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venerdì 4 agosto 2017

Joseph Stiglitz, Postfazione a “L’Euro”: commercio e immigrazione.


The Euro”, è stato edito in USA all’inizio del 2016, dunque precede i grandi eventi dell’anno, la Brexit e anche l’elezione di Trump, ma “L’Euro” è stato pubblicato nel 2017, quando tutto era avvenuto. Dunque Stiglitz aggiunge all’edizione italiana una “Postfazione” per dare conto della Brexit e della crisi dei migranti che nel corso dell’anno hanno agitato la scena europea.

Racconta quindi gli eventi e ne fornisce una scheletrica spiegazione, prima di tutto della Brexit, e della inconsulta e violenta prima reazione europea, volta a cercare di tenere insieme l’Europa (per paura che l’esempio si diffonda). La questione al riguardo è che queste reazioni (quella di Van Rompuy, che ha condannato la chiamata del popolo a votare e quella di Juncker, che ha dichiarato la necessità di punire l’Inghilterra) mostrano due verità circa ciò che il progetto europeo è diventato: come illustra ampiamente nelle prime 300 pagine del libro, un progetto fallito e tenuto insieme dalla paura e assolutamente ostile alla democrazia popolare. Certo, come avverte, il libro è concentrato sull’Euro, al quale la Gran Bretagna non ha aderito, ma le forze che hanno indotto a scegliere la strada della moneta unica sono in effetti le stesse che hanno operato nelle altre dimensioni del programma, minando la fiducia nella UE e “privandola del sostegno popolare” (p.335).
Questo concetto mi sembra il più importante della Postfazione: quel che lo stesso economista americano chiama “neoliberismo” (cioè fondamentalismo di mercato), è un pensiero chiuso proprio di limitate élite corporative, che ha fatto da guida, come dice, “non solo nella creazione dell’Euro, ma in gran parte dell’evoluzione dell’Unione Europea”. Si tratta dunque sia di ideologia e sia di interessi al cui servizio questa opera.



Gli effetti, da tutte e due le parti dell’Atlantico (dunque Brexit e Trump), di questa prevalenza di ideologia ed interessi sono l’accumularsi di una sorta di “tempesta perfetta”: una crescita ad esclusivo vantaggio dell’1% dei cittadini, un reddito familiare mediano che in USA è vicino a quello di venticinque anni fa (nel frattempo l’economia è cresciuta da 6.000 a 18.000 Mld di dollari), mentre quelli dei più deboli sono fermi a sessanta anni fa (quando il Pil era meno di 1.000 Mld). In una economia che è cresciuta di sedici volte i lavoratori più deboli non hanno avuto niente, se non aumento dei suicidi, dei tassi di alcolismo, delle malattie sociali e una diminuzione dell’attesa di vita di molti anni.

Ma anche più in generale, Stiglitz utilizza gli studi di Branko Milanovic per mostrare che chi ha vinto nella battaglia della globalizzazione è ancora l’1%, più la nuova borghesia nei paesi emergenti, ma le persone sui gradini più bassi “continuano a soffrire o ristagnare”, e in questo conto ci sono anche “i contadini poveri dei paesi più poveri [che] hanno risentito pesantemente degli accordi commerciali che hanno consentito ai paesi ricchi di mantenere ingenti sovvenzioni pubbliche”. Come si dovrebbe ricordare, infatti, i paesi occidentali hanno abbandonato il tavolo del Development Round del Doha (chiuso con un fallimento completo nel 2015) non appena è entrata in agenda l’eliminazione dei sussidi all’agricoltura autoctona (ovvero americana ed europea) che impedivano ai paesi in via di sviluppo di resistere sul mercato. In altre parole, prima hanno abbattuto tutte le barriere tariffarie, in modo da far sì che la concorrenza si affermasse, e poi hanno rifiutato di eliminare i sussidi interni (sapendo che gli altri non se li potevano permettere). Quando sono stati accusati di violare le norme dell’Omc hanno risposto con una scrollata di spalle, in fondo chi è che ha il potere?
Ma secondo Stiglitz “il gruppo che è stato peggio di tutti è quello costituito dagli appartenenti alle classi lavoratrici in Europa e negli Stati uniti” (p. 338). E la loro situazione è peggiorata dopo la crisi del 2008, perché è nelle crisi che si ristrutturano le aziende, si perde il lavoro e poi in genere non si recupera (se l’azienda si riprende riorganizza i suoi servizi e in questa condizione tecnologica lo fa con molto meno lavoro e di altro genere). Inoltre tutto è stato peggiorato dall’ideologia dell’austerità.
A maggiore ironia sono stati gli ingenti contributi dati per salvare le banche e sostenere i corsi dei titoli (la cui liquidità è cruciale per l’equilibrio di sistema) a rendere necessario, nel contesto dell’ideologia del bilancio in pareggio, di tagliare la spesa pubblica dal lato dei più deboli. Che quindi hanno visto ridurre il proprio reddito e anche i contributi a questo che derivavano dai servizi pubblici goduti.

Ma la promessa del neoliberismo era stata altra: globalizzazione, finanziarizzazione, integrazione economica, liberalizzazioni avrebbero creato un nuovo ordine economico a vantaggio di tutti. Magari a vantaggio più di qualcuno che di altri, ma in cui comunque tutti avrebbero visto crescere la loro parte. Questa promessa si è realizzata solo in una parte: è cresciuta l’ineguaglianza.
Ma la crescita complessiva è stata modesta e moltissimi non hanno visto alcun beneficio, anzi sono arretrati. Stagnazione ed insicurezza hanno colpito negli USA, secondo il nostro, addirittura il 90% delle persone.
In questo contesto la sinistra ha sposato le idee neoliberiste, tanto che “diventava sempre più difficile distinguere tra conservatori compassionevoli e ‘nuova sinistra’”, politici come Bill Clinton, Tony Blair, Gerhard Schroder hanno introdotto “riforme che la destra ha provato a realizzare per decenni”.

Questo è il quadro nel quale, raggiunta la crisi inevitabile, l’establishment ha reagito sostenendo che bisognava raddoppiare la posta: “più tagli al bilancio, più accordi commerciali, più liberalizzazione dei mercati finanziari e più integrazione, aliquote fiscali più basse per le imprese e le persone fisiche”. In sostanza come i medici medioevali, se il paziente non si riprende bisogna ripetere il salasso.



La Brexit e la vittoria di Trump si spiegano quindi in questo modo: le politiche portate avanti, come i salassi, hanno indebolito la società e ferito i più deboli, ed il centrosinistra ormai “cooptato” ha solo pensato di intensificarle. Alla fine l’alternativa è stata cercata nei movimenti estremi, dove si qualifica “estremo” ciò che una volta sarebbe stato considerato moderato.
La destra, invece, si è concentrata ovunque su due temi: il commercio e l’immigrazione. Sono stati accusati, insieme alla cattiva finanza, di essere i colpevoli del peggioramento delle condizioni di vita.

Ora, qui c’è un punto delicato, nel quale bisogna assolutamente mantenere lucida la visione: come dice Stiglitz, infatti, “c’è più di un fondo di verità” nell’accusare la liberalizzazione del commercio e l’immigrazione di aver avuto “un ruolo importante”. Non si è trattato dell’unico fattore (ad esempio conta anche l’avanzamento tecnologico), ma commercio e immigrazione sono questioni di scelte. Potevano essere prese scelte diverse, e anche lasciando la liberalizzazione dei commerci e dei flussi potevano essere messe in campo politiche di adattamento volte a ridurne gli effetti, ma in modo molto significativo le stesse forze che hanno chiesto a gran voce la caduta di ogni barriera si sono opposte a salari minimi, incremento del welfare, politiche industriali e della ricerca, formazione pubblica. Per attuarle bisognava infatti rinforzare l’azione pubblica e aumentare la tassazione sui vincitori (cioè ciò che è scritto in ogni manuale universitario di commercio internazionale), ma lo scopo era esattamente l’opposto.



Stiglitz a questo punto si concentra sul commercio e sull’immigrazione. Per il primo ricorda un semplicissimo concetto, introdotto da Paul Samuelson, secondo il quale in condizione di mercati perfetti (cioè in base all’obiettivo dei neoliberisti) il libero commercio ha l’ovvia conseguenza di livellare i salari dei lavoratori non qualificati. I salari a 265 euro al mese che si stanno imponendo in Grecia non sono affatto un’aberrazione, si tratta di una conseguenza progettata della liberalizzazione dei commerci. Infatti sul piano degli effetti scambiare le merci equivale a scambiare le persone che le producono, ovvero usando termini della tradizione marxista, il “lavoro astratto” è messo in competizione attraverso le barriere che cadono.
Alcuni studi che abbiamo già citato mostrano che di fatto l’espansione dell’import dalla Cina di merci prodotte con “lavoro astratto” comparabile con quello disponibile in occidente (ovvero ad un livello di prestazione simile, cioè poco qualificato) ha ridotto in modo molto significativo e concentrato in alcuni luoghi la domanda di lavoro autoctona. In pratica è quasi come se non ci fossero barriere allo spostamento delle persone e centinaia di milioni di persone fossero arrivate in USA ed Europa, portando il valore del lavoro per il capitale (cioè i salari) al livello cinese; o ad un livello di compromesso molto vicino. E’ chiaro che a parità di produzione il vantaggio si tradurrebbe in profitti per il capitale impiegato (in realtà c’è una retroazione che si può rubricare come “debolezza della domanda mondiale”, e “fragilità finanziaria”).

Dunque quando i neoliberisti sostengono che tutti trarranno vantaggio dal libero commercio, semplicemente, “mentono”: sono i loro gruppi sociali di riferimento che traggono vantaggio.



Vediamo adesso l’immigrazione. Il tema, riconosce il premio nobel americano, è intriso di emotività e sensi di colpa, ma “da un punto di vista strettamente economico” la cosa è molto chiara e semplice: “con curve discendenti della domanda (il caso abituale), un incremento dell’offerta porta normalmente a un prezzo di equilibrio più basso. Sui mercati del lavoro questo significa che un afflusso di lavoratori dequalificati porta a una diminuzione dei salari. e quando i salari non possono scendere oltre, o non vengono diminuiti, ne consegue una maggiore disoccupazione” (p.347).

Questo fenomeno è ovviamente più forte dove già c’è disoccupazione.

Le eccezioni sono quando un flusso di lavoratori molto qualificati induce, concentrandosi magari in qualche “hub dell’innovazione” un incremento della produttività e questa trascina verso l’alto i salari. potrebbe essere il caso di alcuni casi di studio molto famosi, come l’emigrazione da Cuba (paese ad altissima scolarizzazione) concentrata in un’area relativamente ristretta nella quale preesistevano reti di accoglienza e socializzazione potenti. Oppure un flusso di rifugiati ricchi, con i beni al seguito, che può indurre un incremento della domanda di beni, e quindi effetti a cascata sulla produzione ed i salari. Certo, in questo caso, potrebbero esseri pesanti effetti collaterali sul mercato immobiliare, e in generale sull’inflazione dei beni bersaglio della spesa, rendendoli inaccessibili ai lavoratori locali.

A parte queste eccezioni, in Europa, si vede un flusso crescente di rifugiati che porterà effetti distributivi importanti e di segno opposto:
-        “per i lavoratori in termini di riduzione dei salari e crescita della disoccupazione”,
-        Per le aziende festeggiando “i vantaggi procurati dall’abbassamento del costo del lavoro” (è quel che si intende quando si festeggia un incremento della “competitività”).
Dunque le cose sono piuttosto semplici, per Stiglitz: “l’onere ricade tutto sulle spalle di chi è meno equipaggiato a sostenerlo” (p.348).

Non si tratta di un fenomeno nuovo, perché è esattamente quel che è già accaduto con l’“idraulico polacco”, cioè con l’allargamento ad Est. In quel caso non c’è stata gestione e la pressione sui lavoratori, come ovviamente voluto, è cresciuta “per creare un mercato occupazionale più docile, in cui finalmente i sindacati non avrebbero più creato problemi”. Tutto ciò è perfettamente coerente con l’agenda neoliberista “che, secondo molti, è al servizio delle multinazionali”.
Anche per l’immigrazione, come per l’Euro, insomma, i fautori hanno sopravvalutato i vantaggi e sottostimato gli effetti distributivi e le conseguenze.

Per Stiglitz non è neppure vero che in un paese che offre almeno “una parvenza di servizi egualitari” nel complesso ci sia un vantaggio: anche qui è l’opposto. E comunque se ci fosse davvero una somma di vantaggi (per i più forti) maggiore dei costi concentrati sulle classi sociali più deboli, allora bisognerebbe effettivamente risarcirle. Ovvero bisognerebbe tralasciare le favole sull’austerità, aumentare significativamente la spesa pubblica sociale e la tassazione sui ceti e classi che se ne avvantaggiano (come anche, come vedremo, attuare trasferimenti tra zone beneficiate e danneggiate). Invece si fa altro, si favorisce l’immigrazione proprio mentre si aumenta l’austerità, si contraggono le spese sociali e si riducono le tasse per finanziarla.

D’altra parte si dice che ci siano vantaggi anche per i paesi dai quali gli immigrati partono, ovvero dai paesi colpiti dalle nostre inique politiche commerciali: anche qui Stiglitz è di altra opinione. Quando in un paese le persone di maggior talento, o semplicemente le più intraprendenti, partono si ha una sorta di “svuotamento” dell’economia locale. A causa di un meccanismo simile ma opposto a quello dell’alta immigrazione negli “hub”, il mercato del lavoro si indebolisce, le imprese si ricollocano su segmenti più poveri con concorrenza più alta e i salari medi scendono. Potrebbe anche aumentare anche la disoccupazione. Inoltre ci sono effetti di rafforzamento sull’indebolimento della capacità fiscale, dunque sulla spesa pubblica e quindi sul tenore dell’ambiente locale. Quando 7500 medici greci sono emigrati in Germania il paese mediterraneo ha perso sia gli investimenti in capitale umano compiuti sulla loro formazione, sia le capacità della propria sanità.

Le rimesse (che in genere diminuiscono man mano che l’immigrato si integra, costringendo la famiglia di provenienza a reiterare il processo) non sono sufficienti a bilanciare questi effetti negativi.


Dunque l’insieme di questi meccanismi, e questa è la cosa veramente importante, produce percorsi autorafforzanti “di divergenza anziché di convergenza” (p.350). Si ottiene una sempre maggiore polarizzazione e la crescita delle ineguaglianze, che colpiscono sia i paesi di provenienza sia di destinazione. E nella quale “gli unici a uscirne sicuramente vincitori sono i migranti stessi e le aziende che sfruttano il loro lavoro a un costo inferiore”, ma la loro vittoria è a spese dei cittadini che restano nei paesi di partenza e di quelli tra i più deboli di quelli di destinazione.

Dunque nel complesso la libertà di circolazione dei lavoratori va compresa come un equivalente dell’Euro e strettamente connesso con l’ideologia neoliberale: “un esempio di integrazione economica che ha anticipato i tempi dell’integrazione politica”, ed è simile proprio in questo, cioè nell’istituirsi senza avere le condizioni per essere gestita. Ovvero senza rafforzate politiche di crescita, di equità sociale, salariali, professionali, volte a proteggere il sindacato, etc…

Ora sarebbe logico che a farsi carico dei migranti siano i paesi che hanno un mercato del lavoro più forte, vicino alla piena occupazione, e con condizioni fiscali più solide, che consentano quindi l’espansione della spesa per gestire lo stress. Inoltre sarebbe appropriato che le nazioni ricche si facessero carico dei costi dell’immigrazione (p.353). Ma come per l’Euro si vogliono i vantaggi depurati dei costi, e dunque anche qui la Germania continua con il suo ritornello “l’Europa non è un’unione di trasferimento”. Insomma, ognuno per sé, l’Europa è un’arena di competizione, in realtà.


Insomma, per Stiglitz, se l’Europa, come è evidente, non è pronta a condividere sia i benefici, sia i rischi ed oneri, dunque trasferendo con un’opportuna espansione del bilancio il potere a livello federale (in USA due terzi della spesa pubblica sono federali), allora non è pronta né per l’Euro né per la libertà di migrazione o per il mercato unico. Per nessuna delle tre.
Per avere una moneta o la libertà di commercio o di persone bisogna infatti assolutamente avere gli strumenti per gestirne le conseguenze, che sono al minimo:
-        armonizzazione fiscale (e trasferimento fiscale),
-        rete di previdenza sociale europea (a costo comune),
-        politiche industriali in favore delle aree che restano indietro.

Peraltro come mostra l’esempio italiano (normalmente citato in letteratura), se ci sono le prime due senza la terza al livello adeguato di intensità e tempo, la divergenza si dà lo stesso.

Ad esempio le nazioni che subiscono l’emigrazione dovrebbero essere risarcite da parte di quelle che la ricevono (dunque noi dalla Germania, e a nostra volta verso i paesi di provenienza africani e mediorientali) per la perdita di potenziale umano (ovvero, come dice gergalmente “per la perdita del capitale umano nel quale hanno investito”).

Tutto ciò è semplicemente impensabile, la verità del progetto europeo è che si tratta di uno strumento di potere agito dai più forti per diventare sempre più tali; se si avviasse nella direzione che il generoso economista americano indica tradirebbe dunque se stesso.


L’intera partita non avrebbe più senso dal punto di vista dei beneficiari ultimi. 

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