Rileggendo le repliche di Roberto Buffagni al mio
testo su “Lo
scontro tra le diverse Europe”, che a sua volta era una replica al suo “Due
appelli, due Europe” mi pare il punto dirimente sia il concetto adoperato di
“uguaglianza”. Si tratta, a tutta
evidenza, di un concetto-monstre; all’avvio della voce “Uguaglianza” della
vecchia e insostituibile Enciclopedia Einaudi (14, pp. 515 e seg) si legge che “il
concetto di uguaglianza ha un’estensione tanto vasta che si può affermare nei
suoi confronti ciò che Hegel diceva di Dio, che preso di per sé è ‘un suono
privo di senso, un mero nome’”.
Tuttavia la sua replica ci precipita in tale
estensione; dunque tocca parlarne.
Nella prima
parte della replica si afferma con un’utile schematizzazione idealtipica
che il “progressismo”, individuato come nemico da Buffagni, sia caratterizzato
da: “universalismo politico”, “relativismo spirituale”, “egualitarismo
omologante”, “individualismo astratto”, e probabilmente soprattutto “telos e senso della storia identificati
con la distruzione creatrice capitalistica e il progresso che meccanicamente ne
consegue, in vista dell’obiettivo strategico/utopico del governo mondiale”, in
conseguenza “scientismo”. Al contrario il “conservatorismo” sarebbe
caratterizzato da “endiadi di universalismo spirituale e relativismo politico”,
“primato ontologico della comunità sull’individuo e della gerarchia
sull’eguaglianza tanto nella personalità dell’uomo quanto nella strutturazione
della società”, “telos e senso della storia identificati con la trasmissione
dell’eredità del passato e la perenne ricerca - sempre contrastata e sempre
rinnovata, mai conclusiva - dell’ordine, in vista del bene comune”.
Questa opposizione rappresenterebbe la frattura lungo
la quale tendono a ricomporsi i campi politici. E nel ricomporsi riavviano le
guerre di religione, nel senso di guerre per il senso più profondo dell’essere
uomo. Si arriva a porre i due opposti manifesti (questo
e questo)
come momento di manifestazione di un piano di conflitto profondo come lo furono
le 95 tesi luterane (a posteriori).
Su questa valutazione, che solo i posteri potranno
confermare, viene la prima sfida intellettuale che il testo pone: la ‘sinistra’
si dividerà a suo parere lungo la linea di faglia, e precisamente tra umanismo
e quello che chiama ‘post-strutturalismo’. Il punto di differenza sarebbe nell’attribuzione
di qualche sostanza naturale all’uomo ed al suo bene. Il cosiddetto
post-strutturalismo (termine nel quale, come noto, si addensano le ampie
tradizioni culturali, in particolare filosofiche), oltrepassa, appunto, lo
strutturalismo marxista ed il materialismo, che include necessariamente una
valutazione del bene e dell’uomo come dotato di propria natura, seguendo una
critica radicale della ‘ragione’. Questa prende in effetti molte e diverse facce
(nel mondo francofono, passando per una rilettura di Nietsche e Heidegger, sfocia
nella genealogia foucaultiana o nella ‘decostruzione’ derridiana; in quello
anglofono nella rilettura della tradizione pragmatista ed in autori come Rorty;
in quello italiano nel cosiddetto ‘pensiero debole’ di Vattimo e poi nel
pensiero delle moltitudini di Negri). La spaccatura si aprirebbe dunque tra
post-marxisti, legati a qualche tipo di umanesimo, e post-metafisici che
cercano di farne a meno.
È piuttosto difficile alzare barriere così nette, ad
esempio nella seconda famiglia sono molto più frequenti riletture di autori
sicuramente riconducibili alla “cultura politica del conservatorismo”, come
Heidegger e Nietzsche, e sono in opera tentativi di sintesi come quello di
Habermas e delle ultime generazione francofortesi (che, però, in qualche modo
tornano verso Hegel).
Se comunque la questione dirimente fosse l’ancoraggio
ad un concetto di natura umana “fondato religiosamente e/o metafisicamente”
(ancorato alle tradizioni culturali greco-romana e cristiana) e dunque ancorato
ad un’affermazione assoluta e universale della verità, saremmo in presenza di
una frattura che grosso modo può essere fatta risalire al trauma della ‘guerra
civile europea’ della prima metà del novecento. Ma tutte le tradizioni
culturali che dal trauma traggono una sorta di cultura del sospetto (tutti i
citati, sia pure in modo enormemente differenziato) faticano ad essere
raggruppate dalla stessa parte secondo gli assi conservatore/progressista o
destra/sinistra. Per fare un esempio è l’opposto di un progressista Heidegger,
ma certamente sospetta la metafisica occidentale (alla quale riconduce
certamente lo scientismo e il mito del progresso prometeico) e con essa l’identificazione
di essenze. È per lui la domanda sull’essere che tiene in movimento la natura
umana, caratterizzata dall’esserci e
dall’essere per la morte, e che abita nel linguaggio (nella radura aperta da
esso). Questa mossa è interpretata da autori come Rorty, in uno con la
tradizione pragmatista alla quale è legato, come parte di un “linguistic turn”
complesso da incasellare nelle categorie indicate.
Ma in fondo credo che il discorso non sia su questo
piano, la questione centrale focalizzata è tra un universalismo che si traduce
in imperialismo (non alieno anche alle tradizioni antiche) e un universalismo
fondato su una distinzione tra “le due città”, agostiniano. Qui la critica alla
rivoluzione francese, con la sua pretesa tutta moderna di creare in terra la
perfezione tocca il tema della “uguaglianza”, che sarebbe in realtà “solo
virtuale o potenziale”.
Nel secondo
intervento ecco che la critica prende corpo: secondo Buffagni se si cerca
di attuare l’eguaglianza si passa inevitabilmente il segno, precipitando nel
suo opposto (il concetto utilizzato è ‘enantiodromia’,
che Jung riconduce al dominio di una direttiva unilaterale che produce una
inconscia direzione d’azione opposta). Qui in particolare è discussa la critica
che avevo avanzato al capoverso della “Dichiarazione di Parigi” nella quale
veniva sconfessato “l’egualitarismo esagerato” e la connessione di una “democrazia
sana” alle “gerarchie sociali e culturali”, capaci di articolarsi su
perseguimento di “eccellenza” ed attribuzione di “onore”. Ovvero la “restaurazione” di un senso socialmente condiviso
della grandezza “spirituale” (questa sottolineatura è naturalmente importante),
degna di onore al di là della “mera ricchezza”. La frase che più di ogni altra
mi ha mosso è, però, la seguente: “la cultura della dignità sgorga dal decoro e
dall’adempimento dei doveri che competono
al nostro stato sociale”. Frase che è soprattutto chiarita, nel suo senso,
dal suo seguito: “dobbiamo ricuperare il rispetto tra le classi sociali che caratterizza una società che dà valore a
tutti”.
Confermo che qui c’è una divergenza di sensibilità. Citai
appositamente un autore denso, culturalmente avveduto, e molto consapevole
della linea di frattura prima evocata, come il filosofo francese di destra
(estrema) Alain De
Benoist, perché leggendolo questa divergenza mi è sempre saltata all’occhio.
Non è facile coglierlo in fallo, per così dire, ma nell’insieme per me passa il
segno.
Non si tratta però neppure di disconoscere un semplice
fatto, come quello che le classi ed i ceti sono regolarità storiche, perché sarebbe
ovviamente atto ridicolo. Né si tratta di immaginare un mondo dell’eden, in
terra, nel quale la diseguaglianza sociale (ovvero, appunto, le differenze
creanti organizzazione sociale) sia eliminata.
Se si tentasse questa via (che è sfiorata in alcuni
passi più politici anche di Marx, dunque di un autore “umanista” nella
classificazione sopra fatta) certamente gli effetti sarebbero ‘enantiodromici’.
E tale fu, più o meno, la critica della componente di sinistra (ma anche di
quella di destra) della scuola post-strutturalista. Per chi volesse
sincerarsene potrebbe rileggere il breve passo in cui Jacques Derrida, in “Spettri di Marx” afferma che non si può
capire la decostruzione senza far mente al clima nei primi anni sessanta e
tardi cinquanta di critica del sovietismo (seguita alle invasioni nell’Est
europeo).
Come anche per altre grandi mosse della modernità (in
particolare ottocentesche) quando ci si attarda con questa idea si sta
trasponendo, senza avvedersene, strutture logiche e orientamenti affettivi
delle escatologie cristiane. Lo fa il liberalismo, quando estremizza il proprio
proceduralismo, lo fa il socialismo, quando immagina la ‘città celeste’ nella
classe. Si tratta, indubbiamente, di teologie, anche se ‘civili’ (ovvero
travestite).
E dunque in quella traccia cadono tutte le obiezioni
di Buffagni; le condivido.
Posso anche capire il modo in cui usa il termine “ethos
aristocratico” in questa frase: “la
democrazia in quanto tale non basta affatto a garantire una saggia conduzione della
cosa pubblica, e che una democrazia dà migliori risultati quando la guidi una
classe dirigente coesa da un ethos aristocratico”, presumibilmente nella
stessa direzione in cui Durkheim ricercava una ‘morale civica’ che sia in grado
di creare un sentimento motivante alla reciproca considerazione ed all’agire
comune. Un sentimento (si può leggere “la
Fisica dei costumi”, del 1896) che consenta di anteporre alle loro
preferenze e convinzioni il bene della comunità democratica, impegnandosi per
lo sviluppo comune. Dato che le cittadine ed i cittadini possono essere
disposti a tale passo solo se giudicano desiderabili, e degni di essere difesi,
i corsi di azione comuni, è necessario quindi, scrive Durkheim, una qualche
misura di “patriottismo”.
Dunque, come scrive Buffagni: “che sia capace, ad esempio, di compromesso politico, di tacito accordo
in merito all’interesse nazionale, di condividere stile e cultura al di sopra
delle inimicizie politiche”.
Direi che su questo piano si incontrano molte acque, l’ultimo
Habermas, ad esempio (erede di alcune tradizioni “del sospetto”, ma anche “progressista”)
si chiede nelle sue ultime riflessioni sulla religione (ad esempio “Verbalizzare
il sacro”) se la trascendenza dall’interno, attivata dal linguaggio non sia
circondata da distese, per così dire, “illuminabili ma non penetrabili”
(scrive Leonardo Ceppa in un bel saggio su questo pensiero, “Habermas, le radici religiose del moderno”,
che leggeremo insieme) con i semplici strumenti del pensiero proposizionale. Il
disincantamento scientifico del mondo ed il lavoro di messa tra parentesi delle
differenze compiuta dal diritto democratico non basta, ci sono fonti di
solidarietà che non possono essere aggirate (qui torna anche il concetto di
anomia durkmehiano). Dunque, in vece della promessa escatologica che si
critica, per essa dell’idea liberale che l’ordine possa generarsi dall’aggregazione
cieca delle libertà solo private, e la legittimità dalla mera legalità, è
necessario riconoscere il surplus di ‘devozione repubblicana’.
È necessario dunque il ‘patriottismo’ di Durkheim e il
patto politico. Come scrive Ceppa, “non è
pensabile nessuna ‘repubblica dei diavoli’” (ivi, p.110).
Ma la ricerca dell’eguaglianza politica (e delle sue condizioni di possibilità materiali) è un cantiere sempre aperto,
e che deve restare tale.
Ma forse conviene tornare un attimo sulla questione
posta, dal Manifesto di Parigi, dell’uguaglianza
dei moderni come invenzione della rivoluzione. Sieyès dirà in “Che cos’è il Terzo Stato”, nel gennaio
1789 che “il privilegiato si considera insieme ai suoi colleghi come
appartenente a un ordine a parte, una nazione scelta all’interno della nazione”,
questi “arrivano a vedersi come un’altra specie di uomini”. La democrazia è,
alla fine, dunque semplicemente questo: una
società di simili (Tocqueville).
Viceversa la mentalità aristocratica, consolidata in particolare nel
sedicesimo secolo, verso la quale è mobilitata l’energia
rivoluzionaria, vedeva stirpe, estrazione sociale, un insieme di qualità sociali
ereditarie proprie, caratterizzare alcuni come preordinati, e per questo adatti, a
dirigere la società tutta. Altri, viceversa, a stare “nei loro doveri” (per usare la
formula di una supplica al re di Francia fatta appunto dai rappresentanti dei
nobili in occasione degli Stati Generali del 1614). Le diversità di status, che
fondavano una gerarchia naturale, erano quindi radicate da diversità intrinseche di
per sé evidenti. Come la mette Rosanvallon “essi pensavano di vedere tanti tipi
di uomini quante erano le condizioni sociali, tutti partecipi di una stessa
natura, ma diversificati in modo ereditario per il loro comportamento e il loro
diseguale valore umano” (“La
società dell’uguaglianza”, p.30). Il Decreto della notte del 4 agosto 1789
ne distruggerà in Francia la base materiale (privilegi fiscali, diritti
esclusivi e barriere professionali e amministrative) ma ne attaccherà anche la
pretesa di non essere eguali, di non mescolarsi, di essere separati.
Dall’altra parte dell’oceano viene contemporaneamente posta sotto attacco
la “frivola leziosità della cortesia”, i “gentiluomini”, e come dichiara la
Pennsylvania la pretesa di “non essere tutti sullo stesso piano”. Nel 1786 i costituenti dello Stato americano affermeranno: “un regime democratico come il nostro non ammette alcuna
superiorità”.
Questo è lo spirito rivoluzionario, ed è semplice: si tratta di rigenerare l’umanità e riconciliarla, farla uguale ed una.
La radice di ciò ha un’aria di famiglia
inconfondibile: “non c’è né ebreo né greco,
né schiavo né uomo libero, né uomo né donna, perché tutti voi non siete che uno
in Cristo Gesu” (Paolo di Tarso, Lettera ai Galati, 3,28).
Ma, come ricorda anche Buffagni, questa uguaglianza
(davvero radicale) è tuttavia “spirituale”, non è affatto politica. Non è per
niente una eguaglianza democratica.
Per molti secoli nessuno (o quasi) ha tratto, infatti,
conseguenze politiche dal lascito verbale del cristianesimo. L’intero sistema
di credenze ed istituzioni lo impediva, lo rendeva non pensabile. La sovversione
interna di questo messaggio potenziale avviene lentamente a partire dal ripensamento
seicentesco e, in America, dalla tradizione puritana. Ancora nella Enciclopedia, curata da Diderot, la voce
afferma essere la “uguaglianza assoluta” una “chimera”, e sottolinea “la
necessità delle diverse condizioni, dei gradi, degli onori, delle distinzioni,
delle prerogative, delle subordinazioni che devono regnare in ogni governo”. In
accordo con una lontana tradizione l’uguaglianza davanti a dio e naturale ha ancora una dimensione strettamente morale, e
solo questa.
Quello evocato dal nostro interlocutore è, insomma, un
antico terreno di battaglia.
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