Prendo spunto da un articolo
dell’economista William Mitchell e da un post
di Riccardo Achilli per riprendere il tema di quella che nel post “Poche note sulla questione dell’immigrazione: la
svalutazione dell’uomo” ho chiamato “economia politica dell’emigrazione”. In
questo intervento concentrerò l’attenzione sull’Africa, che non si sovrappone
senza differenze anche importanti con gli altri centri di emigrazione, ma ne
rappresenta in qualche modo un caso esemplare. In parte questo post è in
continuità con il più limitato “Note circa l’economia politica dell’emigrazione: il
ruolo del credito”, che si
concentrava sul sottoproblema del ruolo perverso che la finanza, incluso in
qualche caso il microcredito (per una visione critica del fenomeno vedi qui),
può rappresentare, in particolare in aree nelle quali la penetrazione di
sistemi economici monetizzati sia scarsa, e dove quindi l’offerta non può
creare la sua domanda per assoluta mancanza di questa (ovvero dei suoi
presupposti, culturali e materiali).
Il punto sollevato da Mitchell è che nella pratica il
sistema di aiuto finanziario all’Africa, unito alla penetrazione delle aziende
multinazionali ‘occidentali’ (uso questo termine come etichetta per indicare le
aziende che provengono da paesi sviluppati industrialmente e capaci di qualche
grado di potere di dominio) determina una capacità
estrattiva sulle risorse e le ricchezze ‘reali’ (con ciò si indicano
ricchezze in risorse naturali, potenziale umano, merci).
Nel documentario “Modern
day slaves”, ad esempio, sono illustrate le condizioni di lavoro degli
emigrati in Italia e Spagna nella filiera della raccolta e confezionamento
della frutta per la grande distribuzione del nord Europa; cioè si mostra un
segmento di quello che abbiamo chiamato “economia politica dell’immigrazione”,
e che è lo specchio necessario di quella della emigrazione che ora trattiamo.
Ma lo stesso selvaggio sfruttamento che colpisce i
lavoratori isolati e senza protezione sradicati e reinseriti nelle strutture
produttive ‘occidentali’ (indipendentemente siano in Italia, Germania o Cina e
Singapore), colpisce nel riflesso dello specchio i minatori di stagno in
Bolivia, o di Marinaka in Sudafrica. Lo sfruttamento di questi lavoratori
finisce come profitto trasmesso lungo la catena dei prezzi fino al nostro
portafoglio. Ne partecipiamo ogni volta che apriamo una confezione di fagiolini
(quelli africani sono ottimi) o usiamo una lattina di alluminio (per la
frazione che non è riciclata).
Il quadro logico nel quale Mitchell costruisce il suo
argomento è la cosiddetta “teoria
della dipendenza”, secondo la
quale non corrisponde al vero che tutte le regioni attraversino necessariamente
fasi simili di sviluppo e che queste possono essere favorite con iniezioni di
capitale in prestito per investimenti infrastrutturali, tecnologia e
soprattutto apertura incondizionata al mercato mondiale. Secondo questa
impostazione (che abbiamo già
visto in alcune tesi dell’economista coreano Ha-Joon Chang) ma che risale
alle proposte di Prebisch e Singer negli anni cinquanta, e poi da Paul Baran,
Paul Sweezy e Andre Gunder Frank, ma anche l’egiziano Samir Amin. Sono connessi
con questa vasta corrente anche Immanuel Wallerstein e Giovanni Arrighi.
L’idea centrale è che i limiti di validità della teoria dei vantaggi comparati (David
Ricardo) sono molto ampi e in genere si attuano termini di scambio che
risentono della struttura dei rapporti di forza, e dunque sono a svantaggio dei
paesi che non dispongono di una base industriale capace di competere, ne
consegue che i prezzi delle materie dei deboli calano rispetto a quelle dei
forti. Secondo la proposta di Ha-Joon Chang, dunque, è necessario un certo
grado di protezione, e di tempo, per disegnare un percorso di crescita autonomo
e specifico alle necessità del paese, che ribilanci i rapporti di forza, con la
creazione di filiere produttive capaci di autosostenersi. Non rispettare questa
necessità porta il continuo drenaggio del surplus da parte dei paesi ricchi, che sono tali perché sono dominanti, e
lo sono in ragione di uno specifico e unico mix di sistemi giuridici nazionali
ed internazionali, istituzioni, strutture di potenza e potenziali umani. Di
questo insieme fanno parte i puri e semplici mezzi di violenza (che per lo più
sono adeguatamente efficaci senza essere usati). In altre parole i paesi oggi
ricchi possono essere anche stati non sviluppati (ovvero non industrializzati),
in passato ma non sono mai stati nelle condizioni reali degli attuali paesi
“sottosviluppati” sotto l’unico aspetto decisivo: non sono mai stati in soggezione nei termini in cui lo sono oggi le
nazioni africane, e molte altre. Di qui la nozione
di Arrighi di “sistema-mondo” come
successione di sistemi di dominazione e di egemonia.
Insomma, come mostra anche Antonio Gramsci nella sua
analisi del rapporto idealtipico tra “città” e “campagna”, si istituisce un
rapporto di dominazione tra centro e periferia che costantemente drena le
risorse della seconda verso la prima (la quale svolge funzioni di
organizzazione nei casi positivi di egemonia e di semplice saccheggio in quelli
di dominio). Il rapporto è quindi tra “metropoli” e “colonie economiche”.
Bisogna notare che come la ‘città’ non può conservarsi nelle sue condizioni (di
popolazione, estensione, ricchezza) senza qualche ‘campagna’ che produca ciò
che lei non può, come dice Mitchell “i paesi sottosviluppati si trovano in
quello stato perché, da un punto di vista funzionale, sono indispensabili a
rendere le nazioni centrali sviluppare ancora più ricche”. Le politiche di FMI
e Banca Mondiale, anche se in modo nascosto, assicurano che questo risultato
non sia sfidato. Anche lo sviluppo di una classe media e di una élite dedita al
lusso, senza le strutture economiche in grado di sostenerne i consumi, diventa
un potente vettore di estrazione del reddito nazionale verso i paesi
industrializzati, come lo è orientare lo sviluppo all’export (di prodotti di
base o intermedi a basso prezzo) che accelera il processo.
Mitchell cita il rapporto Honest Accounts 2017,
del Global Justice Now, che rileva
come i 47 paesi africani sono in realtà creditori netti per oltre 41 miliardi
di dollari fuoriusciti dal sistema Africa nel solo 2015. La tabella di sintesi
vede, infatti, entrate per 161 miliardi ed uscite per oltre 200. Le uscite sono
rimpatrio dei profitti delle multinazionali (che riescono per lo più a non
pagare tasse locali) per 32 miliardi, cifra pari ai nuovi prestiti contratti
nell’anno dai governi africani; circa altri 30 miliardi di pagamenti di debiti
del settore pubblico e privato; flussi finanziari di contrabbando per l’enorme
cifra di 70 miliardi; veri e propri saccheggi illegali di pesca o disboscamento
o altre sottrazioni di risorse naturali, per ancora 30 miliardi; costi del cambiamento
climatico per 35 miliardi (per due terzi risalente a politiche di adattamento
imposte da organizzazioni internazionali).
Questa progressiva, ma costante, estrazione di risorse
dal continente (che in sostanza, nel suo complesso, è tenuto in avanzo dai
creditori al fine di rendere possibile il “servizio del debito”, a sua volta in
parte contratto per costruire infrastrutture e interventi utili alla
esteroflessione), produce anche effetti di instabilità economica e militare.
Ma guardiamo più
da vicino la situazione:
-
per prima cosa
vediamo i numeri del fenomeno immigratorio: in generale in Italia, sono
presenti qualcosa più di 5.000.000 di immigrati regolarizzati e probabilmente
almeno 1.000.000 di immigrati clandestini o richiedenti asilo al momento
presenti, ovvero siamo più o meno nelle medie europee e in proporzione
inferiore alle molto più ricche zone economiche del nord (dove, inoltre, si
concentrano gli emigranti di maggiore livello di formazione). Questi immigrati
regolari sono: per il 23% Romeni (quindi comunitari), per ca 1.100.000, che è
quasi la metà dei cittadini espatriati dal paese balcanico; quindi ci sono ca
450.000 albanesi e altrettanti marocchini; ca 250.000 cinesi e ucraini; ca
150.000 filippini, indiani e moldavi; ca 100.000 dal Bangladesh, Egitto, Perù,
Sri Lanka, Pakistan, Senegal, Polonia, Tunisia ed Equador. Dunque i cittadini
espatriati dall’Africa e regolarizzati sono ca. 750.000, meno del 20% del
totale degli immigrati con permesso di soggiorno e meno dell’1% della popolazione
residente.
-
Questo fenomeno
dell’immigrazione clandestina, a mezzo sbarco sulle nostre coste è, però, in
significativa crescita, in parte per effetto di quanto di seguito vedremo, dal
grafico si vede che nell’anno trascorso si è avuto il numero record di 180.000
immigrati.
-
In questo grafico interattivo
dell’ONG “Mediciperidirittiumani”, si
vede la rete di canali di trasmissione ed i nodi logistici dall’Africa
centrale. Agendo sulla mappa (cliccando sui nodi) si trovano le storie
dell’organizzazione dello sfruttamento del flusso, delle violenze, del lavoro
forzato per ripagare le organizzazioni criminali dedite al traffico e via
dicendo.
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Il Sud Sudan, dove
una guerra civile ha provocato 300.000 morti e milioni di emigranti;
-
Il Sudan, dove un
governo dittatoriale è impegnato nella distruzione del popolo dei mondi Kordofa
e delle etnie del Darfur;
-
La Somalia, dove
la guerra civile è in corso da trent’anni;
-
L’Eritrea, dalla
quale fuggono in centinaia di migliaia verso l’Europa;
-
Il Centrafrica,
anche lui in guerra civile da tantissimi anni;
-
La zona dal Ciad
al Mali, dove è in formazione un altro Califfato (zona che include la Nigeria
del nord);
-
La Libia, in
guerra di tutti contro tutti;
-
Ed i trenta
milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia, Sud Sudan, Kenya.
E formula la previsione, per i prossimi trenta anni,
di almeno 50 milioni di emigranti dovuti solo ai cambiamenti climatici in
corso, che possono rendere tre quarti del continente inadatto alla
coltivazione.
Ancora, Anna Bono, nel suo libro “Migranti!? Migranti!? migranti!?”
sostiene che questo flusso in corso dal continente africano provenga in primis
dalla Nigeria con 15.000 richieste di asilo nel 2015 (paese in rapidissima
crescita economica complessiva, in testa da anni a tutte le classifiche, nel
quale opera il gruppo jihadista Boko Haram, in particolare nel nord est,
causando oltre 20.000 vittime dal 2009 e due milioni e mezzo di sfollati ed
alti rischi
di carestia), quindi dal Senegal, dal Ghana, dal Camerun e dal Gambia.
Questo articolo
di “Openmigration” sottolinea come il
numero prevalente di immigrati nigeriani siano donne giovani, da famiglie
povere, che non hanno pagato il viaggio, ma sono dirette per lo più allo
sfruttamento sessuale in Europa. Ovvero che si tratta di reclutamento
direttamente in loco, da famiglie altamente disagiate, di schiave sessuali che
vengono trasportate da organizzazioni ben integrate che le portano, quindi le
raccolgono dai centri di accoglienza (dopo un certo periodo di tempo basta
un’offerta di lavoro) e le sfruttano nelle nostre strade. Fare qualche
passeggiata in macchina nella campagna di Castelvolturno, nella provincia di
Caserta, dove quasi la metà dei residenti è immigrata, potrebbe dare un’idea del
fenomeno.
A parte questo caso, comunque, la maggior parte degli
immigrati è composta da maschi, giovani, che spendono alcune migliaia di
dollari per lo spostamento (sia entro il continente africano sia sul mare) che
è illegale sin dall’inizio, e secondo l’autrice sono dunque membri del ceto
medio (che in Africa significa disporre di un reddito modesto o di qualche bene
patrimoniale, come una mandria o altro, da valorizzare). Possono essere
individuati, però, anche i casi di cui abbiamo parlato in altro
post, dell’accesso al credito su sistemi familiari, o, appunto, di
“contratti di sfruttamento”. Il motivo per il quale si muovono persone che in
effetti starebbero meglio nel paese di origine, ovvero che hanno una qualche
posizione, mentre da noi almeno all’inizio saranno selvaggiamente sfruttate, è
che percepiscono l’occidente come sempre ricco. Contribuisce a dare questa
visione distorta il sistema dei mezzi di comunicazione diffuso (dalle antenne
satellitari televisive, a internet, gli smartphone che si stanno diffondendo,
etc.) ed anche l’effetto alone delle, pur modeste, rimesse. Ma, naturalmente,
c’è anche il marketing degli operatori interessati alla tratta, dalle
organizzazioni paramafiose dei trafficanti alle agenzie di microcredito in
cerca di clienti (come abbiamo visto un modo per rendere solvibile una
famiglia, e dunque farne un cliente di un’erogazione di credito, è di avviare
un membro all’emigrazione, in modo che le rimesse coprano le rate).
Ma una delle cose più controintuitive del testo della
Bono è che in effetti la maggior parte degli immigrati non arriva da zone in
cui imperversano guerre e rivoluzioni, pochi dal Nord della Nigeria e molti dal
sud tranquillo, pochi da Sud del Sudan e quasi nessuno dal Congo e dalla
Repubblica centroafricana. Anche gli sfollati della guerra siriana per lo più si
affollano, a milioni, nei campi profughi dei paesi immediatamente vicini e non
si muovono. La ragione per l’autore è che chi è scappato dal suo ambiente per
causa di forza maggiore, e non perché ha maturato – a ragione o meno – la
decisione di andarsene, vuole tornare e dunque non si allontana in modo
definitivo. Dalla Somalia va in Kenia, magari dalla Nigeria del nord in
Camerun.
Il punto che vorrei qui difendere è che questi immani
sommovimenti (anche se progressivi) che abbiamo sommariamente descritto comportano
nel loro insieme una costante distruzione di ricchezze, infrastrutture, reti
sociali ed istituzionali, ma anche un continuo drenaggio di persone che, come sottolinea
opportunamente Riccardo Achilli approfondisce, e rende permanente, il gap di
sviluppo, come è successo al nostro sud nel corso dei centosessanta anni di
unità. Esiste una corrente di lavoro politico e culturale che ha coltivato il
concetto che i problemi del continente vadano affrontati rintracciando un punto
di vista autonomo, non facendosi “campagna” della “metropoli occidentale”
(anche se è in Cina). Ne fanno parte figure come Aimé Césaire o Léopold Senghor,
Kwame Nkrumah, Franz Fanon.
Il modello estrattivo che, per sua logica propria, i
centri sviluppati (e per questo dominanti) esercitano sulle periferie deboli (e
per questo “sottosviluppate”) si impernia dunque su una sottrazione di:
-
Risorse finanziarie
(attraverso in particolare la meccanica del debito, e i suoi agenti che sono in
prima battuta i grandi attori privati del credito e in seconda, ma decisiva,
gli organismi posti a guardia della liquidità internazionale);
-
Risorse reali
(ovvero materie prime e prodotti intermedi i cui prezzi sono determinati nel
quadro dei rapporti di forza complessivi e risultano strutturalmente dominati
dai processi di produzione industriali cui servono);
-
Risorse umane
(cioè persone fisiche viventi in età di produrre lavoro che come sottolinea
Achilli, ma anche Stiglitz,
producono con la loro uscita lo “svuotamento” della capacità locale).
Mitchell, nella seconda
parte del suo articolo, chiede quindi l’abolizione delle istituzioni
estrattive a guardia della posizione dominante dell’occidente, come il FMI e la
Banca Mondiale, e suggerisce l’organizzazione di meccanismi di aiuto in favore
dei paesi che sono carenti di risorse “reali”. L’agenda proposta
dall’economista passa: per l’erogazione di fondi per lo sviluppo e
l’infrastrutturazione (che, immagino, dovrebbe essere condotta con modalità del
tutto diverse dall’attuale, a fondo perduto o con interessi zero e restituzione
legata a parametri di crescita); misure di stabilizzazione macroeconomica in
caso di crisi di liquidità (misure che dovrebbero essere automatiche e non
condizionate, per non ripetere il “meccanismo Troika”); rigetto dell’attuale
impostazione rivolta a convertire le economie locali in direzione esclusiva
dell’esportazione (che corrisponde di fatto al loro inserimento subalterno
nelle catene logistiche ‘occidentali’, e nell’aumento radicale della
dipendenza); riconoscimento e sostegno del diritto da parte delle autorità
locali di proteggere le proprie industrie e capacità produttive; eliminazione
di ogni clausola di regolazione delle controversie tra imprese multinazionali e
Stati che consentono a queste di non sottoporsi interamente alla regolazione
del luogo in cui operano; definizione a livello internazionale di criteri di
“commercio equo”, proteggendo il diritto di tutti di limitare quello che non
sia tale (condizioni lavorative, diritti associativi e di sciopero, protezione
del consumatore e dell’ambiente).
Per entrare più nel merito del paradigma opposto
all’impostazione neoclassica dello sviluppo, che qui abbiamo evocato, proviamo
a leggere qualche passaggio dell’argomentazione che Samir Amin, nel suo “Lo sviluppo ineguale”, del 1973 individua al capitolo terzo. Partendo
dall’argomento di David Ricardo, sulla possibilità che la specializzazione possa
indurre una effettiva convenienza, in termini di somma dei valori d'uso
ricavati (ad es. più unità di tessuto), anche se il bene poteva essere prodotto
internamente ad un prezzo minore, Amin mostra che esso cade se si inserisce una
visione più dinamica. Ad un dato paese può convenire infatti scontare ad un
momento zero, un minor rendimento, investendo in più settori, se ciò lo porta
nel tempo allo sviluppo di settori produttivi dal maggiore potenziale. O, con
le sue parole: “’dinamizzando’ l’analisi
ricardiana, noi abbiamo dimostrato che il vantaggio immediato ricavato dalla
specializzazione orienterà lo sviluppo comparato nei due paesi in modo tale che
quello dei due che accetta di specializzarsi nei settori meno dinamici avrà una
perdita a lungo termine” (p.139).
Questa percezione però si perde in modo definitivo se
si passa da quella che chiama “teoria oggettiva del valore” (ovvero riferito ad
un fattore esterno, come il lavoro), dei classici (Smith, Ricardo e Marx), alla
“teoria soggettiva del valore”, che non è più in grado di comparare le
produttività rispetto ad un punto esterno, ricadendo in forme di circolarità
che privano il cosiddetto “vantaggio” di ogni senso. A questo punto emerge la
tautologia fondamentale propria dell’economia neoclassica che vede lo scambio,
per il fatto stesso di essere avvenuto, fonte di un ‘vantaggio’ per ognuno dei
due scambisti. Vengono eluse sistematicamente le questioni “del livello di
partenza” e della “dinamica dello sviluppo delle forze produttive”, ovvero è
neutralizzata la questione del potere.
Le economie “sottosviluppate” perché dominate, sono
costrette dall’insieme di meccanismi economici che Amin descrive nel suo libro
(e che prossimamente leggeremo sistematicamente) a quella che chiama
“extroversione” (e Rodrik "esteroflessione"). Ovvero alla prevalenza quantitativa delle diverse attività di
esportazione (di capitali, merci e uomini), alle quali viene orientata sia la
dotazione finanziaria sia quella umana. Ne segue che l’insieme della struttura
economica è “sottomessa e modellata in funzione del mercato estero” (p.214).
Certo, dal 1973, quando Amin scrive, al 2017, questa
struttura che era allora in particolare propria dei paesi sottosviluppati si è
estesa anche ad alcuni paesi “sviluppati” (come la Germania, il Giappone,
alcuni paesi dell’est asiatico) ed in misura minore anche ai paesi
“semisviluppati” (nel senso del potere e della capacità di autonomia) come noi
(che, però, conserviamo una quantitativa preminenza del settore interno). Uso
provocatoriamente il termine “semisviluppati” per l’altamente industrializzata
e potentemente finanziarizzata Italia, per marcare il requisito di indipendenza
che deve avere un paese per essere padrone del suo sentiero di sviluppo.
Il tema si allargherebbe, e l’Africa diventerebbe solo
un caso limite di un processo di estensione della dipendenza e del saccheggio
delle risorse (finanziarie, fisiche e umane) e della continua riproduzione,
alla scala diversa, del meccanismo gerarchico “città-campagna” che interessa
anche l’Europa stessa (con questa volta l’Italia, ed i paesi periferici tutti,
in posizione di “campagna”) e il mondo intero (con il conflitto tra le “città”
nella definizione delle proprie “campagne”).
Ovvero diventerebbe il tema di quella che Amin chiama
“la specializzazione internazionale
ineguale” (p.248). Secondo la definizione dello studioso egiziano
“l’economia sottosviluppata è costituita da settori e da imprese giustapposte,
scarsamente integrate tra di loro ma fortemente integrate, separatamente l’una
dall’altra, in complessi il cui centro di gravità è situato nei centri
capitalistici”, in conseguenza “non esiste una vera nazione nel senso economico
del termine, un mercato interno integrato” (p.253).
Come si vede l’Africa è solo parte di noi. Anche per questo
dobbiamo farcene carico.
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