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sabato 12 agosto 2017

Note circa l’economia politica dell’emigrazione: l’estrazione di risorse.


Prendo spunto da un articolo dell’economista William Mitchell e da un post di Riccardo Achilli per riprendere il tema di quella che nel post “Poche note sulla questione dell’immigrazione: la svalutazione dell’uomo” ho chiamato “economia politica dell’emigrazione”. In questo intervento concentrerò l’attenzione sull’Africa, che non si sovrappone senza differenze anche importanti con gli altri centri di emigrazione, ma ne rappresenta in qualche modo un caso esemplare. In parte questo post è in continuità con il più limitato “Note circa l’economia politica dell’emigrazione: il ruolo del credito”, che si concentrava sul sottoproblema del ruolo perverso che la finanza, incluso in qualche caso il microcredito (per una visione critica del fenomeno vedi qui), può rappresentare, in particolare in aree nelle quali la penetrazione di sistemi economici monetizzati sia scarsa, e dove quindi l’offerta non può creare la sua domanda per assoluta mancanza di questa (ovvero dei suoi presupposti, culturali e materiali).


Il punto sollevato da Mitchell è che nella pratica il sistema di aiuto finanziario all’Africa, unito alla penetrazione delle aziende multinazionali ‘occidentali’ (uso questo termine come etichetta per indicare le aziende che provengono da paesi sviluppati industrialmente e capaci di qualche grado di potere di dominio) determina una capacità estrattiva sulle risorse e le ricchezze ‘reali’ (con ciò si indicano ricchezze in risorse naturali, potenziale umano, merci).
Nel documentario “Modern day slaves”, ad esempio, sono illustrate le condizioni di lavoro degli emigrati in Italia e Spagna nella filiera della raccolta e confezionamento della frutta per la grande distribuzione del nord Europa; cioè si mostra un segmento di quello che abbiamo chiamato “economia politica dell’immigrazione”, e che è lo specchio necessario di quella della emigrazione che ora trattiamo.



Ma lo stesso selvaggio sfruttamento che colpisce i lavoratori isolati e senza protezione sradicati e reinseriti nelle strutture produttive ‘occidentali’ (indipendentemente siano in Italia, Germania o Cina e Singapore), colpisce nel riflesso dello specchio i minatori di stagno in Bolivia, o di Marinaka in Sudafrica. Lo sfruttamento di questi lavoratori finisce come profitto trasmesso lungo la catena dei prezzi fino al nostro portafoglio. Ne partecipiamo ogni volta che apriamo una confezione di fagiolini (quelli africani sono ottimi) o usiamo una lattina di alluminio (per la frazione che non è riciclata).

Il quadro logico nel quale Mitchell costruisce il suo argomento è la cosiddetta “teoria della dipendenza”, secondo la quale non corrisponde al vero che tutte le regioni attraversino necessariamente fasi simili di sviluppo e che queste possono essere favorite con iniezioni di capitale in prestito per investimenti infrastrutturali, tecnologia e soprattutto apertura incondizionata al mercato mondiale. Secondo questa impostazione (che abbiamo già visto in alcune tesi dell’economista coreano Ha-Joon Chang) ma che risale alle proposte di Prebisch e Singer negli anni cinquanta, e poi da Paul Baran, Paul Sweezy e Andre Gunder Frank, ma anche l’egiziano Samir Amin. Sono connessi con questa vasta corrente anche Immanuel Wallerstein e Giovanni Arrighi.
L’idea centrale è che i limiti di validità della teoria dei vantaggi comparati (David Ricardo) sono molto ampi e in genere si attuano termini di scambio che risentono della struttura dei rapporti di forza, e dunque sono a svantaggio dei paesi che non dispongono di una base industriale capace di competere, ne consegue che i prezzi delle materie dei deboli calano rispetto a quelle dei forti. Secondo la proposta di Ha-Joon Chang, dunque, è necessario un certo grado di protezione, e di tempo, per disegnare un percorso di crescita autonomo e specifico alle necessità del paese, che ribilanci i rapporti di forza, con la creazione di filiere produttive capaci di autosostenersi. Non rispettare questa necessità porta il continuo drenaggio del surplus da parte dei paesi ricchi, che sono tali perché sono dominanti, e lo sono in ragione di uno specifico e unico mix di sistemi giuridici nazionali ed internazionali, istituzioni, strutture di potenza e potenziali umani. Di questo insieme fanno parte i puri e semplici mezzi di violenza (che per lo più sono adeguatamente efficaci senza essere usati). In altre parole i paesi oggi ricchi possono essere anche stati non sviluppati (ovvero non industrializzati), in passato ma non sono mai stati nelle condizioni reali degli attuali paesi “sottosviluppati” sotto l’unico aspetto decisivo: non sono mai stati in soggezione nei termini in cui lo sono oggi le nazioni africane, e molte altre. Di qui la nozione di Arrighi di “sistema-mondo” come successione di sistemi di dominazione e di egemonia.

Insomma, come mostra anche Antonio Gramsci nella sua analisi del rapporto idealtipico tra “città” e “campagna”, si istituisce un rapporto di dominazione tra centro e periferia che costantemente drena le risorse della seconda verso la prima (la quale svolge funzioni di organizzazione nei casi positivi di egemonia e di semplice saccheggio in quelli di dominio). Il rapporto è quindi tra “metropoli” e “colonie economiche”. Bisogna notare che come la ‘città’ non può conservarsi nelle sue condizioni (di popolazione, estensione, ricchezza) senza qualche ‘campagna’ che produca ciò che lei non può, come dice Mitchell “i paesi sottosviluppati si trovano in quello stato perché, da un punto di vista funzionale, sono indispensabili a rendere le nazioni centrali sviluppare ancora più ricche”. Le politiche di FMI e Banca Mondiale, anche se in modo nascosto, assicurano che questo risultato non sia sfidato. Anche lo sviluppo di una classe media e di una élite dedita al lusso, senza le strutture economiche in grado di sostenerne i consumi, diventa un potente vettore di estrazione del reddito nazionale verso i paesi industrializzati, come lo è orientare lo sviluppo all’export (di prodotti di base o intermedi a basso prezzo) che accelera il processo.

Mitchell cita il rapporto Honest Accounts 2017, del Global Justice Now, che rileva come i 47 paesi africani sono in realtà creditori netti per oltre 41 miliardi di dollari fuoriusciti dal sistema Africa nel solo 2015. La tabella di sintesi vede, infatti, entrate per 161 miliardi ed uscite per oltre 200. Le uscite sono rimpatrio dei profitti delle multinazionali (che riescono per lo più a non pagare tasse locali) per 32 miliardi, cifra pari ai nuovi prestiti contratti nell’anno dai governi africani; circa altri 30 miliardi di pagamenti di debiti del settore pubblico e privato; flussi finanziari di contrabbando per l’enorme cifra di 70 miliardi; veri e propri saccheggi illegali di pesca o disboscamento o altre sottrazioni di risorse naturali, per ancora 30 miliardi; costi del cambiamento climatico per 35 miliardi (per due terzi risalente a politiche di adattamento imposte da organizzazioni internazionali).



Questa progressiva, ma costante, estrazione di risorse dal continente (che in sostanza, nel suo complesso, è tenuto in avanzo dai creditori al fine di rendere possibile il “servizio del debito”, a sua volta in parte contratto per costruire infrastrutture e interventi utili alla esteroflessione), produce anche effetti di instabilità economica e militare.

Ma guardiamo più da vicino la situazione:
-          per prima cosa vediamo i numeri del fenomeno immigratorio: in generale in Italia, sono presenti qualcosa più di 5.000.000 di immigrati regolarizzati e probabilmente almeno 1.000.000 di immigrati clandestini o richiedenti asilo al momento presenti, ovvero siamo più o meno nelle medie europee e in proporzione inferiore alle molto più ricche zone economiche del nord (dove, inoltre, si concentrano gli emigranti di maggiore livello di formazione). Questi immigrati regolari sono: per il 23% Romeni (quindi comunitari), per ca 1.100.000, che è quasi la metà dei cittadini espatriati dal paese balcanico; quindi ci sono ca 450.000 albanesi e altrettanti marocchini; ca 250.000 cinesi e ucraini; ca 150.000 filippini, indiani e moldavi; ca 100.000 dal Bangladesh, Egitto, Perù, Sri Lanka, Pakistan, Senegal, Polonia, Tunisia ed Equador. Dunque i cittadini espatriati dall’Africa e regolarizzati sono ca. 750.000, meno del 20% del totale degli immigrati con permesso di soggiorno e meno dell’1% della popolazione residente. 


-          Questo fenomeno dell’immigrazione clandestina, a mezzo sbarco sulle nostre coste è, però, in significativa crescita, in parte per effetto di quanto di seguito vedremo, dal grafico si vede che nell’anno trascorso si è avuto il numero record di 180.000 immigrati.
-          In questo grafico interattivo dell’ONG “Mediciperidirittiumani”, si vede la rete di canali di trasmissione ed i nodi logistici dall’Africa centrale. Agendo sulla mappa (cliccando sui nodi) si trovano le storie dell’organizzazione dello sfruttamento del flusso, delle violenze, del lavoro forzato per ripagare le organizzazioni criminali dedite al traffico e via dicendo.



Invece padre Alex Zanotelli, in un appassionato intervento elenca i focolai di crisi africani:
-          Il Sud Sudan, dove una guerra civile ha provocato 300.000 morti e milioni di emigranti;
-          Il Sudan, dove un governo dittatoriale è impegnato nella distruzione del popolo dei mondi Kordofa e delle etnie del Darfur;
-          La Somalia, dove la guerra civile è in corso da trent’anni;
-          L’Eritrea, dalla quale fuggono in centinaia di migliaia verso l’Europa;
-          Il Centrafrica, anche lui in guerra civile da tantissimi anni;
-          La zona dal Ciad al Mali, dove è in formazione un altro Califfato (zona che include la Nigeria del nord);
-          La Libia, in guerra di tutti contro tutti;
-          Ed i trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia, Sud Sudan, Kenya.
E formula la previsione, per i prossimi trenta anni, di almeno 50 milioni di emigranti dovuti solo ai cambiamenti climatici in corso, che possono rendere tre quarti del continente inadatto alla coltivazione.


Ancora, Anna Bono, nel suo libro “Migranti!? Migranti!? migranti!?” sostiene che questo flusso in corso dal continente africano provenga in primis dalla Nigeria con 15.000 richieste di asilo nel 2015 (paese in rapidissima crescita economica complessiva, in testa da anni a tutte le classifiche, nel quale opera il gruppo jihadista Boko Haram, in particolare nel nord est, causando oltre 20.000 vittime dal 2009 e due milioni e mezzo di sfollati ed alti rischi di carestia), quindi dal Senegal, dal Ghana, dal Camerun e dal Gambia.

Questo articolo di “Openmigration” sottolinea come il numero prevalente di immigrati nigeriani siano donne giovani, da famiglie povere, che non hanno pagato il viaggio, ma sono dirette per lo più allo sfruttamento sessuale in Europa. Ovvero che si tratta di reclutamento direttamente in loco, da famiglie altamente disagiate, di schiave sessuali che vengono trasportate da organizzazioni ben integrate che le portano, quindi le raccolgono dai centri di accoglienza (dopo un certo periodo di tempo basta un’offerta di lavoro) e le sfruttano nelle nostre strade. Fare qualche passeggiata in macchina nella campagna di Castelvolturno, nella provincia di Caserta, dove quasi la metà dei residenti è immigrata, potrebbe dare un’idea del fenomeno.
A parte questo caso, comunque, la maggior parte degli immigrati è composta da maschi, giovani, che spendono alcune migliaia di dollari per lo spostamento (sia entro il continente africano sia sul mare) che è illegale sin dall’inizio, e secondo l’autrice sono dunque membri del ceto medio (che in Africa significa disporre di un reddito modesto o di qualche bene patrimoniale, come una mandria o altro, da valorizzare). Possono essere individuati, però, anche i casi di cui abbiamo parlato in altro post, dell’accesso al credito su sistemi familiari, o, appunto, di “contratti di sfruttamento”. Il motivo per il quale si muovono persone che in effetti starebbero meglio nel paese di origine, ovvero che hanno una qualche posizione, mentre da noi almeno all’inizio saranno selvaggiamente sfruttate, è che percepiscono l’occidente come sempre ricco. Contribuisce a dare questa visione distorta il sistema dei mezzi di comunicazione diffuso (dalle antenne satellitari televisive, a internet, gli smartphone che si stanno diffondendo, etc.) ed anche l’effetto alone delle, pur modeste, rimesse. Ma, naturalmente, c’è anche il marketing degli operatori interessati alla tratta, dalle organizzazioni paramafiose dei trafficanti alle agenzie di microcredito in cerca di clienti (come abbiamo visto un modo per rendere solvibile una famiglia, e dunque farne un cliente di un’erogazione di credito, è di avviare un membro all’emigrazione, in modo che le rimesse coprano le rate).
Ma una delle cose più controintuitive del testo della Bono è che in effetti la maggior parte degli immigrati non arriva da zone in cui imperversano guerre e rivoluzioni, pochi dal Nord della Nigeria e molti dal sud tranquillo, pochi da Sud del Sudan e quasi nessuno dal Congo e dalla Repubblica centroafricana. Anche gli sfollati della guerra siriana per lo più si affollano, a milioni, nei campi profughi dei paesi immediatamente vicini e non si muovono. La ragione per l’autore è che chi è scappato dal suo ambiente per causa di forza maggiore, e non perché ha maturato – a ragione o meno – la decisione di andarsene, vuole tornare e dunque non si allontana in modo definitivo. Dalla Somalia va in Kenia, magari dalla Nigeria del nord in Camerun.



Il punto che vorrei qui difendere è che questi immani sommovimenti (anche se progressivi) che abbiamo sommariamente descritto comportano nel loro insieme una costante distruzione di ricchezze, infrastrutture, reti sociali ed istituzionali, ma anche un continuo drenaggio di persone che, come sottolinea opportunamente Riccardo Achilli approfondisce, e rende permanente, il gap di sviluppo, come è successo al nostro sud nel corso dei centosessanta anni di unità. Esiste una corrente di lavoro politico e culturale che ha coltivato il concetto che i problemi del continente vadano affrontati rintracciando un punto di vista autonomo, non facendosi “campagna” della “metropoli occidentale” (anche se è in Cina). Ne fanno parte figure come Aimé Césaire o Léopold Senghor, Kwame Nkrumah, Franz Fanon.

Il modello estrattivo che, per sua logica propria, i centri sviluppati (e per questo dominanti) esercitano sulle periferie deboli (e per questo “sottosviluppate”) si impernia dunque su una sottrazione di:
-          Risorse finanziarie (attraverso in particolare la meccanica del debito, e i suoi agenti che sono in prima battuta i grandi attori privati del credito e in seconda, ma decisiva, gli organismi posti a guardia della liquidità internazionale);
-          Risorse reali (ovvero materie prime e prodotti intermedi i cui prezzi sono determinati nel quadro dei rapporti di forza complessivi e risultano strutturalmente dominati dai processi di produzione industriali cui servono);
-          Risorse umane (cioè persone fisiche viventi in età di produrre lavoro che come sottolinea Achilli, ma anche Stiglitz, producono con la loro uscita lo “svuotamento” della capacità locale).

Mitchell, nella seconda parte del suo articolo, chiede quindi l’abolizione delle istituzioni estrattive a guardia della posizione dominante dell’occidente, come il FMI e la Banca Mondiale, e suggerisce l’organizzazione di meccanismi di aiuto in favore dei paesi che sono carenti di risorse “reali”. L’agenda proposta dall’economista passa: per l’erogazione di fondi per lo sviluppo e l’infrastrutturazione (che, immagino, dovrebbe essere condotta con modalità del tutto diverse dall’attuale, a fondo perduto o con interessi zero e restituzione legata a parametri di crescita); misure di stabilizzazione macroeconomica in caso di crisi di liquidità (misure che dovrebbero essere automatiche e non condizionate, per non ripetere il “meccanismo Troika”); rigetto dell’attuale impostazione rivolta a convertire le economie locali in direzione esclusiva dell’esportazione (che corrisponde di fatto al loro inserimento subalterno nelle catene logistiche ‘occidentali’, e nell’aumento radicale della dipendenza); riconoscimento e sostegno del diritto da parte delle autorità locali di proteggere le proprie industrie e capacità produttive; eliminazione di ogni clausola di regolazione delle controversie tra imprese multinazionali e Stati che consentono a queste di non sottoporsi interamente alla regolazione del luogo in cui operano; definizione a livello internazionale di criteri di “commercio equo”, proteggendo il diritto di tutti di limitare quello che non sia tale (condizioni lavorative, diritti associativi e di sciopero, protezione del consumatore e dell’ambiente).



Per entrare più nel merito del paradigma opposto all’impostazione neoclassica dello sviluppo, che qui abbiamo evocato, proviamo a leggere qualche passaggio dell’argomentazione che Samir Amin, nel suo “Lo sviluppo ineguale”, del 1973 individua al capitolo terzo. Partendo dall’argomento di David Ricardo, sulla possibilità che la specializzazione possa indurre una effettiva convenienza, in termini di somma dei valori d'uso ricavati (ad es. più unità di tessuto), anche se il bene poteva essere prodotto internamente ad un prezzo minore, Amin mostra che esso cade se si inserisce una visione più dinamica. Ad un dato paese può convenire infatti scontare ad un momento zero, un minor rendimento, investendo in più settori, se ciò lo porta nel tempo allo sviluppo di settori produttivi dal maggiore potenziale. O, con le sue parole: “’dinamizzando’ l’analisi ricardiana, noi abbiamo dimostrato che il vantaggio immediato ricavato dalla specializzazione orienterà lo sviluppo comparato nei due paesi in modo tale che quello dei due che accetta di specializzarsi nei settori meno dinamici avrà una perdita a lungo termine” (p.139).
Questa percezione però si perde in modo definitivo se si passa da quella che chiama “teoria oggettiva del valore” (ovvero riferito ad un fattore esterno, come il lavoro), dei classici (Smith, Ricardo e Marx), alla “teoria soggettiva del valore”, che non è più in grado di comparare le produttività rispetto ad un punto esterno, ricadendo in forme di circolarità che privano il cosiddetto “vantaggio” di ogni senso. A questo punto emerge la tautologia fondamentale propria dell’economia neoclassica che vede lo scambio, per il fatto stesso di essere avvenuto, fonte di un ‘vantaggio’ per ognuno dei due scambisti. Vengono eluse sistematicamente le questioni “del livello di partenza” e della “dinamica dello sviluppo delle forze produttive”, ovvero è neutralizzata la questione del potere.

Le economie “sottosviluppate” perché dominate, sono costrette dall’insieme di meccanismi economici che Amin descrive nel suo libro (e che prossimamente leggeremo sistematicamente) a quella che chiama “extroversione” (e Rodrik "esteroflessione"). Ovvero alla prevalenza quantitativa delle diverse attività di esportazione (di capitali, merci e uomini), alle quali viene orientata sia la dotazione finanziaria sia quella umana. Ne segue che l’insieme della struttura economica è “sottomessa e modellata in funzione del mercato estero” (p.214).
Certo, dal 1973, quando Amin scrive, al 2017, questa struttura che era allora in particolare propria dei paesi sottosviluppati si è estesa anche ad alcuni paesi “sviluppati” (come la Germania, il Giappone, alcuni paesi dell’est asiatico) ed in misura minore anche ai paesi “semisviluppati” (nel senso del potere e della capacità di autonomia) come noi (che, però, conserviamo una quantitativa preminenza del settore interno). Uso provocatoriamente il termine “semisviluppati” per l’altamente industrializzata e potentemente finanziarizzata Italia, per marcare il requisito di indipendenza che deve avere un paese per essere padrone del suo sentiero di sviluppo.

Il tema si allargherebbe, e l’Africa diventerebbe solo un caso limite di un processo di estensione della dipendenza e del saccheggio delle risorse (finanziarie, fisiche e umane) e della continua riproduzione, alla scala diversa, del meccanismo gerarchico “città-campagna” che interessa anche l’Europa stessa (con questa volta l’Italia, ed i paesi periferici tutti, in posizione di “campagna”) e il mondo intero (con il conflitto tra le “città” nella definizione delle proprie “campagne”).
Ovvero diventerebbe il tema di quella che Amin chiama “la specializzazione internazionale ineguale” (p.248). Secondo la definizione dello studioso egiziano “l’economia sottosviluppata è costituita da settori e da imprese giustapposte, scarsamente integrate tra di loro ma fortemente integrate, separatamente l’una dall’altra, in complessi il cui centro di gravità è situato nei centri capitalistici”, in conseguenza “non esiste una vera nazione nel senso economico del termine, un mercato interno integrato” (p.253).




Come si vede l’Africa è solo parte di noi. Anche per questo dobbiamo farcene carico.

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