“The Euro”, è
stato edito in USA all’inizio del 2016, dunque precede i grandi eventi dell’anno,
la Brexit e anche l’elezione di Trump, ma “L’Euro”
è stato pubblicato nel 2017, quando tutto era avvenuto. Dunque Stiglitz
aggiunge all’edizione italiana una “Postfazione”
per dare conto della Brexit e della crisi dei migranti che nel corso dell’anno
hanno agitato la scena europea.
Racconta quindi gli eventi e ne fornisce una scheletrica
spiegazione, prima di tutto della Brexit, e della inconsulta e violenta prima
reazione europea, volta a cercare di tenere insieme l’Europa (per paura che l’esempio
si diffonda). La questione al riguardo è che queste reazioni (quella di Van
Rompuy, che ha condannato la chiamata del popolo a votare e quella di Juncker,
che ha dichiarato la necessità di punire l’Inghilterra) mostrano due verità circa
ciò che il progetto europeo è diventato: come illustra ampiamente nelle prime
300 pagine del libro, un progetto fallito
e tenuto insieme dalla paura e assolutamente ostile alla democrazia popolare.
Certo, come avverte, il libro è concentrato sull’Euro, al quale la Gran
Bretagna non ha aderito, ma le forze che hanno indotto a scegliere la strada
della moneta unica sono in effetti le stesse che hanno operato nelle altre
dimensioni del programma, minando la fiducia nella UE e “privandola del
sostegno popolare” (p.335).
Questo concetto mi sembra il più importante della
Postfazione: quel che lo stesso economista americano chiama “neoliberismo”
(cioè fondamentalismo di mercato), è un pensiero chiuso proprio di limitate
élite corporative, che ha fatto da guida, come dice, “non solo nella creazione
dell’Euro, ma in gran parte dell’evoluzione dell’Unione Europea”. Si tratta
dunque sia di ideologia e sia di
interessi al cui servizio questa opera.
Gli effetti, da tutte e due le parti dell’Atlantico
(dunque Brexit e Trump), di questa prevalenza di ideologia ed interessi sono l’accumularsi
di una sorta di “tempesta perfetta”: una crescita ad esclusivo vantaggio dell’1%
dei cittadini, un reddito familiare mediano che in USA è vicino a quello di
venticinque anni fa (nel frattempo l’economia è cresciuta da 6.000 a 18.000 Mld
di dollari), mentre quelli dei più deboli sono fermi a sessanta anni fa (quando
il Pil era meno di 1.000 Mld). In una economia che è cresciuta di sedici volte
i lavoratori più deboli non hanno avuto niente, se non aumento dei suicidi, dei
tassi di alcolismo, delle malattie sociali e una diminuzione dell’attesa di
vita di molti anni.
Ma anche più in generale, Stiglitz utilizza gli studi
di Branko Milanovic per mostrare che chi ha vinto nella battaglia della
globalizzazione è ancora l’1%, più la nuova borghesia nei paesi emergenti, ma
le persone sui gradini più bassi “continuano a soffrire o ristagnare”, e in
questo conto ci sono anche “i contadini poveri dei paesi più poveri [che] hanno
risentito pesantemente degli accordi commerciali che hanno consentito ai paesi
ricchi di mantenere ingenti sovvenzioni pubbliche”. Come si dovrebbe ricordare,
infatti, i paesi occidentali hanno abbandonato il tavolo del Development Round del Doha (chiuso con
un fallimento completo nel 2015) non appena è entrata in agenda l’eliminazione
dei sussidi all’agricoltura autoctona (ovvero americana ed europea) che
impedivano ai paesi in via di sviluppo di resistere sul mercato. In altre
parole, prima hanno abbattuto tutte le barriere tariffarie, in modo da far sì
che la concorrenza si affermasse, e poi hanno rifiutato di eliminare i sussidi
interni (sapendo che gli altri non se li potevano permettere). Quando sono
stati accusati di violare le norme dell’Omc hanno risposto con una scrollata di
spalle, in fondo chi è che ha il potere?
Ma secondo Stiglitz “il gruppo che è stato peggio di tutti è quello costituito dagli
appartenenti alle classi lavoratrici in Europa e negli Stati uniti” (p.
338). E la loro situazione è peggiorata dopo la crisi del 2008, perché è nelle
crisi che si ristrutturano le aziende, si perde il lavoro e poi in genere non
si recupera (se l’azienda si riprende riorganizza i suoi servizi e in questa
condizione tecnologica lo fa con molto meno lavoro e di altro genere). Inoltre tutto
è stato peggiorato dall’ideologia dell’austerità.
A maggiore ironia sono stati gli ingenti contributi
dati per salvare le banche e sostenere i corsi dei titoli (la cui liquidità è
cruciale per l’equilibrio di sistema) a rendere necessario, nel contesto dell’ideologia
del bilancio in pareggio, di tagliare la spesa pubblica dal lato dei più
deboli. Che quindi hanno visto ridurre il proprio reddito e anche i contributi
a questo che derivavano dai servizi pubblici goduti.
Ma la promessa del neoliberismo era stata altra: globalizzazione, finanziarizzazione,
integrazione economica, liberalizzazioni avrebbero creato un nuovo ordine
economico a vantaggio di tutti. Magari a vantaggio più di qualcuno che di
altri, ma in cui comunque tutti avrebbero visto crescere la loro parte. Questa promessa
si è realizzata solo in una parte: è cresciuta l’ineguaglianza.
Ma la crescita complessiva è stata modesta e
moltissimi non hanno visto alcun beneficio, anzi sono arretrati. Stagnazione ed
insicurezza hanno colpito negli USA, secondo il nostro, addirittura il 90%
delle persone.
In questo contesto la sinistra ha sposato le idee
neoliberiste, tanto che “diventava sempre più difficile distinguere tra
conservatori compassionevoli e ‘nuova sinistra’”, politici come Bill Clinton,
Tony Blair, Gerhard Schroder hanno introdotto “riforme che la destra ha provato
a realizzare per decenni”.
Questo è il quadro nel quale, raggiunta la crisi
inevitabile, l’establishment ha reagito sostenendo che bisognava raddoppiare la
posta: “più tagli al bilancio, più accordi commerciali, più liberalizzazione
dei mercati finanziari e più integrazione, aliquote fiscali più basse per le
imprese e le persone fisiche”. In sostanza come i medici medioevali, se il
paziente non si riprende bisogna ripetere il salasso.
La Brexit e la vittoria di Trump si spiegano quindi in
questo modo: le politiche portate avanti, come i salassi, hanno indebolito la
società e ferito i più deboli, ed il centrosinistra ormai “cooptato” ha solo
pensato di intensificarle. Alla fine l’alternativa è stata cercata nei
movimenti estremi, dove si qualifica “estremo” ciò che una volta sarebbe stato
considerato moderato.
La destra, invece, si è concentrata ovunque su due
temi: il commercio e l’immigrazione. Sono stati accusati, insieme alla cattiva
finanza, di essere i colpevoli del peggioramento delle condizioni di vita.
Ora, qui c’è un punto delicato, nel quale bisogna
assolutamente mantenere lucida la visione: come dice Stiglitz, infatti, “c’è
più di un fondo di verità” nell’accusare la liberalizzazione del commercio e l’immigrazione
di aver avuto “un ruolo importante”. Non si è trattato dell’unico fattore (ad
esempio conta anche l’avanzamento
tecnologico), ma commercio e immigrazione sono questioni di scelte. Potevano
essere prese scelte diverse, e anche lasciando la liberalizzazione dei commerci
e dei flussi potevano essere messe in campo politiche di adattamento volte a
ridurne gli effetti, ma in modo molto significativo le stesse forze che hanno
chiesto a gran voce la caduta di ogni barriera si sono opposte a salari minimi,
incremento del welfare, politiche industriali e della ricerca, formazione
pubblica. Per attuarle bisognava infatti rinforzare l’azione pubblica e aumentare
la tassazione sui vincitori (cioè ciò che è scritto in ogni manuale universitario
di commercio internazionale), ma lo scopo era esattamente l’opposto.
Stiglitz a questo punto si concentra sul commercio e
sull’immigrazione. Per il primo ricorda un semplicissimo concetto, introdotto
da Paul Samuelson, secondo il quale in condizione di mercati perfetti (cioè in
base all’obiettivo dei neoliberisti) il
libero commercio ha l’ovvia conseguenza di livellare i salari dei lavoratori
non qualificati. I salari a 265 euro al mese che si
stanno imponendo in Grecia non sono affatto un’aberrazione, si tratta di
una conseguenza progettata della liberalizzazione dei commerci. Infatti sul
piano degli effetti scambiare le merci equivale a scambiare le persone che le
producono, ovvero usando termini della tradizione marxista, il “lavoro astratto”
è messo in competizione attraverso le barriere che cadono.
Alcuni studi
che abbiamo già
citato mostrano che di fatto l’espansione dell’import dalla Cina di merci
prodotte con “lavoro astratto” comparabile con quello disponibile in occidente
(ovvero ad un livello di prestazione simile, cioè poco qualificato) ha ridotto
in modo molto significativo e concentrato in alcuni luoghi la domanda di lavoro
autoctona. In pratica è quasi come se non ci fossero barriere allo spostamento
delle persone e centinaia di milioni di persone fossero arrivate in USA ed
Europa, portando il valore del lavoro per il capitale (cioè i salari) al
livello cinese; o ad un livello di compromesso molto vicino. E’ chiaro che a
parità di produzione il vantaggio si tradurrebbe in profitti per il capitale
impiegato (in realtà c’è una retroazione che si può rubricare come “debolezza
della domanda mondiale”, e “fragilità finanziaria”).
Dunque quando i neoliberisti sostengono che tutti
trarranno vantaggio dal libero commercio, semplicemente, “mentono”: sono i loro
gruppi sociali di riferimento che traggono vantaggio.
Vediamo adesso l’immigrazione. Il tema, riconosce il premio nobel americano, è intriso
di emotività e sensi di colpa, ma “da un punto di vista strettamente economico”
la cosa è molto chiara e semplice: “con
curve discendenti della domanda (il caso abituale), un incremento dell’offerta
porta normalmente a un prezzo di equilibrio più basso. Sui mercati del lavoro
questo significa che un afflusso di lavoratori dequalificati porta a una diminuzione
dei salari. e quando i salari non possono scendere oltre, o non vengono
diminuiti, ne consegue una maggiore disoccupazione” (p.347).
Questo fenomeno è ovviamente più forte dove già c’è
disoccupazione.
Le eccezioni sono quando un flusso di lavoratori molto
qualificati induce, concentrandosi magari in qualche “hub dell’innovazione” un
incremento della produttività e questa trascina verso l’alto i salari. potrebbe
essere il caso di alcuni casi di studio molto famosi, come l’emigrazione da
Cuba (paese ad altissima scolarizzazione) concentrata in un’area relativamente
ristretta nella quale preesistevano reti di accoglienza e socializzazione
potenti. Oppure un flusso di rifugiati ricchi, con i beni al seguito, che può
indurre un incremento della domanda di beni, e quindi effetti a cascata sulla
produzione ed i salari. Certo, in questo caso, potrebbero esseri pesanti
effetti collaterali sul mercato immobiliare, e in generale sull’inflazione dei
beni bersaglio della spesa, rendendoli inaccessibili ai lavoratori locali.
A parte queste eccezioni, in Europa, si vede un flusso
crescente di rifugiati che porterà effetti distributivi importanti e di segno
opposto:
-
“per i lavoratori
in termini di riduzione dei salari e crescita della disoccupazione”,
-
Per le aziende
festeggiando “i vantaggi procurati dall’abbassamento del costo del lavoro” (è
quel che si intende quando si festeggia un incremento della “competitività”).
Dunque le cose sono piuttosto semplici, per Stiglitz: “l’onere
ricade tutto sulle spalle di chi è meno equipaggiato a sostenerlo” (p.348).
Non si tratta di un fenomeno nuovo, perché è
esattamente quel che è già accaduto con l’“idraulico polacco”, cioè con l’allargamento
ad Est. In quel caso non c’è stata gestione e la pressione sui lavoratori, come
ovviamente voluto, è cresciuta “per creare un mercato occupazionale più docile,
in cui finalmente i sindacati non avrebbero più creato problemi”. Tutto ciò è
perfettamente coerente con l’agenda neoliberista “che, secondo molti, è al servizio delle multinazionali”.
Anche per l’immigrazione, come per l’Euro, insomma, i
fautori hanno sopravvalutato i vantaggi e sottostimato gli effetti distributivi
e le conseguenze.
Per Stiglitz non è neppure vero che in un paese che
offre almeno “una parvenza di servizi egualitari” nel complesso ci sia un
vantaggio: anche qui è l’opposto. E comunque se ci fosse davvero una somma di
vantaggi (per i più forti) maggiore dei costi concentrati sulle classi sociali
più deboli, allora bisognerebbe effettivamente risarcirle. Ovvero bisognerebbe
tralasciare le favole sull’austerità, aumentare significativamente la spesa
pubblica sociale e la tassazione sui ceti e classi che se ne avvantaggiano
(come anche, come vedremo, attuare trasferimenti tra zone beneficiate e
danneggiate). Invece si fa altro, si favorisce l’immigrazione proprio mentre si
aumenta l’austerità, si contraggono le spese sociali e si riducono le tasse per
finanziarla.
D’altra parte si dice che ci siano vantaggi anche per
i paesi dai quali gli immigrati partono, ovvero dai paesi colpiti dalle nostre
inique politiche commerciali: anche qui
Stiglitz è di altra opinione. Quando in un paese le persone di maggior
talento, o semplicemente le più intraprendenti, partono si ha una sorta di “svuotamento”
dell’economia locale. A causa di un meccanismo simile ma opposto a quello dell’alta
immigrazione negli “hub”, il mercato del lavoro si indebolisce, le imprese si
ricollocano su segmenti più poveri con concorrenza più alta e i salari medi
scendono. Potrebbe anche aumentare anche la disoccupazione. Inoltre ci sono
effetti di rafforzamento sull’indebolimento della capacità fiscale, dunque
sulla spesa pubblica e quindi sul tenore dell’ambiente locale. Quando 7500 medici
greci sono emigrati in Germania il paese mediterraneo ha perso sia gli
investimenti in capitale umano compiuti sulla loro formazione, sia le capacità
della propria sanità.
Le rimesse (che in genere diminuiscono man mano che l’immigrato
si integra, costringendo la famiglia di provenienza a reiterare il
processo) non sono sufficienti a bilanciare questi effetti negativi.
Dunque l’insieme di questi meccanismi, e questa è la
cosa veramente importante, produce percorsi autorafforzanti “di divergenza anziché
di convergenza” (p.350). Si ottiene una sempre maggiore polarizzazione e la
crescita delle ineguaglianze, che colpiscono sia i paesi di provenienza sia di
destinazione. E nella quale “gli unici a uscirne sicuramente vincitori sono i
migranti stessi e le aziende che sfruttano il loro lavoro a un costo inferiore”,
ma la loro vittoria è a spese dei cittadini che restano nei paesi di partenza e
di quelli tra i più deboli di quelli di destinazione.
Dunque nel complesso la libertà di circolazione dei
lavoratori va compresa come un equivalente dell’Euro e strettamente connesso
con l’ideologia neoliberale: “un esempio di integrazione economica che ha
anticipato i tempi dell’integrazione politica”, ed è simile proprio in questo,
cioè nell’istituirsi senza avere le condizioni per essere gestita. Ovvero senza
rafforzate politiche di crescita, di equità sociale, salariali, professionali,
volte a proteggere il sindacato, etc…
Ora sarebbe logico che a farsi carico dei migranti siano
i paesi che hanno un mercato del lavoro più forte, vicino alla piena
occupazione, e con condizioni fiscali più solide, che consentano quindi l’espansione
della spesa per gestire lo stress. Inoltre sarebbe appropriato che le nazioni
ricche si facessero carico dei costi dell’immigrazione (p.353). Ma come per l’Euro
si vogliono i vantaggi depurati dei costi, e dunque anche qui la Germania
continua con il suo ritornello “l’Europa
non è un’unione di trasferimento”. Insomma, ognuno per sé, l’Europa è un’arena
di competizione, in realtà.
Insomma, per Stiglitz, se l’Europa, come è evidente, non
è pronta a condividere sia i benefici, sia i rischi ed oneri, dunque
trasferendo con un’opportuna espansione del bilancio il potere a livello
federale (in USA due terzi della spesa pubblica sono federali), allora non è
pronta né per l’Euro né per la libertà di migrazione o per il mercato unico. Per
nessuna delle tre.
Per avere una moneta o la libertà di commercio o di
persone bisogna infatti assolutamente avere gli strumenti per gestirne le
conseguenze, che sono al minimo:
-
armonizzazione
fiscale (e trasferimento fiscale),
-
rete di previdenza
sociale europea (a costo comune),
-
politiche
industriali in favore delle aree che restano indietro.
Peraltro come mostra l’esempio italiano (normalmente
citato in letteratura), se ci sono le prime due senza la terza al livello
adeguato di intensità e tempo, la divergenza si dà lo stesso.
Ad esempio le nazioni che subiscono l’emigrazione dovrebbero
essere risarcite da parte di quelle che la ricevono (dunque noi dalla Germania,
e a nostra volta verso i paesi di provenienza africani e mediorientali) per la
perdita di potenziale umano (ovvero, come dice gergalmente “per la perdita del
capitale umano nel quale hanno investito”).
Tutto ciò è
semplicemente impensabile, la verità del
progetto europeo è che si tratta di uno strumento di potere agito dai più forti
per diventare sempre più tali; se si avviasse nella direzione che il generoso economista
americano indica tradirebbe dunque se stesso.
L’intera partita non avrebbe più senso dal punto di
vista dei beneficiari ultimi.
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