Leggendo il libro di André Gorz, “Metamorfosi
del lavoro”, del 1988, avevamo riportato brevemente la sua proposta di
riduzione della durata del lavoro, come soluzione strutturale alle modifiche in
via di dispiegamento delle modalità di produzione. Si tratta di un libro di quasi
trenta anni fa, ma molti temi affrontati sono tuttora attuali.
Tra questi il tema
della riduzione dell’orario di lavoro.
L’orizzonte del filosofo francese era molto ampio, la
riduzione, con le modalità che vedremo, dell’orario di lavoro, e la sua
flessibilizzazione nell’arco della vita, sono in realtà una strada per
fuoriuscire dall’alienazione che è intrinsecamente incorporata nella forma di
lavoro subordinato e dalla sua organizzazione “militarizzata” (come si troverà
a riassumere alcuni anni dopo Bruno Trentin, commentando il libro). Ma è anche
un modo per sfuggire alla logica economizzante, ovvero all’irrazionalità che
scaturisce paradossalmente dallo sforzo di razionalizzare ogni parte della
vita, senza rispettarne l’indisponibilità a diventare mera merce, ovvero ad
essere ridotta, gli uni per gli altri, alla dimensione oggettuale. Si tratta,
per Gorz, di trovare il percorso per invertire, gradualmente, l’espansione
della logica economica e la mercatizzazione (come si trovava a dire Polanyi).
Lo scheletro della proposta è di ridurre progressivamente la necessità di prestare lavoro subalterno,
man mano che aumenta l’efficienza economica complessiva, garantendo, attraverso
un “secondo assegno” via via crescente, la stabilità del reddito. Le ore
non lavorate sarebbero equivalenti ad un permesso remunerato e sarebbero pagate
da una cassa comune alimentata da una speciale tassa sull’incremento di
produttività media sociale (una cosa che potrebbe assomigliare alla “tassa sui
robot”, di cui si parla, ma equalizzata per evitare gli effetti non voluti a
svantaggio dell’innovazione) e da tasse di scopo sui consumi di lusso (che
producono un’elevata dispersione di ricchezza sociale) o dannosi per l’ambiente.
Per evitare che l’applicazione non uniforme della tassa possa danneggiare
seriamente i settori aperti alla competizione internazionale, dovrebbero essere
previste delle deduzioni (per le merci esportate).
Non si tratta affatto di una proposta di “reddito
garantito” (perché si svilupperebbe solo verso gli effettivi lavoratori dipendenti),
ma può essere associata a forme di “lavoro di ultima istanza” (per una
discussione delle due diverse proposte vedi qui).
La “politica del
tempo” che dunque propone ha lo scopo di ripartire le economie di tempo di
lavoro che sono rese possibili dagli incrementi di produttività (ovvero dall’introduzione
di nuove tecnologie) non secondo gli usuali criteri di razionalità economica,
ma secondo principi di giustizia. Le economie di produttività medie sono, infatti, frutto del lavoro
dell’intera società, non della iniziativa imprenditoriale di questo o quello. Se
è la società che insieme crea le condizioni (in parte in modo inafferrabile,
come parte di un mutamento di clima, di modalità organizzative, delle norme
sociali, delle reciproche aspettative e dei significati taciti) perché una data
impresa sia più produttiva nel territorio “a”, anziché “b”, allora il compito
della politica “è distribuirle a livello della società intera, in modo che ogni
donna e ogni uomo possano beneficiarne” (p.209).
Ci sono diverse implicazioni da valutare, la riduzione
uguale per tutti (e non solo per i settori che incrementano la produttività,
che altrimenti sarebbe veicolo di ulteriore ineguaglianza) del tempo di lavoro
effettivo implica una ridistribuzione della mano d’opera tra i settori. Incrementa,
cioè una tendenza già in essere: i settori che aumentano la propria efficienza
e produttività potranno ridurre (anche se meno di quanto farebbero altrimenti)
la propria manodopera, a parità di output prodotto, ovvero di mercato di
assorbimento; quelli in cui ristagna dovranno aumentare la manodopera più
rapidamente. L’effetto sulla dinamica salariale, a parità degli altri fattori,
sarà quindi positiva per entrambi.
Se la proposta prevedesse la riduzione della durata
media del lavoro (poi vedremo come calcolata) di quattro ore ad intervalli di
quattro anni (40, 36, 32, 28, etc…), sorgerebbe inoltre una necessità di
programmazione, organizzazione del lavoro, formazione, che dovrebbe essere
assunta dall’insieme delle organizzazioni sociali del lavoro insieme alle forze
industriali e imprenditoriali coinvolte. In qualche modo, come scrive “si
tratta della messa in moto di tutta la società in vista di una scadenza”.
Nell’insieme, in particolare man mano che il programma
prende spazio, la riduzione generalizzata del tempo di lavoro in senso
economico (che crea valore d’uso, in vista di uno scambio, nella sfera pubblica
e secondo un tempo razionalizzato e misurabile) libera quindi tempi per lo
sviluppo umano, il “lavoro di cura” volontario, o “per sé”. Ma, insieme, rende
possibile che una quota maggiore della popolazione sia gradualmente coinvolta
nelle forme di lavoro organizzato, ottenendo il corrispondente vantaggio di
professionalizzazione.
Ma garantisce anche una migliore qualità del lavoro
stesso, per effetto della maggiore ricchezza e complessità delle esperienze di
vita che le persone potrebbero compiere e per effetto della maggiore intensità spendibile
nelle ore di lavoro, in qualche modo scelte. Inoltre, l’incremento del costo
del lavoro (nella sua componente diretta, che è invariata, ma in quella
indiretta creata dall’impatto fiscale) porta a maggiori investimenti per
aumentare ulteriormente la produttività. In questo modo si creerebbero le condizioni
di un reciproco inseguimento (man mano che aumenta la produttività, aumenta
anche la sua media, e quindi la tassazione, che alza i costi del lavoro e
spinge a maggiori investimenti), con un
meccanismo esattamente opposto a quello in auge.
La proposta va inserita dunque in un contesto generale
di fuoriuscita dalla logica dell’austerità deflattiva e della competizione
selvaggia.
Ora, qui non si parla affatto di ridurre l’orario
settimanale a 36 ore, poi a 32, e via via a 20 ore o meno. Si tratta piuttosto di
ridurre le 1.600 ore annuali, o le 8.000 ore ogni cinque anni, ripartendo su
base giornaliera, settimanale, mensile, annuale, un tempo liberato e remunerato
che in modo non dissimile in fondo dalle attuali ferie pagate dovrà essere
concordato secondo le reciproche esigenze; ma sarà un diritto individuale
protetto dalla legge. Si tratta quindi di avere un plafond di ore di permessi
retribuiti (dallo Stato e non dall’impresa) che si possano riscattare di volta
in volta, per avere un giorno settimanale libero, un orario più corto, una
settimana libera, un anno sabbatico.
In un certo senso, si tratta di rovesciare come un
guanto una tendenza che è già all’opera, e che è intrinseca nel nuovo ambiente
tecnologico nel quale si svolgono la maggior parte dei lavori: la flessibilità. Prendere in pugno
questa tendenza e, “rendendola oggetto di trattative e di lotte collettiva
[cioè riconoscendola paradossalmente come diritto], farne la sorgente di una
nuova libertà” (p.214).
Dal punto di vista macroeconomico, riflette Gorz, l’idea
dovrebbe essere, con la riduzione dell’orario di lavoro complessivo al crescere
della produttività media, di far sì che il potere di acquisto delle famiglie,
che è la domanda delle imprese, sia progressivamente sganciata “dal volume di
lavoro che la società produce”. Si tratta, dunque, di una utopia del tutto
diversa dall’industrialismo nel quale è cresciuta la cultura della sinistra
storica: una utopia della società del
tempo liberato, come dice.
Il presupposto è la progressiva automazione
e meccanizzazione delle modalità di produzione non solo delle merci, ma di
buona parte dei servizi.
Ma la decisione di ridurre l’orario medio, pur
scaturendo anche da valutazioni di tendenza, deve essere politica. Deve imporre un calendario ex ante. Ovvero deve essere lo scopo che la società si dà, ed alla
quale il sistema si deve adeguare nel tempo definito. Tutte le forme di
regolazione (ad esempio ambientali, sociali, di sicurezza, etc.) sono state
introdotte così.
E nella microgestione necessaria di questo nuovo
pacchetto di diritti (al tempo liberato flessibile), si svilupperebbe anche quella
attenzione sociale, quelle azioni collettive (ad esempio sindacali), ed
iniziative popolari che si metterebbe in continuità con la tradizione
mobilitazione per le ferie pagate, i permessi, i congedi di maternità, l’erogazione
di servizi, formazione, che vivificherebbe le capacità di riflessione,
autoorganizzazione a livello delle imprese, proposta, …
Porrebbe, in sostanza il grande tema, lasciato in sostanza
cadere negli anni settanta, della organizzazione del tempo e della produzione
entro i luoghi di lavoro produttivi. Il tema
del potere, che è connesso con quello del lavoro e della sua dignità.
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