Riporto qui il testo di un articolo
pubblicato sul numero 04 della rivista “I nipoti di Maritain”, che è
disponibile interamente a questo link. Si
tratta di un pezzo elaborato in risposta ad una call for paper sul populismo,
ed alla quale hanno risposto anche autori di “Senso Comune”, come
Tommaso Nencioni, e poi Francesco Garrapa, Andrea Virga, Emanuele Pinelli,
Rocco Gumina.
Questo è il testo dell’articolo:
Ormai è chiaro: il populismo fa parte
dello “spirito del tempo”.
In altro modo: lo schema d’ordine della
società sta cambiando sotto i nostri piedi ad una velocità crescente, e si
riorienta dalla coppia progresso/reazione
– che ha indirizzato le nostre menti nel corso del novecento – a quella establishment/popolo verso la quale si
orientano le retoriche pubbliche. Tutte
le retoriche pubbliche, anche di chi non potrebbe che essere incluso nel primo
gruppo sotto qualsiasi possibile definizione (come Macron, o Renzi, o Trump,
per fare esempi diversi).
Di fronte a questo spettacolo tutti noi ci
volgiamo confusi, non sappiamo più che cosa pensare e desiderare: alcuni reagiscono riapplicando in modo
rafforzato il vecchio schema e identificano quindi come “reazione” ogni moto di
difesa di chi si sente umiliato ed offeso, ferito nelle sue possibilità di
sopravvivenza dignitosa e indignato per i privilegi che identifica intorno a sé
(con maggiore o minore precisione). Allora questi chiamano “progresso” ogni
rafforzamento della dinamica di disgregazione delle forme di integrazione
novecentesche e produzione di schemi di potenziale integrazione cosmopolita.
Altri
percepiscono l’insostenibile tradimento delle promesse di liberazione e
progressivo miglioramento materiale e spirituale che l’alleanza tra
neoliberismo e progressismo aveva formulato negli Anni Novanta, connettendolo
con la “società aperta”, e disvelano l’ineguale distribuzione dei benefici e
dei privilegi lungo l’asse verticale.
Mentre l’angelo della storia [1]
procede, accumulando le macerie al suo passaggio, la “reazione” degli umiliati
e dei traditi per alcuni è “reazionaria”, per altri giustificata e democratica,
il sale e lo spirito della democrazia.
C’è, in qualche modo, un pensiero disancorato
e andato alla deriva in questa identificazione della risposta al tradimento
delle élite nei confronti del
faticoso compromesso del Novecento, con la rivolta “reazionaria” che i
sostenitori dell’antico ordine feudale europeo opponevano alla rivoluzione
industriale ed alle sue forme politiche e sociali nel XIX Secolo. L’ordine
welfarista, infatti, era di tutt’altro segno di quello dell’ancién regime, integrava
i forti con i deboli gli uni verso gli
altri attraverso la condivisione di valori e sentimenti, e quindi di
risorse e strutture, mentre quello sottometteva e creava percorsi di vita senza
possibilità di autonomia. C’è dunque un inganno nel vedere “vento reazionario”
dove c’è principalmente una rabbia correttamente indirizzata.
Una rabbia che scaturisce dalla pretesa di
integrare l’umanità solo attraverso
la regola e la legge, fondando ogni vita individuale e collettiva su meri
diritti individuali formalmente eguali, anche quando le condizioni materiali,
sociali e spirituali lo impediscono. Una finzione che fa velo, ormai sempre più
esile, alla nuda realtà del potere. Allo “spirito del capitalismo” che si
riassume nella religione dell’efficienza e del correlativo calcolo, nella
riduzione dell’uomo ai più ristretti dei suoi desideri, attivamente coltivati
dal mercato. Ma, ormai, sta perdendo slancio quella spinta che, sotto lo schema
ineguale e disgregante della globalizzazione, teneva sotto scacco le nostre (ormai
sempre più post) democrazie, gli Stati redistributivi, e le forze sociali
connesse con le forme di integrazione comunitaria e sociale.
Siamo entrati in una “fase interregno”,
nella quale la “forma populista”
confonde la nostra percezione mentre gli ordini cui siamo abituati si
dissolvono. Ma questa è solo un’apparenza, determinata dall’assuefazione all’ordine
dell’anti-politica prodotto dalle élite,
che rinviano ogni scelta reale a fatto tecnico e la sottraggono alla pubblica
discussione. Dunque è per loro “populista” ogni proposta che rifiuta di stare a
questo gioco; ad esempio che rifiuta di affidare alle amorevoli cure del
mercato tutti i perdenti dei processi di “libero” commercio internazionale,
dimenticando che il loro “risarcimento” è previsto – con ipocrita falsa
coscienza – in ogni manuale tecnico delle loro stesse scuole [2].
È “populista” ogni proposta che identifica una responsabilità verso i propri
cittadini, come verso gli stessi migranti, e quindi la relativa assunzione di
politiche attive secondo ragionevolezza e disponibilità delle relative risorse.
È populista ogni proposta che si confronta con l’inesauribile crescita della
disoccupazione e sottoccupazione non guardando solo ai profitti del capitale
(nel falso presupposto che questi, reinvestendosi, alla fine li riducano), ma
ai diritti sociali delle persone, condizione inevitabile per godere e financo
accorgersi di quelli “civili”. È
“populista”, insomma, tutto quel che è “popolare”.
Anche in questa direzione può essere
interessante guardare, incluso per chi parla da posizione laica come me, alla
parola di papa Francesco, quando identifica una distinzione tra “populismo”
come ricerca della presa di parola dei “popoli”, ovvero come “movimento
popolare” dal basso, e i populismi carichi di odio, fondati su una chiusura
identitaria in buona misura “inventata”, che abbiamo visto in Europa nell’altra
crisi di riflusso della globalizzazione, negli Anni Trenta (su questo tema
bisognerebbe assolutamente rileggere
Karl Polanyi). La
distinzione che propone è dunque tra un movimento difensivo – una sorta di collasso della capacità di confrontarsi con il mondo e con i
problemi che ci pone – e un movimento di liberazione in cui si attiva un
processo di auto-organizzazione.
Il vero tema, dato che nessun fondo “naturale”
o dinamica tecnica viene in soccorso, è quindi come si “costruisce” il popolo. La prospettiva anti-liberale
(dunque
contro la riduzione dell’umano ad un grumo di desideri commerciabili, protetto
da un set di diritti neutrali) di Bergoglio mi sembra scaturisca chiaramente da
ciò che ha detto in un interessante discorso del 2015 [3]:
l’umano in qualche modo diventa tale nella «relazione […] delle persone con il
mondo e con gli altri intorno a sé», ma in una relazione che è «concreta» [4].
Ovvero nella quale «il singolo si sente intessuto in un popolo, cioè in una “unione
originaria degli uomini che per specie, paese, ed evoluzione storica nella vita
e nei destini sono un tutto unico”». L’uomo, cioè, si fa tale solo in «relazioni
vitali naturali» dalle quali non può essere strappato presumendo che la sua
vera essenza sia colta dalla “ragione”, intesa sotto la forma dello scientismo
e riassumibile nella manifestazione quantitativa. Ovvero che riposi nel
progresso come crescita materiale (peraltro tradita).
La “costruzione” del popolo è quindi un
progetto politico e culturale che deve procedere dal concreto della vita per
come si dà, e spingere a rischiare entro il progetto incompiuto della
democrazia una nuova articolazione del vocabolario della “fraternità”, e quindi, entro questa,
della “libertà” nella “eguaglianza”. Anche in senso laico, l’essere l’uno-per-l’altro deve essere
la forma privilegiata nell’ordine sociale, facendo, se necessario, recedere la
differenziazione funzionale e mettendo in comunicazione sottosistemi (come
quello morale, quello legale-formale e quello della società di mercato, ma
anche quello dei rapporti personali e della famiglia) intorno al principio
democratico (anziché quello liberale, come mostra Colin
Crouch).
La posta autentica dei movimenti “populisti” è ripensare
l’umano nella società, prima che nell’economia e nella stessa politica formale.
I valori intorno ai quali ripensarlo possono ancora segnare una differenza.
[1] Immagine di W. Benjamin, “Tesi di filosofia della
storia”, n.9, in Angelus Novus,
Einaudi, Torino 1962.
[2] Ad esempio, P. Krugman, M. Obstfeld, M. J. Melitz, Economia
internazionale, Pearson, Milano 2012, par 4.3.
[3] Francesco, Discorso
del santo padre Francesco ai partecipanti alla conferenza promossa dal “Romano
Guardini stinfung”, 13 novembre 2015.
[4] Qui Francesco cita R. Guardini, Il senso della chiesa, Morcellana, Brescia 2007, pp. 21-22.
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