A fine settembre uno dei principali dirigenti di
Podemos, Manolo Monereo, dopo aver parlato del tema dell’alleanza tra Unidos Podemos e i socialisti del PSOE
(che potrebbe tornare di attualità in relazione all’avvitamento della crisi),
si sofferma sulla questione catalana, che era già presente con forza al momento
della formazione del movimento. Nell’intervista
ricorda che al momento del 15M (Movimiento
degli indignados, nel 2011) le forze di destra in Catalogna reagirono “con
una fuga verso l’indipendentismo”. Quel che chiama il “pujolismo” (l’unione di
settori della alta e piccola borghesia e di componenti della chiesa che cercano
di mobilitare più ampi settori intorno al tema della ‘nazione catalana’) si
sarebbe costituito, insomma, con l’espresso progetto di trasformare i disordini
sociali, che ponevano la questione della ineguaglianza, in disordini nazionali.
La formazione di Unidos
Podemos nasce in questo contesto, preso tra la forbice del PP e degli
opposti nazionalismi spagnolo e catalano. E tenta di “giocare dialetticamente
con due elementi che erano strettamente correlati: la difesa dei diritti nazionali
e la questione sociale come elemento fondamentale”.
In altre parole il tentativo era di connettere le
rivendicazioni di maggiore autonomia dal nazionalismo spagnolo con la questione
sociale, ovvero, come dice “la questione di classe”. Secondo il suo punto, viceversa,
porre solo il tema della questione nazionale, in chiave interclassista, è
deviante e distraente rispetto alla questione sociale, cioè ai diritti sociali,
alle politiche dei tagli, del lavoro, della industrializzazione, della “legge
della dipendenza”, etc. Invece, secondo l’esponente di Podemos, questa è stata di
fatto usata, e in modo organizzato, per spegnere le rivendicazioni di maggiore
giustizia, di eguaglianza che venivano dalla grande parte delle classi
lavoratrici.
Fino a che questa agenda sociale, che tiene insieme il
bisogno di autonomia e autodeterminazione, con quello di giustizia, è stata
imposta Unidos Podemos ha ottenuto successi, in Catalogna in particolare, ma
quando invece l’egemonia del discorso pubblico si è spostata sul tema del
“freddo nazionalismo” allora i consensi sono declinati. Il movimento, cioè, non
è più riuscito ad articolare la proposta di un “processo costituente” in grado
di trasformare lo Stato Spagnolo in Stato
federale, e non solo in Catalogna, ma anche in Andalusia, Estremandura,
Galizia, ovvero ovunque.
Il progetto, in altre parole, prevede una “federazione
di Stati e di popoli”, complessa ma annodata sia dal riconoscimento di diritti
nazionali sia di diritti sociali e capace di porre fine allo strapotere della
“trama” (del potere economico). Questo progetto non è indipendentista, e passa necessariamente
per un processo costituzionale democratico nel quale siano bilanciati interessi
ed identità (non solo nazionali, ma anche sociali).
Puntando sulla mobilitazione delle forze popolari e
della democrazia (rispettandone, dunque, la proceduralità) il progetto di
Podemos si differenzierebbe quindi da quello indipendentista per il focus e per
l’esito, come dice Monereo: “nel nuovo
Stato federale, nella Repubblica Federale Spagnola, vogliamo che comandino i
lavoratori, i settori popolari, noi abbiamo una visione di classe”. Dunque
il discorso che non è stato portato avanti (a partire dalla questione della
monarchia), prevedeva “una Spagna federale in un’Europa confederale”.
Questo discorso ha
evidentemente perso. Lo stesso
Podemos si è piegato all’egemonia del discorso nazionalista che rischia di
spaccare il paese. Monereo sottolinea come l’eventuale (ma improbabile)
formazione di una Repubblica Indipendente
di Catalogna determinerebbe l’immediata formazione di una corposa minoranza
spagnola (circa il 40% della popolazione totale) che avrà immediate
rivendicazioni. Il processo solleva i fantasmi della crisi jugoslava (che era
anche essa, lo ricordo, “nel cuore d’Europa”).
Forse non accadrà, ma di certo questo asse “spagnolo-catalano”
ormai imposto in modo assolutamente dominante “sovradetermina” l’asse
“classe-nazione”, che liquida di fatto la sinistra sia in Catalogna sia in
Spagna. Ovvero liquida i suoi temi.
Ora, nella parte più densa della sua intervista
l’esponente di Podemos ricorda che i cosiddetti “diritti nazionali” sono un
costrutto sociale che si maneggia e manipola politicamente. Anche se la
Catalogna ha molti elementi per essere considerata una “nazione”, ed è anche
abbastanza consapevole di esserlo (dopo lo spettacolo del referendum, lo è di
più), ma ciò non significa necessariamente diventare uno Stato indipendente.
Porre la questione solo in questi termini significa infatti dimenticare che non
tutti hanno gli stessi interessi e significa imporre una divisione orizzontale,
spaziale, dove ci sono invece differenze verticali (tra strati di classe e
relativi interessi).
Né è inevitabile la coincidenza, anche se si è una
nazione si può non avere uno Stato. Si possono infatti avere, e di fatto gli
esempi sono innumerevoli, Stati plurinazionali, ed anche, talvolta, nazioni in
più Stati (normalmente per ragioni esterne).
Nel recente
referendum, in un clima molto violento, hanno ad esempio votato 2,2 milioni
di persone su 5,3 milioni di elettori (più o meno il 40% degli aventi diritto)
e lo hanno fatto al 90% per la secessione alla quale dovrebbe seguire nei
prossimi giorni una dichiarazione unilaterale di indipendenza del Parlamento
Catalano.
Ora, questo atto
è chiaramente illegittimo sul piano della legalità spagnola, ovvero
dell’unica esistente. Ed è un atto che in uno Stato che da cinquecento anni è
chiaramente plurinazionale andrebbe condiviso in modo molto più ampio, dovrebbe
essere, appunto parte di un nuovo progetto costituente di tipo federale (o di
una dissoluzione confederale condivisa). La trattativa dovrebbe coinvolgere
anche le altre parti della famiglia spagnola, e gli altri temi.
La domanda che pome lo “spagnolo plurinazionale”
Monereo è quindi semplice: “spagnolo,
catalano, basco, vuoi che la Spagna avii un processo costituente per diventare
uno stato federale?” E quindi, “come
vuoi articolare la tassazione? Come i trasferimenti? Come l’equità sociale?”,
come gli abitanti della Extremandura devono essere trattati?
Ovvero, quale è il progetto di paese? E come si
inserisce nel contesto europeo?
Sono tutte domande difficili, e sostanzialmente eluse.
La conseguenza è che mentre tutti i politici si
affrettano a gettare benzina sul fuoco (a partire dal discorso
del Presidente catalano Carles Puigdemont che proclama lo Stato Indipendente e
chiede aiuto all’Unione Europea per ottenerne il riconoscimento), la legalità
formale è completamente stracciata da ogni parte. La legge del referendum è
stata promulgata in modo illegale dal Parlamento Catalano (senza i pareri
preventivi necessari e senza le maggioranze previste) e dichiarata incostituzionale
dalla Corte di Madrid. Il voto si è tenuto in condizioni altamente illegali,
con seggi ritirati, violenze della polizia, voti incontrollati e incertezze di
ogni genere.
Ma l’illegalità non
è un problema che la democrazia possa sottovalutare, senza il rispetto delle
procedure (ed anche la loro modifica in base ad un processo ordinato) resta solo
la forza. Senza l’autorità resta la violenza, il puro fatto.
E resta anche l’egoismo di chi, avendo la metà del Pil
della Spagna, reputa utile dividersi dai poveri per non dover condividere con loro
(unilateralmente).
Se quindi mercoledì il Parlamento Catalano dovesse scegliere la linea dura le conseguenze
sarebbero imprevedibili: la Spagna potrebbe reagire revocando l’autonomia e
mandando commissari, potrebbe anche mandare l’esercito in caso di disordini;
l’Unione Europea non potrebbe accogliere il nuovo Stato in cerca di
riconoscimento (la Spagna porrebbe un ovvio veto, ma anche altri paesi
potrebbero temere le conseguenze: in Italia,
in Sicilia, in Sardegna ed in Lombardia, o nel sud Tirolo; in Francia in Corsica, negli Occitani, o
Bretoni; in Belgio; in Germania; in Inghilterra, l’Irlanda e la Scozia).
Insomma, potrebbe essersi
aperto il Vaso di Pandora.
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