Ai piedi del post “Circa
Emiliano Brancaccio “La sinistra è malata quando imita la destra”, ripreso
da Sinistra in Rete con un titolo
lievemente diverso, precisamente sotto quest’ultimo
Fabrizio Marchi, direttore de L’interferenza,
ha postato il seguente gradito commento:
“Partendo
dall'ultima affermazione contenuta nel'articolo, se è vero che non si possono
aiutare gli ultimi ad esclusivo danno dei penultimi, è altrettanto vero che non
si può fare la guerra agli ultimi per "difendere" i penultimi …
Ergo,
è necessario un lavoro molto paziente, lungo e difficile per spiegare sia agli
ultimi che ai penultimi che le cause della loro condizione non sono determinate
da loro stessi ma da altri, cioè dai veri padroni del vapore che hanno
interesse a che ultimi e penultimi siano in competizione e si facciano la
guerra. Mi rendo conto che è un lavoro lunghissimo e che non porta risultati
immediati, però non c'è alternativa. Resto convinto che l'immigrazione sia solo
un effetto, o uno degli effetti, del processo di espansione planetaria del
capitalismo (quella che viene chiamata globalizzazione, processo in realtà in
corso da secoli e oggi giunto alla sua fase apicale) e che quindi la riduzione
dei salari e il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori autoctoni
sia solo in modesta parte determinato dalla presenza di lavoratori immigrati.
Le cause principali sono altre. La sconfitta storica del Movimento Operaio e
della Sinistra nel suo complesso e il crollo del socialismo reale, hanno tolto
di mezzo ogni ostacolo al capitalismo che è da trent'anni all'offensiva (dicasi
guerra di classe, ma dall'alto) senza più nessun ostacolo. per non parlare della
guerra imperialista permanente in cui ci troviamo... Insistere, a mio parere,
su questo tema dell'immigrazione (di fatto diventato il punto centrale
dell'analisi di molti compagni) è secondo me ideologicamente e politicamente
depistante”.
Intendo prendere sul serio questa obiezione, cioè di
prenderla per quel che merita.
E la leggerò a partire da tre post dello stesso
autore, che aiutano a comprendere l’insieme della sua complessa posizione:
1-
“A
proposito di depistaggi ideologici. L’immigrazione”, del 1 aprile 2017;
2-
“L’immigrazione:
le cause, le soluzioni e i depistaggi”, del 13 luglio 2017;
3-
“Profughi
sgomberati a Roma: partita la campagna elettorale del governo”, del 26
agosto 2017.
Partiamo dal primo articolo su L’Interferenza.
La prima frase determina buona parte dello sfondo
della divergenza tra le nostre posizioni: “l’impatto reale del fenomeno dell’immigrazione sulla vita concreta della stragrande maggioranza dei cittadini italiani è scarsissimo”,
precisamente lo è (e qui si nasconde il diverso senso di urgenza politica)
“nonostante quello che il versante di destra dei media e delle forze politiche
di ‘sistema’ vorrebbe farci credere”. Per Marchi, insomma, fa premio su ogni
altra considerazione l’urgenza di porre un argine al tentativo, che riconosco esistente
ed anche altamente pericoloso, del ‘populismo di destra’ (e di quello
‘dall’alto’, cioè di sistema) di funzionalizzare per i propri scopi di
deviazione e controllo sociale (cioè di “depistaggio”, il termine chiave) la
rabbia sociale che si accumula per il tradimento delle promesse del liberismo.
Dunque per ostacolare tale progetto bisogna ricondurre
l’argomento della controparte a quel che è: un’unilaterale esasperazione di
fenomeni locali. In questo senso l’impatto reale e concreto (ovvero quello
quantitativo, materiale) sulla vita della grande maggioranza è scarso. Io direi
anche altro, è positivo.
La stragrande maggioranza degli italiani vede gli
immigrati solo quando fanno i camerieri, o i giardinieri nelle case di qualche
amico, magari pensionato, e li vede quando gli servono il caffè al bar, oppure
quando questi attraversano le strade delle nostre città. Certo anche, come
scrive, quando vendono senza alcun fastidio piccoli oggetti a margine delle
nostre vite, magari consentendo a nostro figlio di cambiare la cover del
telefonino ogni settimana con poca spesa, oppure quando lavano i vetri delle
macchine (nella mia città con molto garbo ed educazione). Come dice l’autore
dunque la nostra posizione di osservazione, la sua e la mia, è di un piccolo
borghese urbano (lui a Roma, io a Napoli), con media cultura, mezz’età e
nessuna interferenza economica con loro. In effetti neppure positiva.
L’articolo di Marchi spende tutta la prima parte a
illustrare le relazioni con queste persone già inserite nella vita sociale ed
economica del paese (il fruttivendolo, ad esempio), come io potrei parlare dell’esercente
di ristorazione da strada algerino, altrettanto interessante quanto a
conoscenza e cultura del paese di provenienza. E ne conclude che in questa condizione
è la “stragrande maggioranza della popolazione italiana”, in quanto la
grandissima parte delle persone sarebbero in condizione di media dotazione
economica e condizione di lavoro e vita non confliggente per le stesse risorse
alle quali vogliono avere accesso gli immigrati di nuova introduzione, durante
il percorso di integrazione (che, anche per le ragioni di cui darò conto in un
prossimo post, deve essere quanto più spedito possibile).
Lo riporto:
“Mi sento realisticamente di affermare che nella mia
condizione si trova la stragrande maggioranza della popolazione italiana (non
essendo il sottoscritto un ricco borghese ma una persona di condizione sociale
normalissima come appunto la grandissima parte delle persone). Che poi l’onestà
intellettuale difetti in molti è un altro discorso. E allora, a quel punto,
possiamo anche inventarci che la presenza degli immigrati crei condizioni di
disagio insopportabili oppure che sia la ragione prima del nostro malessere. Ma
è una balla”.
Ora, è certamente una balla in questi termini. Ma,
purtroppo, la “grandissima parte delle
persone” non è da tempo più nelle condizioni da classe media più o meno
agiata che il nostro amico descrive. E comunque anche lo fosse, e non lo è, le
ragioni del nostro malessere sono che scivola verso condizioni peggiori.
Scivola, qui vorrei ricordare uno per tutti il libro
di Bagnasco, non certo per colpa dell’aumento della concorrenza verso il
basso creato dall’espansione della offerta di lavoro debole; ma neppure senza che questa, su alcuni,
abbia materiale effetto.
Ecco le cause per Fabrizio Marchi: “la precarizzazione del lavoro, l’estrema
difficoltà nel trovarlo, la perdita di ogni potere contrattuale dei lavoratori
sul proprio luogo di lavoro, il carovita, le tasse, la sanità sempre
meno pubblica e sempre più privatizzata, la ‘buona’ scuola che diventa sempre
più ‘cattiva’, il traffico che ci obbliga a trascorrere ore al giorno per
andare e tornare dal lavoro, il degrado ambientale e urbanistico (tanta gente
vive ammassata in alveari inumani), oltre ad una condizione complessiva di
miseria esistenziale, psicologica, culturale e spirituale ancor prima che
materiale”.
Le prime tre le ho messe in corsivo perché sono quelle
più pertinenti alla nostra piccola (davvero piccola, più che altro una
differenza di angolo visuale) divergenza: la
causa è l’indebolimento del lavoro. Di seguito, infatti, viene citata
quella che è la mia principale attenzione:
“La presenza degli extracomunitari, oltre ad essere
utilizzata per tenere basso il costo del lavoro e a fungere da ricatto sui
lavoratori autoctoni (questo invece è un impatto reale, ma non è creato dagli
immigrati bensì dalla struttura intrinsecamente contraddittoria del sistema
capitalista che da sempre ha comunque necessità di un esercito industriale di
riserva…), assolve ad un’altra funzione, quella cioè di costituire una massa di
persone di “serie B” che si trovano al di sotto di noi nella scala sociale. In
questo modo anche il post ex proletario lobotomizzato, “consumistizzato” e
“populistizzato”, privo di ogni coscienza politica e di classe, ridotto a
melassa umana, quella che passa le domeniche nei mega centri commerciali,
bivacca al bar sotto casa o si impasticca il venerdì sera in qualche discoteca
di periferia, può ben dire di avere qualcuno sotto di lui nella gerarchia
sociale. Per la serie: ”Non sono proprio l’ultimo degli ultimi, perché c’è chi
sta ancora un gradino al di sotto del mio”
E’ strano come si possa produrre un’obiezione e
dichiarare quindi un dissenso quando si è del tutto d’accordo, riporto uno
stralcio di uno dei miei post sul tema “Poche note sulla questione dell’immigrazione”,
che aveva carattere in parte programmatico:
Aggrava il problema [posto
dall’immigrazione] la creazione di due distinte ma connesse economie politiche reciprocamente
rovesciate:
- da
una parte i nostri settori produttivi (ma anche la piccola e media borghesia,
con la sua domanda di servizi di cura a basso costo), creano una costante
domanda di “forza lavoro” debole e disciplinata che riadatta verso il basso la
struttura dei costi, e la remunerano a dei livelli che sono bassi rispetto al
contesto locale, ma alti rispetto a quello di provenienza; creando le
condizioni per una trasmissione di surplus che alimenta indirettamente (e forse
anche direttamente) la seconda. Ciò induce quindi nella prima, ovvero in una
economia lontana dal pieno impiego (con buona pace del ‘tasso naturale di
disoccupazione’ inventato da Milton Friedman), effetti di aggiustamento
regressivi, abbassamento degli investimenti, creazione di settori a bassi
salari altamente inefficienti, freno all'innovazione.
- Dall’altra l'economia
politica della emigrazione determina, sulla base di un flusso derivante
dal surplus sopra ricordato (per via di anticipazione o per via di
trasferimento), un’intera catena di agenti con caratteristiche relazioni
economiche e politico-sociali tra di essi. Ovvero la creazione di lunghi
network che si diramano dalle coste nord verso l'Africa profonda, o il medio
oriente, specializzati nell'estrazione di valore dai migranti stessi e
indirettamente dagli Stati di destinazione. Alla fine, questo che può
apparire come un effetto, finisce per divenire esso stesso una delle cause del
fenomeno.
D’altra parte, anche considerando
tutto quanto sopra detto, è necessario non cadere nella vecchia trappola della
divisione tra deboli, essenziale strumento di governo e controllo.
Qui occorre ricordare che la
questione del razzismo stessa può essere compresa come strumento di controllo e
disciplinamento implicito, quindi come tecnica (quella dei capponi di
Renzo) ben nota. E' chiaro quindi che non si può cedere a questo antico gioco
che è stato condotto nei nostri tempi prima con l'unificazione forzata tedesca,
poi con l'allargamento ad Est della UE, quindi con i flussi incoraggiati, tutti
fenomeni che non sono stati condotti solo per questo (anzi, i primi due
essenzialmente per ragioni geopolitiche), ma che sono stati funzionalizzati
alla creazione e conservazione di un settore a bassi salari e grigio, che consentisse
anche ai settori economici meno “commerciabili” ed a produttività bassa di
essere profittevoli, sganciandosi dal potenziale trascinamento verso l'alto
tirato dal settore di esportazione. Questa è, nelle condizioni della
globalizzazione vista da una forza mercantilista, cioè da un esportatore come è
la Germania e per essa vuole essere l'intera Europa sotto la sua egemonia, la
strada per evitare l'inflazione e restare competitiva (in particolare verso di
noi ma che si dice a fare). Sono cose piuttosto trattate nella tradizione del
movimento dei lavoratori (immigrazione irlandese, 1815-45 e anni
seguenti).
Ciò che hanno in comune, e ne fa delle tecniche, è che il confine, più o meno artificiale, tracciato consente allo status di prevalere sulla meccanica di produzione e riproduzione sociale; per cui una persona od un gruppo che è oggettivamente dominata e sfruttata in rapporti sociali altamente ineguali, per la sola presenza di un “altro” ancora più esterno e sfruttato ed “inferiore”, può trarre il conforto e le ragioni per restare leale. E anche contento.
A questo post ha fatto seguito un primo “carotaggio”
su quella che avevo deciso di chiamare “economia
politica dell’emigrazione” (dai paesi di partenza) sul ruolo
del credito; quindi un primo approccio, anche se in parte d’occasione, sulla
simmetrica “economia politica della
immigrazione” (nei paesi di destinazione) in “Tito
Boeri e l’immigrazione: l’assenza di spiazzamento”, nel quale cercavo di
contrastare l’argomento di pura marca neoliberale che il mercato del lavoro
trova sempre per definizione il posto adatto ad ognuno, e dunque nessuna forma
di disoccupazione non volontaria è in effetti possibile. L’argomento di Boeri è
che se anche, come conferma, in alcuni segmenti del mondo del lavoro
(classicamente quelli per i quali la composizione
organica del capitale è meno sbilanciata sulla componente costante, e
dunque la forza lavoro, che è la componente flessibile, è meno specializzata e
formata) si registra sia un gap salariale (-15%) sia una prevalenza dei
lavoratori immigrati non c’è spiazzamento. Ciò perché volontariamente i
lavoratori autoctoni rifiutano questa riduzione di salario, dunque non
competono. Partendo dalla posizione teorica che la disoccupazione non esiste e
non può esistere, in quanto il mercato offre sempre tutti i lavori che servono
al prezzo che risulta giusto in funzione della produttività marginale, è chiaro
che quindi “sono gli italiani che non
fanno più quei lavori [a quei prezzi], più che essere gli immigrati che
spiazzano gli italiani” (Boeri, min. 24). In definitiva i migranti offrono
una quantità di “lavoro” adatta per quantità e qualità alle caratteristiche
della rispettiva domanda.
E bisogna notare che non è solo adatta per il basso salario, conta anche di più (Marchi cita
opportunamente le condizioni di lavoro), il fatto che lo sia per la maggiore disponibilità a sopportare ogni
possibile sopruso, dato che la loro posizione sociale è più debole.
Ci torniamo, e ci torneremo, ma qui cade uno dei punti
politici più rilevanti, il vero punto di discrimine tra politiche adattive
(incluse quelle di mero respingimento) e politiche che vogliano affrontare
veramente il tema.
Quindi avevamo continuato l’excursus tornando sulla
“economia politica dell’immigrazione”, con un post riassuntivo “Scrivendo
a margine dell’immigrazione: persone, forza lavoro, vita” che allargava lo
sguardo nella stessa direzione proposta da Marchi nella sua obiezione dalla
quale siamo partiti: serve un vasto progetto di scala internazionale; connesso
con politiche industriali che rovescino la logica dello sviluppo sfruttando la
lotta tra poveri e costantemente riadattando verso il lavoro povero la
composizione organica del capitale; che faccia uso di opportuna repressione
finanziaria per creare condizioni di scarsità invertite, nelle quali non sia il capitale a potersi spostare liberamente ed
indefinitamente scegliendosi dallo scaffale i lavoratori di volta in volta più
consoni, al minor prezzo, ma il lavoro a trovarsi in condizioni di scarsità
relativa e quindi attivare una dinamica ascendente (maggiore costo del
lavoro, investimenti, aumento della produttività) che possa favorire il
riposizionamento dei sistemi paese su segmenti di valore e ricchezza superiori.
In questa dinamica potrebbe darsi anche il miracolo che nuova forza-lavoro
(che, però, sono anche persone, con la loro cultura) progressivamente sposti
verso l’alto quella esistente, invece di rigettarla nella disoccupazione, la
rabbia e l’intolleranza.
In altre parole, bisogna rimettere in questione le
“quattro libertà” del progetto europeo. Che sono oggettivamente preordinate
alla meccanica, incorporata nella logica del capitale e non necessariamente
voluta o progettata da alcuno, della creazione costante di ‘eserciti di
riserva’ pronti a prendere il posto dei renitenti locali (ovvero di chi
avanzasse l’assurda pretesa di trarre dal suo lavoro quanto basta ad una vita
sicura e dignitosa).
L’incastro delle due “economie politiche” osservate
(in realtà, poi vedremo anche la terza, quella dell’”emigrazione” dai paesi
semiperiferici come i nostri ed i paesi “core”) nella dinamica
“emigrazione/immigrazione/emigrazione” sta devastando il mondo e facendo
saltare ogni possibile patto sociale, si tratta come avevo detto: “di un meccanismo strutturale intrinseco alla
dinamica necessaria del capitale”.
Da ultimo, prima del post su Brancaccio, ero quindi
tornato sulla prima (in senso genetico) “economia politica”, quella della
“emigrazione” dalle periferie, in “Note
circa l’economia politica dell’emigrazione: l’estrazione di risorse”.
Torneremo su questo tema, per dotarci di strumenti analitici più articolati, a
partire dalla lettura sistematica di alcuni libri (a partire da “Lo sviluppo ineguale”, del 1973), di
Samir Amin. Grazie a questa pluridecennale lettura forse saremo nelle
condizioni di capire meglio che il problema dell’Africa ci riguarda su molti
piani diversi; in effetti siamo noi.
Ma non anticipiamo, ho fatto questo breve excursus
solo per dire che, in effetti, con Fabrizio Marchi non siamo così lontani.
Eppure di questo prisma di problemi, lui vede
soprattutto l’oggettivo tentativo di “depistaggio”. In tal senso spende anche
il secondo
intervento per lamentare che lo sforzo dei nostri media spinge ad oscurare
le profonde cause strutturali (che ci riguardano così da vicino), per produrre
solo risposte securitarie. Ritorna anche sul tema dello Jus Soli per chiedersi
come sia possibile che la “sinistra” sia così attenta ai diritti ed alla
libertà di movimento e così chiusa sulle questioni di potere del mondo del
lavoro e distributive. Per questo
motivo, dice:
“La confusione è, dunque, tanta. Il compito arduo che hanno quelli come
noi è cercare di non perdere la bussola (cosa che a mio parere sta accadendo
anche a tanti bravi compagni e amici personali che pure hanno gli strumenti
adeguati per una analisi lucida delle cose, e questo, devo dire mi dispiace…) e
di spiegare faticosamente agli altri quanto sta accadendo e quanto astuto e
perverso nello stesso tempo sia il meccanismo che è stato messo in piedi”.
Non so se il riferimento è anche a me (del resto siamo
amici su Facebook), ma credo che in effetti molto vada spiegato:
-
il tema si
affronta nel medio periodo lavorando sull’intreccio delle tre “economie
politiche”,
-
e si affronta
facendola finita con la coltivazione della dipendenza reciproca, base della dominazione
la cui conseguenza inevitabile è quello che Samin chiama “sviluppo ineguale”.
-
Come avevo scritto
l’Africa è infatti solo un caso limite di un processo di estensione della
dipendenza e del saccheggio delle risorse (finanziarie, fisiche e umane) e
della continua riproduzione, alla scala diversa, del meccanismo gerarchico
“città-campagna” che interessa anche l’Europa stessa (con questa volta
l’Italia, ed i paesi periferici tutti, in posizione di “campagna”) e il mondo
intero (con il conflitto tra le “città” nella definizione delle proprie
“campagne”).
-
Ovvero il tema è
quello della “specializzazione
internazionale ineguale” (Amin, 1973, p.248). Secondo la definizione dello
studioso egiziano “l’economia sottosviluppata è costituita da settori e da
imprese giustapposte, scarsamente integrate tra di loro ma fortemente
integrate, separatamente l’una dall’altra, in complessi il cui centro di
gravità è situato nei centri capitalistici”, in conseguenza “non esiste una
vera nazione nel senso economico del termine, un mercato interno integrato”
(p.253). A nessuno ricorda una certa aria di famiglia?
Nel terzo
intervento che guarderemo Fabrizio Marchi, partendo dal caso dello sgombero
dell’immobile romano, pone sotto accusa la libera circolazione (le quattro
libertà: capitali, merci, servizi, lavoratori) che è il cardine operativo e
strutturale del processo di dissoluzione delle regolazioni democratiche e dei
presidi di forza delle forze sociali storicamente insediate in corso da un
quarantennio. La sua analisi è molto vicina alla mia:
“da una parte il sistema capitalista favorisce e
promuove la libera circolazione dei capitali e delle merci (e quindi anche
degli esseri umani, considerati anch’essi come merci) perché ha necessità di un
esercito di lavoratori permanente e soprattutto di un esercito di lavoratori ‘di
riserva’ permanente, cioè di lavoratori disoccupati o precari che premono su
quelli occupati e che agiscono, loro malgrado, come strumento di ricatto sui
primi. Dall’altra – due piccioni con una fava – il fatto che questo esercito
industriale di riserva sia oggi costituito da lavoratori stranieri, fa sì che
questi ultimi vengano visti come degli ‘invasori’, come gente che viene a ‘togliere’
lavoro agli autoctoni, ad occupare spazi, case e a spartirsi gli avanzi di una
già misera torta di cui non avrebbe diritto (il ‘diritto’ di essere sfruttati a
casa loro, occupati e bombardati, però ce l’hanno, o meglio lo subiscono…)”.
Ma il focus è immediatamente posto sulla meccanica
politica, cioè sullo sfruttamento populista (di
sistema) della dinamica:
“Nel momento in cui è praticamente assente una forza
politica in grado di spiegare questa situazione alle masse autoctone, è
evidente che queste diventano facile preda della propaganda neopopulista di
destra (e non solo) che sta diventando ed è ormai già diventata uno dei mantra
ideologici dell’attuale fase storica. Tutte le principali forze politiche lo
hanno ben compreso, ivi compreso il maggior partito di governo, cioè il PD.
Hanno cioè compreso che quella fra loro che riuscirà a cavalcare con più
sagacia politica la questione dell’immigrazione sarà anche quella maggiormente
premiata dall’elettorato o da una parte dell’elettorato”.
Ed in questa direzione propone una breve tassonomia,
abbiamo:
-
Una “sinistra radical” che non può spiegare
la complessità multiforme della situazione perché è “imbevuta di ideologia
politicamente corretta” (cioè di retorica LGBTQ), apparentemente
rivoluzionaria, ma in sostanza coerente con l’approccio iperliberale dominante,
prona ad una retorica dei “diritti” (rigorosamente individuali e liberali) che
esclude di fatto qualsiasi possibile azione collettiva rivolta a spostare gli
effettivi rapporti di potere su qualsiasi triviale questione, come il denaro, i
rapporti di produzione, il controllo dei relativi mezzi e della tecnologia; si
può leggere questo
intervento di Nancy Fraser che lo chiama “neoliberismo progressista”;
-
Quindi abbiamo “alcuni
gruppi minoritari” che “hanno scelto di cavalcare o intercettare, a loro modo,
il diffuso sentimento popolare contro gli immigrati”.
Il secondo tentativo sarebbe velleitario e perdente
(il primo, se capisco, è l’avversario), nessuna risposta immediata è possibile,
come crede, infatti, Marchi: “l’’emergenza
per eccellenza’ è oggi costituita dalla guerra imperialista preventiva e
permanente in atto su scala planetaria, sia pure con modalità diverse (dalla
Siria al Venezuela, dalla Libia al Donbass, dallo Yemen al Mali, dalla
Palestina alla Grecia e via discorrendo) dalla caduta del muro di Berlino in
avanti e tra le prime cause che generano il fenomeno dell’immigrazione. Una
guerra permanente di cui il sistema capitalista ha necessità così come ha
necessità dell’immigrazione per le ragioni che ho sommariamente spiegato prima.”
L’emergenza è, insomma, il cambiamento strutturale
profondo dell’intero assetto del mondo. Una strana definizione di emergenza (almeno
per me, impregnato di cultura tecnica progettuale).
Da un certo punto
sarei d’accordo. Da un altro, però, dire che i tempi sono molto lunghi
assomiglia a non far niente. Uno dei miei
migliori amici degli anni giovanili era un tale Filippo, persona di grandissima
capacità, carisma e cultura politica e non solo, potevamo stare ore a parlare
di tanti temi e della interpretazione di questo o quel testo. Ma lo chiamavamo,
affettuosamente, “il compagno del ‘sì, ma
però’”. Invariabilmente, quando si proponeva una qualche azione, di
qualsiasi genere, lui ascoltava pensoso, lasciava dire, poi verso la fine si
alzava (tutti lo aspettavamo curiosi) e iniziava dichiarandosi in pieno accordo:
… “però”, “compagni, la questione è un’altra… bisogna ricordare il quadro
generale, la connessione delle cose e la meccanica internazionale entro la
quale questa vicenda si iscrive, …”
Normalmente dopo un’oretta si decideva di non far
nulla.
Filippo era il mio miglior amico, e ancora è mio
amico, ed io ero quasi sempre d’accordo con lui. Spesso aveva in pieno ragione
e non era opportuno agire in quella direzione.
Ma qualche volta oltre il quadro, oltre il cambiamento
strutturale profondo dell’intero assetto del mondo bisogna anche partire da
qualcosa di piccolo: qualche volta aveva torto.
Varrebbe, ad esempio, partire dal fare i conti con la
“sinistra radical”, in realtà liberale, che considera la globalizzazione come
ineluttabile e progressiva, e che vede con orrore qualsiasi forma di ostacolo
alle libertà di tutti, anche quando la libertà ne impedisce altre, e anche
quando esse sono usate per ribadire la struttura di potere del mondo.
Dunque direi a Fabrizio che siamo d’accordo. Ma che,
contemporaneamente, non lo siamo.
Non si deve fare proprio nessuna guerra, né agli
‘ultimi’ né ai ‘penultimi’ (ai quali oggettivamente gli ‘ultimi’ creano
problemi), che mi spiace dire sono molti. Bisogna fare tutti i lavori pazienti
necessari, spiegare bene (ed in primis capire) i nessi tra le cose, cercare le
cause e non lasciarsi prendere dalla vecchia trappola (invero antica) della
deviazione del rancore.
L’emigrazione dai paesi periferici (e semiperiferici
come il nostro) e l’immigrazione dei paesi collocati in posizione più centrale
nel sistema di produzione, ovvero in quella che l’ultimo Amin chiama “catena del valore mondializzato”,
secondo la gerarchia di dominazione, è uno dei principali meccanismi imperiali,
ed è intrinseco profondamente alla meccanica automatica del capitalismo. La fase
finanziaria contemporanea lo ha solo meglio travestito, ma non ne ha affatto
mutato la natura.
Ma questa dinamica non è affatto “in realtà in corso da secoli”, guardarla in questo modo significa
vedere tutte le vacche grigie. La dinamica è propria del capitalismo, quella che
vigeva nei modi di produzione precedenti era del tutto diversa. E nel capitalismo
ha attraversato fasi molto diverse, di estensione e ritirata, a volte repentine
(basta leggere
il classico capolavoro di Polanyi, o gli studi di Arrighi,
che pure vedeva una tendenza all’allargamento su cui ho riserve), e quindi non è
affatto “alla sua fase apicale”. Potrebbe essere invece al suo punto di flesso.
Del resto nelle condizioni di forza attuali, se si va verso
l’impero (ovvero verso una maggiore integrazione, che è sempre strutturalmente ineguale,
ed è sempre necessariamente dominazione), si va nella direzione del tutto opposta
a quella desiderata dal nostro.
Dunque forse non siamo d’accordo.
Io vorrei insistere.
PS: le foto sono tratte dall’album “Eye
of the beholder” di Gabriele Pasutto.
Nessun commento:
Posta un commento