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venerdì 4 agosto 2017

Come si costruisce un ‘popolo’


Riporto qui il testo di un articolo pubblicato sul numero 04 della rivista “I nipoti di Maritain”, che è disponibile interamente a questo link. Si tratta di un pezzo elaborato in risposta ad una call for paper sul populismo, ed alla quale hanno risposto anche autori di “Senso Comune”, come Tommaso Nencioni, e poi Francesco Garrapa, Andrea Virga, Emanuele Pinelli, Rocco Gumina.




Questo è il testo dell’articolo:




Ormai è chiaro: il populismo fa parte dello “spirito del tempo”.
In altro modo: lo schema d’ordine della società sta cambiando sotto i nostri piedi ad una velocità crescente, e si riorienta dalla coppia progresso/reazione – che ha indirizzato le nostre menti nel corso del novecento – a quella establishment/popolo verso la quale si orientano le retoriche pubbliche. Tutte le retoriche pubbliche, anche di chi non potrebbe che essere incluso nel primo gruppo sotto qualsiasi possibile definizione (come Macron, o Renzi, o Trump, per fare esempi diversi).

Di fronte a questo spettacolo tutti noi ci volgiamo confusi, non sappiamo più che cosa pensare e desiderare: alcuni reagiscono riapplicando in modo rafforzato il vecchio schema e identificano quindi come “reazione” ogni moto di difesa di chi si sente umiliato ed offeso, ferito nelle sue possibilità di sopravvivenza dignitosa e indignato per i privilegi che identifica intorno a sé (con maggiore o minore precisione). Allora questi chiamano “progresso” ogni rafforzamento della dinamica di disgregazione delle forme di integrazione novecentesche e produzione di schemi di potenziale integrazione cosmopolita.
Altri percepiscono l’insostenibile tradimento delle promesse di liberazione e progressivo miglioramento materiale e spirituale che l’alleanza tra neoliberismo e progressismo aveva formulato negli Anni Novanta, connettendolo con la “società aperta”, e disvelano l’ineguale distribuzione dei benefici e dei privilegi lungo l’asse verticale.

Mentre l’angelo della storia [1] procede, accumulando le macerie al suo passaggio, la “reazione” degli umiliati e dei traditi per alcuni è “reazionaria”, per altri giustificata e democratica, il sale e lo spirito della democrazia.

C’è, in qualche modo, un pensiero disancorato e andato alla deriva in questa identificazione della risposta al tradimento delle élite nei confronti del faticoso compromesso del Novecento, con la rivolta “reazionaria” che i sostenitori dell’antico ordine feudale europeo opponevano alla rivoluzione industriale ed alle sue forme politiche e sociali nel XIX Secolo. L’ordine welfarista, infatti, era di tutt’altro segno di quello dell’ancién regime, integrava i forti con i deboli gli uni verso gli altri attraverso la condivisione di valori e sentimenti, e quindi di risorse e strutture, mentre quello sottometteva e creava percorsi di vita senza possibilità di autonomia. C’è dunque un inganno nel vedere “vento reazionario” dove c’è principalmente una rabbia correttamente indirizzata. 
Una rabbia che scaturisce dalla pretesa di integrare l’umanità solo attraverso la regola e la legge, fondando ogni vita individuale e collettiva su meri diritti individuali formalmente eguali, anche quando le condizioni materiali, sociali e spirituali lo impediscono. Una finzione che fa velo, ormai sempre più esile, alla nuda realtà del potere. Allo “spirito del capitalismo” che si riassume nella religione dell’efficienza e del correlativo calcolo, nella riduzione dell’uomo ai più ristretti dei suoi desideri, attivamente coltivati dal mercato. Ma, ormai, sta perdendo slancio quella spinta che, sotto lo schema ineguale e disgregante della globalizzazione, teneva sotto scacco le nostre (ormai sempre più post) democrazie, gli Stati redistributivi, e le forze sociali connesse con le forme di integrazione comunitaria e sociale.

Siamo entrati in una “fase interregno”, nella quale la “forma populista” confonde la nostra percezione mentre gli ordini cui siamo abituati si dissolvono. Ma questa è solo un’apparenza, determinata dall’assuefazione all’ordine dell’anti-politica prodotto dalle élite, che rinviano ogni scelta reale a fatto tecnico e la sottraggono alla pubblica discussione. Dunque è per loro “populista” ogni proposta che rifiuta di stare a questo gioco; ad esempio che rifiuta di affidare alle amorevoli cure del mercato tutti i perdenti dei processi di “libero” commercio internazionale, dimenticando che il loro “risarcimento” è previsto – con ipocrita falsa coscienza – in ogni manuale tecnico delle loro stesse scuole [2]. È “populista” ogni proposta che identifica una responsabilità verso i propri cittadini, come verso gli stessi migranti, e quindi la relativa assunzione di politiche attive secondo ragionevolezza e disponibilità delle relative risorse. È populista ogni proposta che si confronta con l’inesauribile crescita della disoccupazione e sottoccupazione non guardando solo ai profitti del capitale (nel falso presupposto che questi, reinvestendosi, alla fine li riducano), ma ai diritti sociali delle persone, condizione inevitabile per godere e financo accorgersi di quelli “civili”. È “populista”, insomma, tutto quel che è “popolare”. 
Anche in questa direzione può essere interessante guardare, incluso per chi parla da posizione laica come me, alla parola di papa Francesco, quando identifica una distinzione tra “populismo” come ricerca della presa di parola dei “popoli”, ovvero come “movimento popolare” dal basso, e i populismi carichi di odio, fondati su una chiusura identitaria in buona misura “inventata”, che abbiamo visto in Europa nell’altra crisi di riflusso della globalizzazione, negli Anni Trenta (su questo tema bisognerebbe assolutamente rileggere Karl Polanyi). La distinzione che propone è dunque tra un movimento difensivo – una sorta di collasso della capacità di confrontarsi con il mondo e con i problemi che ci pone – e un movimento di liberazione in cui si attiva un processo di auto-organizzazione.

Il vero tema, dato che nessun fondo “naturale” o dinamica tecnica viene in soccorso, è quindi come si “costruisce” il popolo. La prospettiva anti-liberale (dunque contro la riduzione dell’umano ad un grumo di desideri commerciabili, protetto da un set di diritti neutrali) di Bergoglio mi sembra scaturisca chiaramente da ciò che ha detto in un interessante discorso del 2015 [3]: l’umano in qualche modo diventa tale nella «relazione […] delle persone con il mondo e con gli altri intorno a sé», ma in una relazione che è «concreta»   [4]. Ovvero nella quale «il singolo si sente intessuto in un popolo, cioè in una “unione originaria degli uomini che per specie, paese, ed evoluzione storica nella vita e nei destini sono un tutto unico”». L’uomo, cioè, si fa tale solo in «relazioni vitali naturali» dalle quali non può essere strappato presumendo che la sua vera essenza sia colta dalla “ragione”, intesa sotto la forma dello scientismo e riassumibile nella manifestazione quantitativa. Ovvero che riposi nel progresso come crescita materiale (peraltro tradita).


La “costruzione” del popolo è quindi un progetto politico e culturale che deve procedere dal concreto della vita per come si dà, e spingere a rischiare entro il progetto incompiuto della democrazia una nuova articolazione del vocabolario della “fraternità”, e quindi, entro questa, della “libertà” nella “eguaglianza”. Anche in senso laico, l’essere l’uno-per-l’altro deve essere la forma privilegiata nell’ordine sociale, facendo, se necessario, recedere la differenziazione funzionale e mettendo in comunicazione sottosistemi (come quello morale, quello legale-formale e quello della società di mercato, ma anche quello dei rapporti personali e della famiglia) intorno al principio democratico (anziché quello liberale, come mostra Colin Crouch). 

La posta autentica dei movimenti “populisti” è ripensare l’umano nella società, prima che nell’economia e nella stessa politica formale. I valori intorno ai quali ripensarlo possono ancora segnare una differenza.



[1] Immagine di W. Benjamin, “Tesi di filosofia della storia”, n.9, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962.
[2] Ad esempio, P. Krugman, M. Obstfeld, M. J. Melitz, Economia internazionale, Pearson, Milano 2012, par 4.3.
[3] Francesco, Discorso del santo padre Francesco ai partecipanti alla conferenza promossa dal “Romano Guardini stinfung”, 13 novembre 2015.
[4] Qui Francesco cita R. Guardini, Il senso della chiesa, Morcellana, Brescia 2007, pp. 21-22.


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