E’
in corso una larga, ed aspra, discussione di fronte al fenomeno del costante
flusso di persone in movimento che si affollano lungo i paesi limitrofi le
nostre frontiere, in parte per cercare di dare risposta alla loro disperazione
in Italia, in parte solo perché il nostro paese è una delle più importanti
porte di accesso agli altri paesi europei dove in questo momento il mercato del
lavoro è più ricettivo. Accordi di natura egoistica, ovvero tipici dell’attuale
fase, hanno lasciato in buona sostanza tutto l’onere sulle nostre spalle. E
noi, di fatto, l’abbiamo scaricato più di recente su quelle di chiunque volesse
organizzarsi in nostra surroga. Alcuni di questi sono meravigliose persone ed
organizzazioni, altre lo sono meno, altre per niente, ma il problema non sono
certo le Ong: il problema siamo noi.
In
tre occasioni, di recente, sono tornato su questo tema: in “Poche
note sulla questione dell’immigrazione: la svalutazione dell’uomo”
reagivo al cambio di linea grazie alla quale il Segretario del PD,
improvvidamente e senza adeguata preparazione, secondo una collaudata tecnica
che si potrebbe definire ‘populismo dall’alto’,
ha rigettato il “dovere morale di accogliere” sostituendolo con un vaghissimo “aiutarli
a casa loro”. L’assoluta mancanza di analisi del fenomeno, delle sue cause e
delle sue condizioni di esistenza, produce qui il mostro di un accarezzare di
fatto il sentimento reattivo della parte più debole, quindi più esposta agli
effetti di un’accresciuta competizione, senza fornire un racconto razionale
capace di definire un percorso di speranza, un progetto. Questi flussi ci sono
sempre stati, crescono e diminuiscono in funzione di eventi diversi, anche
occasionali, ma non sono veramente spontanei, richiedono organizzazione,
tecnostrutture, diffusione e controllo delle informazioni, quanto più
completamente quanto più sparpagliati e destrutturati sono i luoghi da
raggiungere.
Qualunque
progetto si volesse proporre all’altezza di questa tragedia andrebbe inserito
in primo luogo in un disegno di società (non meramente “multietnica”, come si
dice abdicando al dovere di anticipare le conseguenze), e nei funzionamenti
economici in grado di consentire l’inserimento in piena compatibilità e
vantaggio reciproco. Questo progetto dovrebbe essere:
-
di
scala internazionale almeno europea;
-
connesso
con indispensabili massive politiche industriali
e di trasferimento tecnologico e di know how senza il quale la logica spontanea
del mercato produce solo adattivamente il massimo sfruttamento attraverso la
lotta dei deboli con i più deboli; detto in altre parole, bisognerebbe farla
finita con l’austerità, ed investire molti punti di Pil, per molti anni, per
ritornare vicino alla piena occupazione, perché solo un paese in piena
occupazione, come dice
opportunamente Stiglitz, e con un mercato del lavoro sano, può accogliere nuovi
lavoratori senza che si tramuti in una guerra tra poveri;
-
rivolto
quindi, anche con l’opportuna regolazione e sorveglianza, a creare quelle che
avevo chiamato “condizioni di scarsità invertite”,
nelle quali non sia il capitale a potersi spostare liberamente ed
indefinitivamente scegliendosi dallo scaffale i lavoratori di volta in volta
più consoni, al minor prezzo, ma il lavoro a trovarsi in condizioni di scarsità
relativa e quindi attivare una dinamica ascendente (maggiore costo del lavoro,
investimenti, aumento della produttività) che possa favorire il
riposizionamento dei sistemi paese su segmenti di valore e ricchezza superiori.
In questa dinamica potrebbe darsi anche il miracolo che nuova forza-lavoro
(che, però, sono anche persone, con la loro cultura) progressivamente sposti
verso l’alto quella esistente, invece di rigettarla nella disoccupazione, la
rabbia e l’intolleranza.
Vasto programma, mi si dirà.
E certamente lo è, ma senza questo programma (che, dovrebbe essere chiaro,
implica prima di tutto la messa in discussione delle “quattro libertà” del
progetto europeo per come è oggi), resta solo la meccanica, incorporata nella
logica del capitale e non necessariamente voluta o progettata da alcuno, della
creazione costante di “eserciti di riserva” pronti a prendere il posto dei
renitenti locali (ovvero di chi avanzasse l’assurda pretesa di trarre dal suo
lavoro quanto basta ad una vita sicura e dignitosa). Senza questo programma
bisogna essere sensibili al dolore, ovunque si manifesta, senza dare patenti di
civiltà dal sicuro di case confortevoli.
Non
si può, io credo, guardare a questo fenomeno se non in questa ampiezza. Noi,
insieme, dobbiamo riprendere nelle nostre mani il diritto, ed il dovere, di
garantire un equilibrio che non sia trovato a spese della sistematica
svalutazione delle vite e del lavoro.
In
quel post avevo parlato di due “economie politiche”, distinte e reciprocamente
rovesciate. Anche se sono in verità più di due, quel che si deve capire è che
da una parte c’è una domanda di lavoro agile ed economico espressa dai nostri
settori produttivi (in particolare da quelli sottocapitalizzati ed a tecnologia
povera ed obsoleta) e dai primi strati della nostra stessa società, anzi c’è
più precisamente una domanda di costante adattamento verso il basso della
struttura dei costi per il quale è necessaria una continua espulsione e
sostituzione. Questa economia politica vive di aggiustamenti regressivi
continui, creando abbondanza della componente lavoro a basso costo riduce la
sua necessità di capitale e investimenti, salvaguardando egualmente i profitti
che possono utilmente essere attratti dai mercati esteri dei capitali. Il freno
all’innovazione, la riduzione della produttività, il costante drenaggio dei
capitali verso l’alta finanza, in particolare tedesca e anglosassone sono qui
immagini dello stesso compromesso.
Ma
questo compromesso trasmette comunque un surplus, ovvero flussi di remunerazione,
che sono modesti rispetto al quadro del tenore di vita cui siamo abituati, ma
cospicui, se visti con lo sguardo di altre culture e civiltà. Allora l’economia politica della immigrazione
crea, essa stessa e non altre, l’economia
politica dell’emigrazione. Il trasferimento del surplus, o la sua attesa
(intervenendo in questo caso forme di credito, come abbiamo visto in “Note
circa l’economia politica dell’emigrazione: la questione del credito”),
alimenta una ininterrotta catena di agenti che si diramano capillarmente per l’intera
Africa e per buona parte del resto del mondo, per approvvigionare la prima.
Cioè,
molto semplicemente, per sfruttare una domanda.
L’incastro
di queste due “economie politiche” sta devastando il mondo e sta facendo saltare
ogni possibile patto sociale, e non per ragioni accidentali: si tratta di un meccanismo strutturale
intrinseco alla dinamica necessaria del capitale.
Come
mostra Stigliz nella “Postfazione”
al suo ultimo libro sull’Euro da “un punto di vista strettamente economico” la
cosa è, infatti, molto chiara e semplice: “con curve discendenti della
domanda (il caso abituale), un incremento dell’offerta porta normalmente a un
prezzo di equilibrio più basso. Sui mercati del lavoro questo significa che un
afflusso di lavoratori dequalificati porta
a una diminuzione dei salari. E quando i salari non possono scendere oltre,
o non vengono diminuiti, ne consegue una maggiore disoccupazione” (p.347).
Invece
Tito Boeri, con molti e capziosi argomenti ha provato a non essere in accordo
con i teoremi fondamentali della sua disciplina, sostenendo contro ogni
evidenza che non ci sia spiazzamento dei lavoratori (appoggiandosi su un solo
studio di caso e molto particolare), ma come abbiamo visto in “Tito
Boeri e l’immigrazione: l’assenza di spiazzamento”, lo ha fatto
vanamente.
Il
problema è dunque molto più grave, ed è giustamente carico di emozione, dato
che, con l’evidenza dei suoi insopportabili costi umani, interroga
profondamente l’intera nostra civiltà. Non si può risolvere né alzando muri
armati mentre si continua a sovvenzionare la nostra agricoltura e si impedisce
alla parte del mondo, che di questo vive, di proteggere la sua (come più volte
lo stesso Stiglitz ha denunciato), oppure mentre gli si impedisce di proteggere
la propria industria di trasformazione e li si inonda di prodotti industriali a
basso prezzo, spesso prodotti con coloro che gli vengono rubati, una persona
alla volta, e trasformati in manodopera semischiavizzata, sia in occidente sia
nelle sue filiali in franchising. Oppure mentre si pagano fazioni ed eserciti
per continuare a fare l'antico lavoro di garantirsi le materie prime.
Ma
non si può risolvere neppure aggiungendo al torto sanguinante di sfruttare il mondo, quello di lasciare alle persone sole ed inermi la libertà di venire a
fare i servi da noi. Ovvero aggiungendo
allo sfruttamento a casa loro lo sfruttamento a casa nostra.
Noi
abbiamo, certo, solo una casa, ed è questo piccolo pianeta che stiamo
seviziando, ma la soluzione non può essere quella proposta dal liberalismo e
imposta dal potere del denaro nelle mani di pochissimi: garantirsi che tutti
siano soli a cavarsela nella vita combattendo gli uni con gli altri.
Di
fronte a tutto ciò bisogna allora io credo mantenere la calma, guardare a tutti
gli aspetti e lavorare a prevenire la formazione di dinamiche sociali,
economiche e politiche che altrimenti ci travolgeranno. Dunque bisogna controllare
il fenomeno operando, su tutti i suoi lati, per riportarlo ad una dimensione di
flusso sostenibile, senza alterare verso il basso il nostro debolissimo mercato
del lavoro, dando il tempo di integrare un numero generoso ma ragionevole di
persone, senza creare ghetti e slums, e dandoci il tempo di capirci ed anche di
apprezzarci vicendevolmente. Perché se si lascia che la conseguenza dello
sfruttamento del mondo, condotto dal sistema delle multinazionali, ma anche da
molti Stati in prima persona (e non solo occidentali, la prima filiale in
franchising a cui penso è la Cina), sia solo lo sradicamento delle persone per
farle diventare forza lavoro docile e a basso prezzo ovunque il capitale
concentra la sua capacità produttiva (la stessa cosa avviene anche nel resto
del mondo, basta guardare Dubai e Singapore, ma lì la schiavitù è palese, non mascherata),
avremo il mondo che ci saremo meritati. Perché
guardando il dito non avremo visto la luna.
Cioè
non avremo visto che se siamo sull’orlo del baratro è perché ci siamo arresi,
considerandola inevitabile, all'accelerazione verso una società dell'ipersfruttamento
che questa apertura (merci, capitali e forza lavoro sono tutte forme del
capitale come insegna
Marx) a danno dei patti sociali di tutte le parti coinvolte produce
inevitabilmente. Il respingimento alle frontiere e dentro le nostre città è, in
altre parole, solo l'altra faccia del selvaggio sfruttamento che il nostro
capitale (ovvero la logica stessa della valorizzazione) produce verso tutte le
persone ridotte a forza-lavoro; ovvero ridotte ad astrazione.
Se
non vogliamo questo dobbiamo continuare a chiedere regolazione.
Possiamo avere regolazione o avremo ancora più violenza.
Bisogna infatti considerare che la struttura del problema è intrisa di violenza
in tutti i suoi lati: le persone accettano di farsi forza lavoro perché vivono
condizioni che reputano insopportabili (qui ci sarebbe da guardare); vengono
messe in contatto con autentiche e ramificate imprese, ovvero organizzazioni
finalizzate al trasporto della forza lavoro e pagate da questa (qui ci sono
anche inserimenti di finanza ben documentati); queste organizzazioni operano
violando la legge dei paesi di destinazione, mettendoli di fronte al ricatto
tra il danno alle persone o la loro accettazione; i paesi di destinazione
gestiscono ipocritamente le persone, cercando in sostanza di trasformarle
quanto prima in utili oggetti, che riducano il prezzo degli omologhi oggetti
locali.
Chi
mette tutto questo tragico intreccio solo
dal lato “salvare le persone”, pur
generosamente, dimentica che tutto ciò assomiglia al dilemma classico dei
rapimenti: salvo il singolo rapito, pagando il riscatto e creando con ciò le
condizioni strutturali di far crescere l'impresa dei rapimenti, in modo da
averne con certezza tre domani, e nove dopodomani, ventisette tra tre giorni e
via dicendo? Oppure resisto, freno, cerco di arrestare i rapitori? Alla fine
quale è la strada che riduce il danno? E' sempre stato un dilemma
difficilissimo, ogni famiglia vuole la prima soluzione, sempre, lo Stato esiste
per prendere le decisioni difficili (che in questo caso non devono significare
far morire una sola persona, ma rendere sempre più difficile e costoso
importarle in modo illegale e creare dei canali legali appropriati).
Ma
di Stato, in effetti, dopo un quarantennio di cura neoliberale ne abbiamo poco.
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