i
migranti a introdursi come “richiedenti asilo”, anche quando non ne hanno i
requisiti, con l’effetto di stazionare a lungo in una condizione giuridica che
gli impedisce la stabilizzazione, ha effetti solo negativi, perde le
opportunità che pure l’immigrazione potrebbe garantire, e potrebbe in
prospettiva addirittura “distruggere il sistema di protezione sociale”.
Il calcolo è semplice (come diremo, nel senso di
semplicistico): oggi gli immigrati regolarmente impiegati versano all’Inps un
complessivo importo di 8 Mld all’anno e ricevono complessivamente prestazioni
per ca. 3 Mld. Dunque in questo momento, a causa della età media giovanile, si
determina un saldo positivo per le casse dell’Istituto di ca. 5 Mld all’anno,
di cui ca 0,3 Mld versati da persone che sono di passaggio e non matureranno
mai i termini per un versamento pensionistico. Essendo ca. 3.000.000 se ne
deduce che versano in media 2.600,00 €/anno cadauno.
Ma secondo Boeri questo calcolo può essere esteso
all’insieme della spesa pubblica e resta positivo (anche se solo di 1,2 Mld).
Il calcolo dell’Inps, si scopre ascoltando al min.
7.30 della registrazione
dell’evento sulla Web Tv della Camera si fonda sull’aggiornamento delle previsioni demografiche
dell’Istat per il 2016 che, secondo il nostro, vedono una prospettiva di calo dell’immigrazione
che si stabilizzerebbe su livelli inferiori agli anni passati (da 230.000 a
155.000 ingressi annui), come sarebbe in calo l’intera popolazione.
Questo calo dell’immigrazione (vedi anche min. 9.01)
secondo una
simulazione della Ragioneria Generale
dello Stato avrebbe effetti negativi su Pil e produttività. Dunque la
simulazione dell’Istituto si basa su questa ipotesi di completo azzeramento dei
flussi di immigrati regolari, ovvero della loro crescita, e su un valore
stabile di 140.000 ingressi all’anno con il 5% di uscite (min. 10.00). Già qui
si manifesta un problema nell’uso delle stime e quindi della base di input nel
modello di simulazione (sul quale non ha fornito particolari metodologici);
infatti nel rapporto Istat si legge, a dire il vero: “Nella stima della
popolazione residente attesa per l'Italia un contributo determinante è
esercitato dalla previsione delle migrazioni con l'estero. Il saldo migratorio
con l'estero è previsto positivo, essendo mediamente superiore alle 150 mila
unità annue (133 mila l'ultimo rilevato nel 2015) seppure contraddistinto da
forte incertezza. Non si esclude l'eventualità, ma con bassa probabilità di concretizzarsi, che nel lungo termine
esso possa diventare negativo”. La bassa probabilità diventa insomma certezza.
Anche le previsioni della Ragioneria (cfr, p.7) sono
assunte a legislazione invariata, ma questa compie egualmente l’esercizio impressionante
di previsione fino al 2070 (spesa pensionistica ridotta rispetto al Pil al
13,1% dal 16,3 che rappresenta il tetto al 2044). Dalla tab 1 si legge che il
flusso netto di migranti è stimato tra i 155.000 dell’Inps (dato minimo, come
abbiamo visto) al 360.000 di Eurostat 2013 con tendenza a decrescere.
Come d’uso in questi modelli (che non si stancano di
sbagliare sistematicamente) dal momento t0 in poi tutto piega verso l’alto.
L’ottimismo non è del resto il sale della vita?
In particolare farei notale l’ineffabile fig. 1.4
“tasso di occupazione”, che è in calo nella parte storica, ma improvvisamente
da oggi salirà verso gloriosi orizzonti, addirittura superiori agli splendenti
anni novanta (ma non stupisce, perché la fonte sono i documenti di previsione e
programmazione del governo).
Su queste esili basi Boeri costruisce un castello di
ragionamenti che veste del roboante termine di “evidenze empiriche” (mostrando la debolezza epistemologica della
sua disciplina). Come vedremo “l’evidenza” dipende invece dalla teoria, e
infatti avendo davanti agli occhi la più marchiana di queste non la vede, e la
relega in una piccola glossa al termine del discorso: riducendola a frammento
privo di senso.
Nel produrre il suo castello, comunque, Boeri ci
fornisce alcuni mattoni: a base della stima del gettito e della simulazione
sono posti (min. 10.59) lavoratori regolarizzati che guadagneranno da 2.700 €
all’avvio fino a 9.500 euro al termine del percorso di carriera, crescendo del
1,5% all’anno. Sembrerebbero numeri alti, se non si fa caso che si tratta di
reddito cumulato annuale, non mensile. Al termine di una vita di lavoro gli
immigrati regolari e attivi guadagneranno meno di 1.000 euro al mese, e tassati
al 33%. In sostanza importiamo persone per tenerle per tutta la vita in
condizione di assoluta povertà.
Questa montagna di povertà è comunque per lui un
beneficio per il paese, o meglio per l’equilibrio di cassa dell’Inps; perché prima pagano, e per decenni, e poi fruiscono delle pensioni, quindi
perché alcuni se ne andranno nel frattempo (lasciando il gruzzoletto nelle
felici mani dei nostri), e infine perché molti muoiono prima (il buon Boeri ha
avuto cura di comunicarci che vivono in media di meno). In ogni caso andranno
per lo più in pensione a partire dal 2050 e in alcuni casi dal 2075 (min.
12.34).
Per questo alla fine la posizione è positiva di 36
Mld.
Per massimizzare questa sorta di estrazione di risorse
dalla disperazione dovremmo, quindi, riavviare i “Decreti flussi” (sospesi dal 2012, min. 14.10), e forse avviare
qualche sanatoria, grazie alle quali in passato gli immigrati regolari e
lavoranti sono passati in venti anni da 500.000 a 3.000.000. Secondo quanto racconta Boeri si è trattato di
una crescita forte nei primi anni e che oggi si sta arrestando (quella dei
regolari) a vantaggio dei lavoratori clandestini ed a nero.
Dunque, arriviamo
al punto: se in un sistema a
ripartizione c’è un calo della forza lavoro, perché cala la natalità, e
contemporaneamente aumenta la longevità, quindi la spesa per pensioni, si va in
sofferenza. Per questo, come dice, “l’entrata di migranti regolari permette di
aumentare immediatamente la popolazione dei contribuenti” (min. 19.30), mentre
le pur necessarie politiche per la natalità li aumentano dopo venti anni. Qui
salta all’occhio subito un’assenza che si confermerà fino alla fine: i
disoccupati. La popolazione dei contribuenti può aumentare solo in due casi,
secondo il nostro, o con nuove nascite o con nuovi arrivi. Evidentemente tutti
quelli che sono già in Italia lavorano o non vogliono farlo. Può sembrare
strano a chi cammini nelle strade, senza disporre dei privilegi del nostro, o
anche a chi dia un’occhiata distratta a questi grafici.
O a questo sulla disoccupazione per classi d’età.
Dopo questo snodo della demografia, arriva la risposta
all’obiezione sullo spiazzamento dei
lavoratori italiani da parte dei migranti. Vale la pena di seguirlo con
qualche attenzione, dice (min. 22.33): “non
c’è affatto evidenza empirica di questo. I lavoratori che sono stati
regolarizzati con le sanatorie non hanno sottratto opportunità ai loro
colleghi. Le analisi condotte evidenziano che la probabilità di separarsi da
un’impresa per i colleghi degli emersi è pari al 41%, se l’impresa cresce
aumenta solo del 1%. L’effetto di spiazzamento è dunque molto piccolo e
riguarda i lavoratori con qualifiche basse”. Dunque non c’è spiazzamento perché
le persone già occupate (anche qui i disoccupati sono invisibili ed ognuno è
pagato per quel che vale), quando
l’impresa cresce, non tendono a perdere il lavoro. Anche se fosse vero
(bisognerebbe vedere campione e modalità di definizione dei termini della
ricerca), si tratta di un caso molto particolare. Diciamolo così: secondo le
nostre indagini non c’è evidenza di una significativa propensione delle imprese
a licenziare i loro lavoratori stabilizzati per sostituirli con immigrati
quando crescono. Questo è possibile, infatti Robert Solow, di cui dopo diremo,
formulò la sua “teoria dei salari di efficienza” per dare conto dell’evidenza
secondo la quale molte imprese pagano salari più alti del necessario (ovvero di
ciò che potrebbero) per proteggere efficienza e fedeltà dei lavoratori. Simili
imprese esistono ancora (ed in tutti i settori, anche se in alcuni sono in
netta diminuzione).
Per i lavoratori qualificati, invece, la solita
“evidenza empirica” dice che non ci sono effetti. E quindi non ci sono
relazioni tra l’immigrazione e l’emigrazione dei nostri connazionali, dato che
questi sono mediamente più qualificati.
È comunque sorprendente questa affermazione (ma solo
per chi non fa mente locale agli assunti teorici dell’economia marginalista),
quando immediatamente dopo Boeri conferma che la gran parte degli immigrati
regolari si concentrano nella categoria degli operai (in particolare edili) e
in quelle degli alberghi e ristorazione; settori dove si registra un gap
salariale a loro danno del 15% (min 24.45).
Sembrerebbe una classica
“evidenza empirica”, no?
In particolare quando il Presidente dell’Inps dice che
(min 24.19) che in questi settori si registra anche una “riduzione dei nativi”
ed una contemporanea “crescita dei migranti”.
Quale evidenza migliore di una sostituzione?
Ma se si parte dalla posizione teorica (come dovrebbe
sapere chi ha letto almeno un solo testo di filosofia della scienza,
osservazione e teoria sono sempre intrecciate) che la disoccupazione non esiste
e non può esistere, in quanto il mercato offre sempre tutti i lavori che
servono al prezzo che risulta giusto in funzione della produttività marginale, allora
è chiaro che “sono gli italiani che non
fanno più quei lavori [a quei prezzi], più che essere gli immigrati che
spiazzano gli italiani”.
Diciamolo in un altro modo: i migranti offrono una
quantità di “lavoro” adatta per quantità e qualità alle caratteristiche della
relativa domanda. Gli italiani (“bamboccioni”, evidentemente) vorrebbero essere
pagati di più, irragionevolmente. E quindi, giustamente non lavorano. Ma non
possono essere davvero considerati disoccupati, perché nel termine entrano a
rigore solo quelli che lo sono involontariamente. Chi rifiuta di essere pagato
secondo il suo contributo marginale (che per definizione è quello che l’ultimo
lavoratore accetta) è volontariamente senza
lavoro.
Nella teoria marginalista (che è un fatto nella mente
di Boeri), formulata per la prima volta nel 1870, ogni produttore riceve sempre
un reddito (che sia salario, rendita o profitto) esattamente commisurato
all’apporto che il suo “fattore produttivo” reca alla produzione. In sostanza
l’assunto di base è che se il prezzo di un bene cala (ad esempio di un’ora di
lavoro), ciò farà infallibilmente aumentare la domanda, perché sarà quello il
livello al quale siamo disposti a comprarlo.
Infatti Boeri non cita neppure una volta, in quasi
un’ora di comunicazione, la parola “disoccupati”. Per lui, evidentemente, siamo
comunque in condizioni di pieno impiego. Ovvero abbiamo, secondo il gergo di
Milton Friedman, un tasso di “disoccupazione naturale” adeguato. Ciò con il 40%
di giovani italiani a casa a guardare i film o a chattare sui telefonini.
Una frettolosa controprova (a dimostrazione che il
nostro è cosciente della debolezza delle sue “evidenze”) la fornisce al min.
25.40: “l’immigrazione è aumentata proprio negli anni in cui la disoccupazione
diminuiva”. Ora, a parte che aveva appena finito di dire che l’immigrazione era
in calo, i dati sul calo della disoccupazione, volonterosamente forniti
dall’Inps per giustificare il Job Act, non considerano che contemporaneamente è
cresciuta la quota di “inoccupati” (ovvero di chi non cerca neppure lavoro, o
meglio non lo ha cercato delle settimane precedenti alla rilevazione
campionaria). Ma si sa, sono tutti “bamboccioni”.
Addirittura, arriva a dire che “l’aumento
dell’occupazione dei migranti su basse qualifiche fa aumentare i salari dei
nativi, spingendoli su occupazioni più qualificate”. E si capisce, se non c’è
disoccupazione dovranno lavorare per forza, e trovando i lavori a basso salario
occupati lavoreranno meglio.
Di qui la sua conclusione: abbiamo bisogno di convertire tanti più lavoratori irregolari in
regolari, a partire da quelli che ci sono già.
Per interrogarci su questa compatta posizione, che
giunge a conclusioni che possono anche essere accettate per una via piena di
trappole, può essere utile riguardare la critica che un altro grande economista
neoclassico (dunque non un pericoloso estremista) come il premio nobel Robert
Solow, scrisse nel 1998 in risposta alle politiche
attive del lavoro che Clinton aveva promosso, con poco dibattito e molta
retorica, nel 1996. Quelle politiche che sono il cavallo di battaglia con il
quale anche Tito Boeri (a partire da un suo studio del 2000) ha costruito la
sua carriera.
Il libro è “Lavoro
e Welfare”, e lo abbiamo letto qui.
Solow è un grande specialista, il più grande del campo, e nel 98 nelle Tanner Lectures attacca frontalmente
l’intera logica della costruzione secondo la quale rendere precaria la
condizione di vita delle persone incentiva il mercato del lavoro. Io non
concordo con molte delle affermazioni del nostro (in particolare sulla sua
visione dell’umano egoismo e dell’economia dell’altruismo) e con il suo modo di
ragionare geometrizzante, ma concordo che “non basta che i cani randagi si
comportino come cani da riporto perché la selvaggina cominci ad abbondare”, la
domanda conta.
Il caso che viene illustrato nella seconda lezione è
quello in cui il mercato del lavoro viene ampliato con l’immissione forzata
(perché sono sottratti i sussidi e le persone sono messe di fronte
all’alternativa di morire di fame) di nuovi lavoratori disperati. In questo
caso, che è strutturalmente uguale a quello in cui i nuovi lavoratori non sono
ex sussidiati ma immigrati, si provocano quelli che chiama “effetti a cascata”.
Il lavoro, per Solow, non è infinitamente elastico, non basta raggiungerlo per
averlo. Ciò che succede è che, scrivevamo, la forza lavoro dequalificata,
costretta a mettersi in gioco a qualsiasi prezzo, spingerebbe verso il basso i
salari dei lavoratori appena più qualificati. Un datore di lavoro potrebbe
scegliere di sostituire due lavoratori attivi con tre lavoratori ex –welfare (o
immigrati) più economici (ma da formare). Ma questi due, ex lavoratori a questo
punto si rimetterebbero in cerca di lavoro sospingendo giù i salari dei
lavoratori “di secondo livello” (cioè ancora più qualificati di un piccolo
gradino), e li sostituirebbero. Così via fino a qualche livello intermedio nel
quale l’onda si smorzerebbe.
Tutto questo “rimescolamento” avrebbe anche
implicazioni macroeconomiche, agendo sulla domanda aggregata e sugli altri
fattori strutturali dell’economia (inclusa la produttività e l’attitudine
all’innovazione, entrambe danneggiate), ed avremmo alla fine “un’economia con un salario complessivamente
più basso”. Cosa che è probabilmente lo scopo originario di alcuni nella
manovra.
In altre parole Robert Solow trae la conclusione
esattamente opposta a quella di Tito Boeri: i
salari scendono, non salgono.
Naturalmente Boeri pensa, al contrario di Solow, che
la disoccupazione (che è sempre “volontaria”) è determinata dal mancato
incontro tra la disponibilità a pagare secondo il contributo marginale dalle
imprese e una richiesta irragionevole di salari “troppo alti”. Far aggiustare i
salari, aumentando la competizione, è quindi la strada per la piena
occupazione.
Resta a casa solo chi lo vuole.
La soluzione di Solow era che “bisognerà deliberatamente creare un adeguato numero di posti di lavoro
per gli ex assistiti, o attraverso una qualsiasi forma di impiego nel settore
pubblico, o attraverso l’estensione di speciali e sostanziosi incentivi al
settore privato (profit e no profit)” (p. 43). E farlo “in quantità, localizzazione e forma adatti
alle persone che dovranno occuparli”.
Ma per farlo servirebbe un ruolo dello Stato che
evidentemente Boeri lavora per distruggere. E bisogna uscire dalla logica della
svalutazione del lavoro che lo vede da quindici anni tra i più decisi alfieri.
Dunque, ricapitoliamo:
la questione è interamente contenuta
nella tesi che non c'è spiazzamento. O per dirlo meglio, che questo è limitato
e relativo solo a qualche lavoro poco qualificato. Nella logica interamente a
breve termine di Boeri la cosa si spiega se si definisce lo spiazzamento come la
sostituzione di un lavoratore autoctono con uno immigrato a parità di condizioni
e salario accettato. In questi termini lo spiazzamento è minimo (a parità di
condizioni si tende a scegliere un connazionale, per diverse ragioni ambientali
che possono anche essere diverse dal semplice razzismo, diciamo che è più
adattato all'ambiente di lavoro). Mentre quando un lavoratore non autoctono si
rende disponibile per lavorare in condizioni di minore costo diretto ed
indiretto (ovvero con meno diritti e sicurezze), nella logica di Boeri, non c’è
spiazzamento ma normale funzionamento del mercato e beneficio sociale; dato che
questi produce la stessa quantità di “lavoro astratto” con minor costo. Nella
prospettiva teorica dell'economia marginalista non c'è del resto, per
definizione, sfruttamento (ogni fattore è sempre pagato al suo beneficio
marginale) e una maggiore efficienza si traduce sempre in risparmi
(dell'imprenditore) e questi in investimenti.
Dunque nella sua prospettiva si ha un vantaggio
immediato dall'abbassamento medio del costo del lavoro per i fattori più abbondanti,
non c’è qui alcun problema e resta solo il tema dell'equilibrio di cassa
immediato dell'ente che dirige.
Come ogni dirigente, in fondo disinteressato dei guai
che lascia al successore (e come tutto lo short terminism dell'economia
contemporanea), quindi, avere sempre più giovani che pagano contributi e che in
alcuni casi hanno l’ulteriore vantaggio di tornare a casa prima di maturare la pensione,
è un saldo positivo.
Pazienza se la tendenziale riduzione dei salari (che comunque
nega), e l'incremento della disoccupazione autoctona (che è fuori del suo orizzonte
teorico), determina una dinamica demografica sfavorevole che nel tempo
esaspererà il fenomeno. Del tempo, come di molte altre cose, Boeri in realtà non
si occupa, il mercato produce il suo equilibrio.
E peccato anche se le rimesse all'estero sono mancata
domanda interna e sbilancio commerciale, questo è un problema di un altro
ufficio.
Solo su una cosa ha ragione: non si possono accogliere
migranti economici con le sole procedure dei richiedenti asilo, lo Stato deve prendere
una decisione.
Ma per questo servirebbe un Piano industriale, ed una franca
discussione pubblica. Ciò che del tutto manca.
Inseguendo gli equilibri contabili del momento.
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