L’economista marxista Emiliano Brancaccio è da molti
anni uno dei più coerenti e determinati critici dell’assetto delle cose, con il
tempo ha guadagnato, dalla sua cattedra periferica a Benevento, una certa
capacità di intervento nella sfera pubblica, anche su testate rilevanti come L’Espresso (o il Sole 24 Ore). È il caso di questo
intervento agostano, nel quale costruisce un sillogismo piuttosto schematico:
1.
se la sinistra di governo si è in passato schiacciata
sul liberismo (inseguendo la
svalutazione del lavoro, la liberazione dei capitali e la riduzione del ruolo
dello stato in economia),
2.
e se lo ha fatto in cerca di una identità (suppongo dopo il crollo dell’identificazione con il
socialismo, più o meno “reale”), “scimmiottando l’avversario”,
3.
allora anche oggi la tendenza a introdurre elementi di
critica alla piena liberazione dei flussi di emigrazione dai paesi poveri del
mondo è solo un’altra manifestazione di questa “tentazione”. Quella di andare dietro questa volta alla “destra
xenofoba” (l’altra volta a quella tecnocratica neoliberale), emulandola.
Insomma, la sinistra sarebbe in crisi perché attua
politiche di destra e si dimentica di essere se stessa. Sul finale ci dirà in
una frase che significa per la sinistra essere se stessa: “La sinistra può prosperare solo
se radicata nella critica scientifica del capitalismo, nell’internazionalismo
del lavoro, in una rinnovata idea prometeica di modernità e di progresso
sociale e civile.”
In effetti si tratta di una visione molto tradizionale
dell’ispirazione centrale della sinistra di derivazione marxista, che si
autocomprende come radicalizzazione e completamento dell’illuminismo e dello
scientismo sette-ottocentesco. Però “Rinnovare” una idea “prometeica”, a chi si
è formato, o ha anche solo incontrato, la cultura filosofica e di critica
sociale del novecento, è frase che non si lascia leggere senza qualche
attenzione e distinzione.
Ma Brancaccio non è certo un filosofo, dunque per ora
lasciamo questo piano e torniamo sull’economia (anche se qui il piano dirimente
è politico): perché avere dubbi sull’apertura
“internazionalista” del lavoro, ovvero sulla piena fluidità degli
spostamenti dei lavoratori (qui, attenzione, non si parla affatto di
richiedenti asilo, che dall’epoca della Convezione sui Rifugiati del 1951, sono
tutelati e non possono essere respinti in un paese nel quale sarebbero a
rischio), sarebbe semplicemente “xenofobia”,
magari ben mascherata? Secondo l’argomentazione prodotta in questo articolo il
motivo è essenzialmente che non corrisponde ai fatti del mondo (ovvero che la
limitazione non fa male, o che l’apertura fa bene). Ma leggendo altri
interventi, come di seguito faremo, si vede che qualche corrispondenza l’ha.
Dunque il tema è un altro: il tema esiste, ma è pericoloso, non dovrebbe essere
quello sul quale giocare la battaglia dell’egemonia in quanto il vero tema sono
i capitali. Ci torniamo.
A supporto dell’implicita affermazione forte che l’immigrazione
non ha effetti (che, altrimenti, oltre alla xenofobia -ovvero all’emozione
irrazionale ed alla coscienza corrotta- ci sarebbe anche la razionalità come
possibile spiegazione), in questo articolo Brancaccio porta una scheletrica
confutazione della “pretesa che gli
immigrati contribuirebbero ad abbassare i salati e le condizioni di vita dei
lavoratori nativi”. Ovvero dell’affermazione che insieme ad altri fattori
anche singolarmente più rilevanti (come la libertà di movimento di capitali e
merci) l’indiscriminata attrazione di lavoratori deboli immigrati contribuisca
ad abbassare i salari ed anche le condizioni al contorno non salariali (ovvero
le condizioni di lavoro e le altre protezioni) almeno di alcune sezioni dei
lavoratori nativi. Affermazione che, come ricorda è stata in alcune occasioni avanzata
anche da Corbyn e Sanders, oltre che da Melenchon.
Tutto ciò appare strano, perché come abbiamo già detto
in alcune altre occasioni lo stesso Brancaccio aveva ammesso il punto (certo, a
rovescio, per così dire), ma ora solo dirlo è direttamente “emulazione” e
cedere ad una “tentazione”. Ora invece tutto ciò è semplicemente falso;
infatti: “a nulla valgono le evidenze scientifiche sull’assenza di legami
causali tra immigrazione e criminalità e sui controversi e modesti effetti dei
flussi migratori sulle dinamiche salariali. Considerato che anche la tesi opposta
secondo cui gli immigrati sarebbero essenziali per la sostenibilità del sistema
previdenziale presenta varie inconsistenze logiche ed empiriche, si deve
giungere alla conclusione che a sinistra in tema di migrazioni non si fa che
saltare da una mistificazione all’altra”.
Questo è il cuore tecnico dell’argomento economico di
Brancaccio, dunque leggiamolo con calma. Ci sono, per l’autore, non meglio
precisate “evidenze scientifiche” che individuano due cose distinte che restano in qualche modo confuse nello
sviluppo del testo: l’assenza di legami
causali tra immigrazione e criminalità e la presenza di effetti dei flussi migratori sulle dinamiche salariali,
ma il loro carattere complessivamente modesto e controverso (per alcuni
positivi, per altri negativi). Scritto così suona diverso, vero?
Suona ancora diverso se si prova ad uscire dall’effetto
del pollo e ci si chiede per chi
è modesto, per chi è significativo, quindi
per chi è positivo (ad esempio per
chi ha bisogno di un domestico, o di un operaio, e li vuole pagare di meno), per chi è negativo (ad esempio per chi è
un domestico o un operaio, e deve abbassare le proprie assurde pretese, ovvero,
come dice Boeri
ed altri, non vuole più fare quei lavori – a quel prezzo-). Suona cioè diverso
se si fa caso a come si concentrano gli
effetti.
Ma qui, a fare distinzioni, per Brancaccio, si “sta a
guinzaglio”. Meglio quindi chiudere il lupo dentro la stalla che riconoscere
che c’è.
Eppure ci sono economisti famosi, certamente non privi
della capacità di analizzare i dati, come l’ultimo Stiglitz che dicono
esserci “più di un fondo di verità”
nella relazione tra immigrazione e riduzione della forza contrattuale (e quindi
salariale) dei lavoratori nell’occidente industrializzato. L’economia
mainstream sostiene che l’apertura dei commerci e della forza lavoro, dato che
le persone sono reinserite in ambienti molto più produttivi, e per una serie di
effetti di sostituzione in sequenza che ben funzionano nei modelli matematici
senza attrito della disciplina, produce un miglioramento complessivo di
utilità; ovvero, sostiene, che si ottiene più ricchezza. Certo, la stessa
economia, come Stiglitz ricorda, dice anche che questa ricchezza si produce su alcuni e non su altri (ad esempio va
come maggior utile agli imprenditori, e maggior reddito agli immigrati, data la
loro base molto bassa, ma, contemporaneamente va come minor reddito a chi a
quel prezzo non può più lavorare).
È esattamente lo
stesso meccanismo del libero commercio. E come questo nello spazio astratto
dei modelli ha una facile soluzione: si
toglie a chi guadagna e si dà a chi perde. L’idea è tanto semplice da
sembrare, come molte della disciplina economica, infantile: se ad esempio per
produrre un bene avevo una distribuzione 3/7 tra imprenditore (tra profitto e
sostituzione beni capitali) e lavoro, e introduco un lavoro più efficiente, che
può produrre il bene con 4 unità di remunerazione avrò ora 6/4, oppure potrò
produrre 1,3 beni (lasciando il rapporto tra 3 e 4, ovvero impegnano solo 7
unità di remunerazione per produrre il bene). Certo, chi lavora prima aveva 7
ed ora ha 4, ma sono persone diverse, in realtà chi aveva 7 ora ha 0 e chi
aveva 0 ora ha 4 (semplifichiamo). Posso, dunque, prelevare dall’imprenditore
una parte del surplus, qualificandolo come “sociale”, e spenderlo per
consentire a chi aveva perso di riqualificarsi e spostarsi su un segmento
superiore di produttività, e quindi remunerazione. In altre parole, prelevo 2
unità di profitto, delle 3 liberate, e le utilizzo per politiche di formazione,
ampliamento del welfare, politiche industriali, ricerca: tutte cose che rendono
più efficiente la società.
Ovvero se introduco nuova forza lavoro più economica
ho un surplus complessivo che mi consente di investire in efficientizzazione
del sistema economico e sociale, cosa che alla fine va a vantaggio di tutti.
Bella la teoria,
vero?
Quale la pratica? Che i profitti sono invece accompagnati da riduzione delle
tasse alle imprese, da indebolimento dei sistemi di controllo, che altrimenti
il sistema diventa meno competitivo, e da smantellamento accelerato del welfare
(che, tanto, non funziona più).
Allora, se non si cambia tutto il sistema economico
(cosa che Brancaccio in effetti non si stanca di chiedere), come funziona la
cosa? Come funziona se, mentre si aumenta progressivamente la competizione sul lavoro, sia
attraverso l’apertura del commercio sia attraverso l’apertura dei flussi di
lavoratori di sostituzione, si riduce la redistribuzione (sotto la spinta della
cosiddetta “austerità”)? Lo ricorda Stiglitz: “con curve discendenti della
domanda (il caso abituale), un incremento dell’offerta porta normalmente a un
prezzo di equilibrio più basso. Sui mercati del lavoro questo significa che
un afflusso di lavoratori dequalificati
porta a una diminuzione dei salari. e quando i salari non possono scendere
oltre, o non vengono diminuiti, ne consegue una maggiore disoccupazione” (p.347).
Sarà anche un effetto “modesto” (ma non è controverso),
ma è necessario? E, soprattutto, quanto
è modesto su chi? E dove? La verità è che, magari non a
Benevento (che ha un’economia piuttosto chiusa e dipendente da un’agricoltura
piuttosto ricca, vinicola, e da lavoro pubblico), ma in generale, “l’onere
ricade tutto sulle spalle di chi è meno equipaggiato a sostenerlo” (Stiglitz, p.348).
Non è questo un
problema per la sinistra?
Dirlo significa
imitare Salvini? Io credo,
sinceramente, di no. Anche se è vero che, nei luoghi in cui è radicata sono
decenni, sono i ceti popolari, a bassa scolarizzazione e relativamente deboli
sul mercato del lavoro, ovvero chi è “meno equipaggiato”, a sentirsi rappresentati
dalla Lega Nord, mentre la sinistra si radica nei quartieri borghesi e in
alcune nicchie specifiche.
Siamo tornati molte volte sul tema, e altre lo faremo,
dunque non credo utile ora accumulare altri argomenti sulla rilevanza del
fenomeno (che, certo, si accompagna a molti altri, anche singolarmente molto
più forti), ma qui mi pare interessante chiedersi perché oggi prenda questa
posizione lo stesso autore che nel 2013, ad esempio, scrive
che nelle condizioni di piena mobilità dei capitali, i lavoratori nativi non
possono che perdere e “saranno costretti
a ripartire con gli immigrati una parte residuale della produzione”. Ripartire, dunque, una quota calante di
reddito socialmente disponibile (i 10 dell’esempio), sapendo che “questa
ripartizione del residuo evidentemente rischia di scatenare la più classica
guerra tra poveri, specialmente in una fase in cui la produzione cade o ristagna”.
L’articolo del 2013 è interessante, perché qui Brancaccio si riconosce meglio:
.
nega recisamente
che l’immigrazione sia “indispensabile alla nostra economia”,
.
e che “aiuti il
sistema previdenziale”.
.
Rivendica l’appartenenza
di queste affermazioni al sistema logico neoclassico, per il quale in effetti “la
disoccupazione non esiste” e in conseguenza “l’immigrato contribuisce
automaticamente alla crescita del prodotto sociale”, oppure che “i mercati del
lavoro sarebbero segmentati, per cui il lavoro svolto dagli immigrati sarebbe
complementare e non si sostituirebbe mai a quello dei nativi”.
Afferma che “in condizioni di libera circolazione dei
capitali – e di relativo smantellamento della produzione pubblica – non è certo
la volontà dei singoli ma è il meccanismo di riproduzione capitalistica, con la
sua instabilità e le sue crisi, che decide della distribuzione, della
composizione e del livello della produzione e dell’occupazione”, dunque che “l’immigrato
non costituisce di per sé un fattore di crescita della ricchezza. Piuttosto, è
la dinamica capitalistica a determinare il suo destino, ossia il suo impiego in aggiunta oppure in sostituzione – e
quindi in competizione – con i lavoratori nativi”.
Il lavoratore immigrato è dunque in competizione con i
lavoratori nativi, Brancaccio dixit.
Ancora, e più chiaramente: “Bisognerebbe insomma
guardare in faccia la realtà, e abbandonare sia gli alibi della teoria
dominante sia le fantasiose rappresentazioni del conflitto suggerite dagli
ultimi epigoni del negrismo. Il migrante, infatti, non rappresenta
necessariamente né una ‘forza produttiva’ né una ‘forza complementare’ né
tantomeno una ‘forza sovversiva’, ma può
al contrario rivelarsi, suo malgrado, uno strumento di repressione delle
rivendicazioni sociali”.
Come esce il nostro da questa contraddizione? Con una
svolta a sinistra, ovviamente: ciò che
bisogna fare è “arrestare i capitali”, se si vuole “liberare i migranti”. Insomma,
il problema è ben altro.
Più che giusto, il “labour standard sulla moneta”, che altrove
aveva proposto sarebbe utile e forse decisivo, ma nel frattempo?
Ci teniamo solo la “rinnovata idea prometeica di modernità e di progresso sociale e civile”?
Per troppi non è sufficiente.
Io credo che, rifiutando il ricatto morale
implicitamente proposto da Brancaccio (non si è necessariamente xenofobi se si
riconosce il vero), occorre distinguere e procedere per grado di urgenza:
.
Bisogna salvare
chiunque è a rischio di vita, sempre e indiscriminatamente;
.
Rispettare il
diritto di asilo e la clausola di non-refoulement;
.
Ma riuscire a
farlo senza far crescere la pompa idrovora che sta svuotando, letteralmente, le
periferie del mondo per riempire le nostre. Ogni periferia (termine che prendo qui principalmente sotto il profilo
della posizione rispetto al processo di produzione e riproduzione sociale), è da
considerarsi sul piano morale eguale quanto ai suoi intrinseci diritti e
dignità, ma resta il fatto che, come quando si alimenta un'industria dei
rapimenti remunerandola, il processo è rafforzato dalla riduzione dei suoi
relativi costi di produzione.
. Dunque bisogna operare sui due corni, riducendo la domanda di lavoro servile ed
agile da noi, e riducendo il bisogno di prestarvisi da loro. Ogni altra
strategia è semplicemente utile a potenziare il fenomeno (ed in ultima analisi
a fare più morti).
Per me dunque la mia posizione si può riassumere così:
1.
bisogna togliere l'interesse privato dalla tratta dei corpi delle persone che, a torto o a
ragione, vogliono venire in occidente, ovunque si annidi;
2.
bisogna ripristinare la legalità che è la prima condizione perché i diritti non siano
svuotati e la sovranità annullata; bisogna dunque che tutti siano tratti in
salvo, se sono anche solo in potenziale pericolo, direttamente dalle autorità
pubbliche o da chi opera per esse. In questo modo il fenomeno sarà ricondotto a
più ragionevoli dimensioni, evitando che ci sia qualcuno che guadagna dal suo
potenziamento.
3.
bisogna che chi decidiamo democraticamente di poter
accogliere (e sono moltissimi), sia integrato
nel modo più rapido ed efficiente possibile, in modo che non sia sfruttato a
danno degli altri lavoratori deboli in forme odiose di dumping sociale di cui
gli immigrati sono esclusivamente vittime;
4.
in generale bisogna che la competizione per il lavoro
non sia al massimo ribasso, ma si svolga in
un quadro di decenza (ovvero con salari minimi adeguati, “eguale salario ad
eguale lavoro”, feroce repressione degli abusi, e finanche lavoro
di ultima istanza, per tutti, garantito dallo Stato).
Fino a che queste condizioni (che, certo, presumono
anche nuovi controlli su capitali e scambi di merci), non saranno implementate,
bisognerà operare come si può, un passo alla volta. Quel che vorrei solo
sottolineare è che non si possono aiutare gli ultimi ad esclusivo danno dei
penultimi (e di chi rimane a casa), dalla guerra tra poveri guadagnerebbero
solo i soliti noti (di cui, se guardiamo bene, potremmo fare parte).
Neppure con la scusa che altrimenti si favorisce
Salvini, o chi per lui.
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