Ancora alcuni interventi degli esponenti del “Gruppo Krisis”, Ernst Lohoff e Norbert
Trenkle, dopo quelli del 2008 e 2012, sulla crisi finanziaria ed il “capitale
fittizio”, rispettivamente, che avevamo letto qui.
Del “Gruppo
Krisis” abbiamo parlato nel post, citato; dalla fine degli anni ottanta esso
è attivo, intorno alla omonima rivista, nello sviluppo della critica marxista,
in particolare concentrandosi sulla teoria del valore e del denaro. Questo tema
è di tale importanza che conviene tornare su alcuni brevi testi, dei quali due
sono antecedenti alla rottura teorica con Robert Kurz (nel 2004), che abbiamo
letto in “Le
crepe del capitalismo”, e uno è successivo. Nel testo in esame Robert Trenkle si interroga,
nel 1998, sul concetto di “valore” nella teoria marxista, e Lohoff, nel 2000,
sulla teoria delle crisi. Quindi nel saggio del 2012, che firmano insieme,
ridescrive il ciclo della crisi del 2008.
Uno dei punti di differenza nell’analisi è che prima
della rottura tra Krisis e Exit la “teoria del valore” del Gruppo è imperniata
sul concetto di capitale “fittizio”, in quanto in sostanza anticipazione di
valore futuro (il punto è certamente fondato, rintracciandosi anche nelle
analisi di scuole molto diverse e distanti, come il keynesismo radicare di Amato
e Fantacci e persino il liberismo temperato di Mervyn
King), mentre dopo di essa l’analisi del Gruppo Krisis rimanente attenua
questo piano di critica, per evidenziare la funzione sistemica della creazione
di denaro a partire da una funzionalizzazione del tempo, e quindi in qualche
senso riconosce la sua “realtà” (fin che dura la giostra). Viene messa a fuoco quindi
la nozione di “merci del secondo ordine”.
Il sistema complessivo assomiglia insomma ad un
praticante di surf, resta in piedi solo fino a che riesce a farsi portare
dall’onda e restarvi sul crinale, precipita inevitabilmente e rovinosamente non
appena questa perde slancio o lui perde equilibrio.
Partendo dal testo del 1998 Trenkle sviluppa
un’analisi del “lavoro” come astrazione partendo dalla tradizione marxiana, ma
in qualche modo anche contro di essa (almeno contro alcune parti). Ovvero del
lavoro come attività intrinsecamente connessa con la nozione di “merce”, e con
quella di “valore”. Un’attività che è molto lontana dall’essere naturale e
spontanea, e che implica l’esercizio di razionalità astratta, finalità allo
scopo, tempo misurabile e lineare, concorrenza. In questa accezione si tratta
di un principio strutturale di base dell’organizzazione sociale, ma di questa organizzazione sociale,
ovviamente. Nel “Saggio su Friedrich List”,
del 1845, un giovane Marx scriverà: “il ‘lavoro’ è, per sua essenza, l’attività
non-libera, inumana, asociale; esso è condizionato dalla proprietà privata e la
crea a sua volta”.
Ripercorrendo la tesi del Gruppo, circa l’esistenza di
una faglia profonda nel lavoro del filosofo di Treviri (il “Marx essoterico” e
quello “esoterico”, che abbiamo visto
nella ricostruzione di Kurz), Trenkle ricorda come numerosi passaggi de “Il capitale”, invece, rileggano il
lavoro come una sorta di “caratteristica antropologica eterna”, dunque valevole
per ogni società possibile. La frattura è gestita in qualche modo distinguendo
tra “lavoro concreto” (che è il cucire, il macellare e via dicendo) e “lavoro
astratto”, in cui i suoi risultati sono ricondotti e ridotti alla metrica del
tempo e del denaro.
Per Trenkle questa distinzione non scende abbastanza
in profondità: l’astrazione ha a che fare
direttamente con il lavoro stesso in ogni sua forma. Questa astrazione,
maschile come dirà, non è solo imposta storicamente, ma è “in grado di
dominare, sottomettendo gli uomini al suo potere, l’intera società” (p.33). Il
lavoro è quindi un tempo specializzato, che espelle strutturalmente le altre
dimensioni della vita, interessi, sentimenti, svago, cura. Un discorso simile
lo ha fatto, a suo tempo, Andrè Gorz, di cui abbiamo letto “Metamorfosi
del lavoro”. La separazione del lavoro crea le sfere separate che sono
una delle caratteristiche dell’organizzazione sociale della modernità. Dunque
il ‘lavoro’, per come lo concepiamo quando pensiamo ad esso (un’attività
limitata, utile, produttiva di valore, razionale), è una forma specifica della
società mercantile ed è in sé “astratto”, separato dal resto dei rapporti
sociali. E richiede che il soggetto che lo eroga sia inserito in una macchina
produttiva a sé esterna, che lo obbliga, con la sua assenza da sé, a cedere in
vendita una parte del suo tempo. O meglio, a specializzare e cedere in un solo
gesto, un tempo. Cioè, con i termini dell’autore: “vendere la propria energia
vitale sotto forma di forza-lavoro, per un fine che è loro estraneo e
indifferente”.
Questo processo di astrazione è strettamente connesso
con la costruzione di un’altra infrastruttura concettuale essenziale della
modernità: il tempo astratto, lineare
ed omogeneo. Quella infrastruttura concettuale che è stata messa a punto nella
lunga evoluzione della rivoluzione scientifica, tra il 1500 ed il 1700. Il
tempo che conta è quello misurabile, la misura è in esatto rapporto con la
produzione di merci e con la possibilità del salario e del profitto.
Dunque ogni lavoro, sempre, è la riduzione del tempo
ad una quantità “puramente astratta e reificata di tempo speso”, che rende
scambiabili tra di loro i relativi prodotti. Cioè il ‘lavoro’ in quanto
astrazione forma la sostanza del valore, nella misura i cui esso incorpora nel
suo stesso concetto la misura nel tempo astratto. In altre parole, malgrado il
marxismo tradizionale la veda così, per la scuola di Krisis il lavoro non crea
il valore in modo ovvio e banale, come il panettiere fa il pane in modo tale
che il cumulo di pane finisca per rappresentare, in rei, il lavoro ormai
trascorso, dunque “morto”.
Al contrario, misurare il pane come prodotto di un
“tot” di lavoro, determinando rispetto ad esso il suo valore, presuppone quella
che l’autore chiama “l’astrazione di un’astrazione”: l’esistenza di un concetto di tempo, ordinato, astratto e lineare, che
separa la vita stessa in sfere distinte, e che sarebbe stato inattingibile per
una persona prima della modernità. Non era ‘lavoro’ nel nostro senso quel
che si svolgeva, ma parte inseparabile degli obblighi, delle relazioni e degli
affetti, che costituiva la persona stessa. Parte, cioè, del suo ruolo nel mondo;
era, come dice: intimamente legato alla totalità della sua esistenza.
‘Reificazione’
è qui uno dei concetti chiave (bisogna riandare a Lukacs, per il quale abbiamo
riletto lo studio
di Honneth), perché se la forma astratta del lavoro (che però è in sé astrazione) forma la sostanza del
valore, questa si presenta davanti a noi direttamente come forma reificata;
come una sorta di autorità naturale che si presenta davanti a noi come esterna.
Ma non appare direttamente davanti a noi come “merce”;
questo avviene solo quando viene inserita nella circolazione, e nello scambio. Per
Trenkle è già nel processo di astrazione del lavoro che è incorporato il fare
merce; infatti tutti i processi di produzione, che richiedono lavoro, sono sin
dall’inizio organizzati in vista dello scambio, dunque per fare merci. A loro
volta merci pensabili solo in quanto parte della valorizzazione del capitale.
Secondo questo modo di porre la cosa, alla fine “la sfera della circolazione,
il mercato, non è semplicemente al servizio dello scambio delle merci; ma sono
il luogo dove il valore, che è rappresentato dalle merci, si realizza; o dovrebbe
realizzarsi” (p.42). Dunque il “valore d’uso”, in certo senso inevitabile, è di
fatto solo un effetto secondario, può anche non esservi, purché ci sia valore
nello scambio.
Ora, nella teoria marxiana, come noto, quando si dice
che il valore (che si concretizza nello scambio, essendovi però sin dall’inizio
preordinato) è relazionato alla quantità di lavoro impiegata, si intende
quantità media socialmente necessaria per produrla. Cioè, non si intende il
tempo del singolo stabilimento, ma quello che nella media si impiega a produrre
la merce in oggetto. Ma questo valore, considerato rispetto alla produttività
media dunque, non si presenta nell’oggetto in sé, ma compare sempre nella
relazione con altri, ovvero nel mercato. Bisogna notare subito che fare questa
affermazione non significa neppure (che altrimenti ricadremmo in una forma di
marginalismo) che il valore è creato
nella sfera dello scambio: esso preesiste, tuttavia appare solo quando entra in
contatto.
Non si tratta, come avrebbe voluto lo stesso Engels, quindi
di calcolare quante ore di lavoro sono in una tonnellata di una data merce (in
media, certo), e perciò determinare il valore ‘reale’ del prodotto prima che il
mercato intervenga, speculando, ad alterarlo. Questa era la strada logica del
socialismo reale, ma si tratta di riconoscere che il ‘valore’ non è una
categoria empirica, non è materiale; è piuttosto “una categoria che si impone
come un feticcio alle spalle delle persone e impone loro le sue leggi cieche”.
Dunque quando la “teoria della crisi” (come ora
vedremo) afferma che il capitale, a partire in particolare dagli anni settanta,
ha escluso sia progressivamente che radicalmente la forza lavoro viva dal
processo di produzione fino a giungere ai suoi limiti storici di espansione,
non compie una semplice deduzione logica (una meccanica conseguenza dall’essere
in qualche modo le ore di lavoro sempre meno per produrre un ‘tot’ di merci),
come nel positivismo marxista, ma compie una operazione di comprensione
teorico-empirica. Ovvero lo deduce dall’osservazione di fenomeni empirici in
base ad una comprensione teorica.
Si tratta qui di riconoscere la crescita della
produttività per unità di prodotto, in rapporto all’impiego di lavoro, dalla
caduta della capacità di sostenere la domanda di crescenti parti del mondo, e
dall’esplosione del capitale fittizio finanziario, sempre a rischio di
repentina svalorizzazione.
Questa teoria è presentata da Ernst Lohoff nel secondo
contributo “Fughe in avanti. Crisi e
sviluppo del capitale”, nel 2000. Il capitalismo appare agli autori, in
pieno clima di “grande moderazione”, attraversato da una tendenza di crisi,
malgrado “il mondo incantato della globalizzazione” ed il boom di un
“capitalismo da casinò”, i segnali sono la crisi messicana del 1995, quella
asiatica del 1997 (in effetti prodromi del crollo maggiore del 2008), ma anche
Russia e Giappone. La reazione si fonda sull’accelerata creazione di “valore
fittizio” nei centri occidentali mentre, con tono profetico, l’autore chiarisce
che “la contraddizione economica, che da un momento all’altro potrebbe
scoppiare fragorosamente, accumula di mese in mese il suo vertiginoso potenziale
di rischio” (p.53). Il punto è proprio questo, mettendo in relazione, secondo
una teoria ma con sensibilità per l’osservazione empirica, i fatti disparati
Lohoff riesce a denunciare con sette anni di anticipo l’accumularsi di un
“potenziale di rischio” che si dovrà necessariamente scaricare. Questa denuncia
è antecedente anche al crollo delle .dot, .com del 2001, ed all’avvio della
bolla immobiliare che ne è seguito (in effetti è contemporaneo alla bolla
tecnologica, quando il capitale generato con abbondanza nella finanza ombra si
scaricava, attraverso i fondi di ‘venture’ ed altri canali, anche diffusi, sugli
investimenti tecnologici anche più improbabili e su innumerevoli start-up del
settore).
In Marx, sostiene l’autore, una teoria della crisi è
connaturata all’intero sforzo della critica, e le crisi periodiche e ricorrenti
del capitalismo “sono solo delle temporanee e violente soluzioni delle
contraddizioni esistenti, violente eruzioni che ristabiliscono momentaneamente
l’equilibrio turbato” (K.Marx, Il
Capitale, p.302). Non si tratta dunque schumpentariamente di un inevitabile
momento di distruzione, che libera il passo al successivo sviluppo (come vedrà
anche Bernanke nel 2012), ma un passo verso un limite interno inaggirabile.
Esiste già dalla seconda internazionale una linea
interna nella tradizione marxista, che oscura questa affermazione marxiana del
limite interno del sistema di produzione capitalista, dissolvendolo nell’attesa
che il proletariato, crescendo per effetto dell’espansione del modo di
produzione industriale capitalista, ne prenda il testimone. La centralità della
lotta di classe, e della tendenza rivendicativa che piano piano si afferma,
oscura quindi la tesi della crisi che in sostanza viene portata avanti dalla
sola Rosa Luxemburg e Henryk Grossmann. La questione non si limita alla “caduta
tendenziale del saggio di profitto”, o meglio il meccanismo analitico marxiano
va compreso nel suo complesso: il capitale orienta le sue difficoltà che
nascono dalla tendenza, commisurata alla concorrenza, di ridurre sempre il
lavoro vivo rispetto al capitale costante impiegato, ovvero di aumentare la
produttività, grazie ad una continua espansione quantitativa e tecnica. Ma il
consumo resta sempre, rispetto alla massa delle merci prodotte un sottoconsumo
per rendere possibile il profitto. Con le parole di Marx “il capitale è di per
se stesso una contraddizione in divenire”, e questo (una contraddizione che si
dispiega e ‘diviene’) “perché (cerca) di ridurre il più possibile la durata del
lavoro, mentre d’altra parte pone la durata del lavoro come unica misura e
fonte della ricchezza”. Se si può essere un uomo attivo, e comprare merci
stando nella società, solo se, e nella misura in cui, si ‘lavora’, e se il
‘lavoro’ è tempo misurato ed organizzato, allora l’effetto composto e
tendenziale della interna tendenza della tecnica e di ogni operatore economico
(le due cose sono connesse, in quanto la tecnica è orientata
da questi) a ridurre sempre il ‘lavoro’ determina
uno iato strutturale tra la produzione di merci e di valore. Ma è ‘merce’
ciò che ‘vale’, e viene prodotto solo ciò che è ‘merce’, quindi il sistema è
dinamicamente entro una spirale di contraddizioni crescenti, cui può sfuggire
solo allargandosi costantemente.
Il capitale, come insieme dei segni di valore (fondato come
altrove abbiamo sempre visto sulla fiducia complessiva del sistema sociale) è dunque dipendente, in ultima analisi,
dalla capacità sempre rinnovata di immettere nel processo di produzione, al
livello di produttività che si ha, altro lavoro vivo per sostituire quello che
lo sviluppo tecnico espelle. Parlare di “caduta tendenziale del saggio di
profitto” (che va compreso come parte di una tensione che ha anche ‘cause
antagoniste’), significa per questo riconoscere che il capitalismo è un
movimento dinamico costretto per sua interna logica programmatoria a crescere
sempre.
Ma qui subentra quel che Marx vide solo logicamente:
l’esistenza di un limite.
Certo il limite viene sempre spostato, spesso
attraverso le crisi, dall’espansione quantitativa (ad esempio dall’apertura del
blocco sovietico e dall’incorporazione delle masse cinesi nel sistema di
commercio e soprattutto nel circuito finanziario occidentale, ovvero dalla
sussunzione del capitale cinese come sussidiario del capitale occidentale), e
da quella tecnologica. Il capitale di tanto in tanto cambia ‘piattaforma tecnologica’
e con questa apre nuovi settori di produzione che riescono ad incorporare altro
lavoro vivo.
A questo punto Lohoff passa a polemizzare con
l’influente tendenza analitica a inquadrare lo sviluppo tecnico e le forme
egemoniche del capitale come ‘onde lunghe’ (che in questa fase porta i nomi di
Wallerstein, Arrighi e Mason). Mentre le precedenti innovazioni a pacchetto
hanno aperto enormi nuovi mercati, la tesi del nostro è che la microelettronica
stia producendo qualcosa di diverso: induce impulsi di efficientizzazione e
razionalizzazione senza produrre realmente nuovi settori, prodotti, o domande.
Questa ipotesi del 2000 al momento è stata solo in
parte confermata, nuovi prodotti sono stati introdotti, o si sono espansi e
sviluppati creando nuovi bisogni e nuove aree di valorizzazione (basti pensare,
ad esempio, all’espansione delle telecomunicazioni), ma per ora non tiene il
passo tendenziale della distruzione di lavoro vivo. Ne è prova la tendenza
mondiale alla deflazione di molti valori (in parte occultata dall’inflazione di
altri, nel contesto della polarizzazione sociale e della lotta delle Banche
Centrali per tenere in piedi il sistema finanziario e i suoi ‘titoli’).
La partita si gioca quindi nello scontro tra le forze
che si manifestano nella ‘caduta tendenziale’, quelle che dispiegano
l’espulsione del lavoro e quindi la riduzione del ‘valore’ che si determina
nello scambio, ovvero nella capacità di acquisto, e delle forze che riavviano
nuove basi, assorbendo lavoro e ponendo la condizione per la creazione di nuovo
‘valore’. Ovvero si gioca nella loro velocità e forza relativa.
Qui sembra intervenire “l’economia da casinò” (che è un’espressione anche di Keynes),
venendo in soccorso di un sistema di anticipazione del valore futuro (ovvero di
espansione del debito), mediato dallo Stato, che sembrava avere raggiunto i
suoi limiti. La ‘soluzione’ nella quale il sistema inciampò, trovandola in
effetti dal catalogo delle cose in corso e delle forze in via di accumulazione
da decenni, fu la liberazione della dinamica di creazione privata di capitale
fittizio. Che in questo testo del 2000 è letto da Lohoff come anticipazione di
futuro. Oggi, dunque, “la base dell’economia è diventata, a livello
generalizzato, il profitto fittizio privato, e l’utilizzazione reale di lavoro
sopravvive soltanto come appendice della valorizzazione fittizia di capitale”
(p.79).
Qui bisogna capire però i termini, si tratta di
un’assurdità, ma di una assurdità semplice: le catene di debito e credito si
allungano, interconnettendosi sistemicamente in modo inestricabile e fragile ad
un tempo, fino a sopravanzare e incorporare tutti gli investimenti attuali e le
stesse forze di lavoro di tutti. Queste catene sono ‘fittizie’ in quanto
connesse con ciò che non c’è ancora e potrebbe non esserci mai, la restituzione
nel tempo di un’anticipazione che però viene fatta valere come valore attuale
attraverso algoritmi di calcolo e complessi sistemai sociali e tecnici di
regolazione del rischio accettati per buoni.
Dunque attraverso una creazione di ‘valore’
(finanziario, ovvero di titoli cartolarizzati, di contratti assicurativi
complessi, di altre forme di obbligo) che è strutturalmente incerta, ma viene
tenuta ‘liquida’ con enorme dispendio di energie politiche e di potere, di
enorme momento relativo, vengono immessi come capitale profitti ancora non
realizzati, ma dai concreti effetti. In questo modo la sovrapproduzione (ovvero
il sottoconsumo di troppi) viene superata e può continuare il processo di
accumulazione, con beneficio di molti.
Ma di tanto in tanto può sorgere, per i più diversi
motivi, un’incertezza verso la possibilità di monetizzare questi ‘valori’, in
questo caso la liquidità scompare repentinamente e i titoli si manifestano per
quello che sono sempre stati: delle
scommesse incerte. L’effetto è la rottura delle catene creditizie, il
panico, e la contrazione di tutte le attività economiche. Nel 2000 l’esempio a
cui pensava erano probabilmente le crisi asiatiche.
Questo fenomeno di “automoltiplicazione speculativa”
ha preso slancio enorme da quando la creazione di denaro è stata svincolata dal
riferimento indiretto, per quanto improbabile, all’oro. E poi si è gonfiata con
la deregolazione degli anni ottanta. Questa “automoltiplicazione” riesce a
funzionare sia dal lato dell’offerta come della domanda fino a che l’emissione
di azioni, o di obbligazioni, riesce ad attirare capitali monetari e il loro
possesso, per gli acquirenti, può essere utilizzata come capitalizzazione per
generare credito. In questo modo, con mossa antica (il prototipo è la Banca
d’Inghilterra, che inventò la moltiplicazione del denaro), il denaro riproduce
se stesso in due mosse. Ma si fa molto meglio, perché i titoli (in quanto fonte
di flussi di reddito programmati, cioè di futuro), possono essere reimpacchettati
e rivenduti più volte, ogni volta facendo anche da sottostante per aperture di
credito. Ovvero per generazione dal nulla, con una scrittura contabile in
partita doppia, di nuovo denaro anche se ‘provvisorio’ (si genera all’atto del
credito, si distrugge all’atto della restituzione, quando la scrittura
contabile si chiude). È per questo che strutturalmente il sistema, in tutti i
suoi capillari, deve continuamente espandersi.
Tutto questo, dice Lohoff, funziona “come un colossale
programma congiunturale”. Che prima o poi dovrà raggiungere i suoi limiti.
Mancavano sette anni.
Dodici anni dopo Lohoff e Trenkle vedono che il peso
del capitale finanziario è ulteriormente esploso, portando il valore nominale
delle transazioni giornaliere all’incredibile valore di 4.700 Mld di dollari,
di cui meno dell’1% è riferibile al mercato dei beni. Per cui ormai al centro
della accumulazione del capitale, come chiariscono anche le ultime letture che
abbiamo fatto, è posta la compravendita di azioni, titoli di debito e altre
promesse di pagamento e la cosiddetta ‘economia reale’ si è tramutata in una
mera appendice di quella ‘finanziaria’.
La crisi attesa e annunciata nel 2000 è, però, nel
frattempo esplosa con violenza inimmaginabile nel 2007-8, e dalla fase in cui
tutti aspettavano la prosecuzione eterna della ‘grande moderazione’ (poca
crescita aggregata ma molta stabilità monetaria e dei titoli), tutti si erano
rivolti alla critica della ‘economia finanziaria’. Ancora nel 2006 la FED, come
abbiamo
visto, prevedeva solo una lieve increspatura trimestrale come effetto
dell’imminente (anzi in corso da tempo) sgonfiaggio del mercato immobiliare sul
quale era stata costruita una piramide di obbligazioni che si allargava al
mondo intero e che era completamente invisibile per i modelli di simulazione
dell’istituto.
Il modello era diventato ‘finanza brutta’ verso
‘economia reale buona’.
Lohoff e Trenkle non stanno al gioco: per loro la
reale situazione economica è invertita, anche se la crisi si è manifestata
nella finanza, ed in modo eclatante, la causa non è in essa. La causa è nel
feticismo del capitale, ovvero nel fatto che lo scopo della produzione, e
dell’intera economia, non è la soddisfazione dei desideri umani e degli umani
bisogni (per quanto possa essere complesso questo termine), ma solo la
trasformazione del denaro in più denaro. Lo scopo è la tesaurizzazione per se
stessa.
Con un apparato teorico del tutto diverso (Keynesiano)
è la stessa cosa che lamentano
Amato e Fantacci.
Il capitale è infatti tale se produce una sua propria
valorizzazione, altrimenti si dissolve in quanto tale (restando in forma
eventualmente di oggetti materiali). Dunque guardando con taglio storico si
notano dei cicli (è il punto esattamente di Arrighi) nei quali, ad un certo
punto la massa di valore accumulato non trova più sbocchi redditizi in modo
adeguato, per effetto di diversi fattori tecnologici, competitivi e financo
geopolitici, e cerca scampo spostandosi nella finanza. La crisi è quindi di
sovraccumulazione, e determina per un certo tempo una crescita surrogata in
forma di ‘capitale fittizio’, cioè accumulando titoli di credito che
attualizzano valori futuri.
È però quando si incontrano i limiti (si potrebbe dire
‘di decenza’) anche di questa forma di crescita appoggiata sulla fiducia nel
futuro che si ha il crollo che era stato solo rinviato.
La tesi di Lohoff e Trenkle è che questa volta il
ciclo è terminale, “dopo la fine del boom fordista del dopoguerra, un’accumulazione
reale in grado di sostenersi da sola è ormai definitivamente impossibile”. Questa
coraggiosa affermazione si appoggia sulla valutazione che l’incremento della
produttività connessa con la rivoluzione informatica e la nuova ‘piattaforma
tecnologica’ in via di insediamento hanno portato troppo avanti la rimozione di
forza lavoro dai settori “produttivi di valore”, scavando sotto la propria
base. In sostanza è un modo diverso, e più radicale, di parlare di
indebolimento della domanda per effetto della polarizzazione sociale e magari
di “stagnazione secolare”. Al di là di ogni possibile rinvio e trucco basato
sulla ‘fatina fiducia’ la base del ‘valore’ (termine come abbiamo visto all’inizio
da concepire in un nesso con il ‘lavoro’, la ‘merce’ e la ‘circolazione’) è la
capacità di sostenersi nella produzione. Se troppo pochi lo fanno l’intera società
poggia su basi fragili. Cioè finisce per poggiare su una inversione del segno
temporale: si apprezza come ‘valore’, e quindi si scambia, ciò che ancora non c’è,
semplici promesse.
E, come ben dicono Amato e Fantacci, questa circolazione,
tenuta liquida con tutte le forze a disposizione, viene tenuta costantemente
impagata, ogni titolo viene rinviato, reimpacchettato, ogni credito prolungato,
al fine di non giungere mai al momento del saldo. L’accumulazione della finanza
è fondata sull’espansione, non sul pagamento, ovvero sull’asservimento
(implicito nel rapporto di debito) e non sulla ‘pace’ (pagare è fare pace, come
dicono gli autori).
Con le parole di Lohoff e Trenkle questo essenziale
effetto è descritto così: “con l’estinzione del titolo di proprietà (la
riscossione di un credito, la scadenza di un future etc) svanisce anche il
capitale addizionale che esso rappresenta. È necessaria la sostituzione con un
nuovo titolo di proprietà, prima di iniziare una nuova espansione” (p.15),
necessario, sia chiaro, a livello sistemico.
Dunque la produzione di ‘capitale fittizio’ è una
necessità sistemica. Almeno fino a che un nuovo ciclo di espansione capace di
reggere sulle proprie gambe non possa sostituirne la funzione (ma mentre Arrighi,
che vede la cosa con sguardo geopolitico, lo immagina possibile, nello
spostamento ad est, gli autori di Krisis, che lo vedono con sguardo filosofico,
lo escludono andando in sostanza a ragionare su una società del post-lavoro).
Alcune ragioni per cui vedono senza uscita la
situazione sono connesse con le reazioni a corto raggio che il sistema ha
preso, una parte del dispositivo vede le Banche Centrali (attraverso i QE, in
particolare, o comunque allentando i criteri di merito di credito) assorbire in
misura sempre crescente ‘titoli spazzatura’, ovvero illiquidi e potenzialmente
deprezzati. Anche se li assorbono con un ‘aircut’ tendono a trasformarsi
progressivamente in “bad banks”, discariche speciali del capitalismo fallito.
A parere degli autori ciò accumula un “gigantesco
potenziale di inflazione”, perché prima o poi i nodi giungeranno al pettine
provocando “una svalutazione del medium monetario”. Credo che questo sia in
sostanza un pregiudizio singolarmente sincrono con l’impostazione monetarista
(ovvero quantitativa) della moneta; l’inflazione si sta già dando, ma non nella
moneta generale, bensì nella moneta di secondo ordine dei titoli stessi, i cui
valori continuano a crescere senza una relazione diretta e proporzionale con i
rendimenti. Tra le diverse parti dell’economia (anche se nominalmente sono tutte
intercambiabili) ci sono dei firewall all’opera, per cui si registra da tempo l’evidenza
di aree di imponente inflazione, per il vorticoso circolare di titoli liquidi
nel contesto di aspra competizione e piena occupazione dei fattori produttivi,
anche umani, e di aree, più vaste ma di minore ‘valore’, di persistente
deflazione, fortemente stagnanti e nelle quali nel contesto di ancora più aspra
competizione si registra una netta sottoccupazione dei fattori produttivi.
In effetti è ciò che descrivono altrove. Ma poiché l’inflazione
è quel fenomeno per il quale le merci valgono sempre più rispetto al denaro che
si deprezza non mi appare appropriato applicarla (anche se ci sono economisti
come Hans-Werner Sinn che sono in accordo con questa posizione) ad un mercato
in cui le “merci” (del secondo ordine) non hanno consistenza materiale, essendo
essenzialmente futuro, e in caso di crisi più che accrescere di valore lo
perderebbero. Il canale di trasmissione che porterebbe la svalutazione del
capitale fittizio (ovvero la perdita del suo ‘valore’) in svalutazione del
capitale monetario (cioè del ‘medium monetario’) non mi è chiaro.
Nel seguito dell’articolo gli autori criticano la
costruzione europea della moneta unica, mostrando come essa sia stata
progettata “a testa in giù” (in assenza della necessaria integrazione nelle
altre dimensioni economiche) e provochi in effetti divergenza e
deindustrializzazione nei paesi periferici, ovvero più deboli.
La spiegazione del fenomeno dell’accettazione di
questo patto è che i paesi oggi svantaggiati “hanno scambiato uno svantaggio a lungo termine sui mercati dei beni con
un miglioramento decisivo della loro posizione a medio termine sui mercati del
denaro e dei capitali. O per meglio dire: la costruzione apparentemente
sbilenca dell’Unione monetaria è invece del tutto appropriata; essa rispecchia
solo la logica sistemica di un capitalismo invertito, cioè di una fase del
capitalismo in cui, data l’impossibilità di un boom capace di sostenersi da
solo sul piano dell’economia reale, l’accumulazione del capitale fittizio sui
mercati finanziari si è trasformato nel motore principale della dinamica
capitalistica. L’euro rappresenta un caso unico tra le monete poiché esso è
davvero un figlio genuino della sua epoca” (p.23). In effetti non è affatto un
errore, è una struttura appropriata ad una fase in cui l’industria di base è
quella finanziaria (per cui la deindustrializzazione ‘reale’ e la relativa
disoccupazione, sono degli effetti voluti).
Si può dire ancora in altro modo: l’euro è l’effetto
della presa di potere dei ceti renditieri e delle tecnostrutture finanziarie
che li servono sui ceti produttivi e sul mondo dell’industria. Le banche ed i
banchieri sulle industrie, gli industriali ed i sindacati. Basta guardare gli
uomini al potere, e le loro biografie, in questi ultimi anni per assicurarsene.
L’euro instituì quindi in Europa una copia in chiave
minore dello stesso circolo del potere, fondato sul deficit, ovvero su un
intreccio inestricabile di flussi di merci e di debiti/crediti, che è stato
costruito nel mondo dall’egemone americano dopo la crisi degli anni sessanta. Il
circolo deficitario tra USA e area orientale (ma in misura anche con le altre)
con i primi a subire la deindustrializzazione ed alimentare con i propri
deficit commerciali l’industrializzazione delle controparti, ma ad attrarne i
capitali, riciclandoli nella propria industria finanziaria, è copiato a parti
invertite in Europa. Qui sono i subalterni ad essere in deficit commerciale e
ovviamente è il paese in surplus che ricicla i propri capitali eccedenti,
sostenendo il debito crescente (privato e bancario) dei paesi deboli.
Lo spiegano bene qui
Naturalmente, se tutti hanno tratto qualche beneficio
(dove il “tutti” richiederebbe più di una distinzione, dato che alcuni hanno
solo perso ed altri solo vinto), bisognerebbe che tutti si facessero carico
delle conseguenze. Ma la crisi esaspera la divergenza e con essa il potenziale
di conflitto, come le interpretazioni sciovinistiche.
Quel che gli autori suggeriscono è in sostanza una
liquidazione comune, e concordata, dei vecchi debiti. Non sono i soli a farlo,
ma naturalmente, come loro stessi hanno evidenziato, il sistema si regge sui
debiti non pagati e sui crediti non annullati, come uno struzzo che mette la
testa nel terreno.
Bisognerà dunque aspettare che la discarica esploda.
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