James O’Connor è morto all’età di ottantasette anni a
Santa Cruz. Per chi si è trovato a leggere una delle sue opere, a partire dal
monumentale “La
crisi fiscale dello Stato”, del 1973, con la prefazione di Federico Caffè,
o i suoi testi sulla contraddizione tra ambiente e capitalismo, mancherà la sua
chiarissima prosa dalla tagliente determinazione.
Del grande studioso marxista però ricorderemo sempre il
coraggio e la determinazione.
James O'Connor |
Per rendergli omaggio rileggerò un capitolo del suo
libro del 1973, precisamente il capitolo V, da pag 141 (dopo “Popolazione
eccedente e welfare State”, capitolo VI, da pag, 182).
L’intero libro del 1973 mostra come l’azione dello Stato,
e per esso il welfare state, sia intrappolata in una serie inestricabile di contraddizioni
che risalgono in ultima istanza all’asservimento della macchina statuale agli
interessi particolari della riproduzione del capitale. Nella dinamica che si
genera (anche nello scontro tra capitale monopolistico e settore
concorrenziale) si perde l’interesse generale e si attiva una spirale
distruttiva. Nella prospettiva indicata da O’Connor, quindi, lo stato del
benessere è condannato ad una continua rincorsa, sempre più affannosa, tra
spese sociali via via più inefficienti e la caduta tendenziale del saggio di
profitto che cercano di contrastare, mentre lo spazio fiscale si riduce sempre
di più. La cosiddetta “crisi fiscale
dello Stato” deriva da questo dilemma, che era segnalato negli stessi anni
anche da Minsky (in “Keynes
e l’instabilità del capitalismo”, 1975) e sul versante degli effetti sul
mondo coloniale da Samir Amin (“Lo
sviluppo ineguale”, 1973), che ha tra i suoi riferimenti Paul Sweezy ed il
suo discorso sul “capitale monopolistico”.
All’avvio del capitolo O’Connor classifica le spese
per consumi sociali in due classi: i beni e servizi consumati in modo
collettivo dalla classe lavoratrice e le assicurazioni sociali contro l’insicurezza
economica. Abbiamo quindi: progetti di sviluppo suburbano (come scuole, altre
opera di urbanizzazione secondarie, sostegni ai mutui delle classi deboli, …) e
progetti di rinnovo urbanistico diretti alle classi medie (uffici, servizi di
mobilità, etc.). Nel secondo gruppo assicurazioni, sanità, pensioni. Il funzionamento
generale di tutte queste provvigioni è che quanto maggiore diventa “la
socializzazione dei costi di capitale variabile”, quanto minore i salari che il
capitale dovrà riconoscere e dunque maggiore, tutto restando uguale, il saggio
di profitto.
Dunque queste spese sono dirette e preordinate al
servizio del capitale monopolistico, e da questo attivamente sostenute.
Ma succede (o meglio, succedeva) che le moderne
società capitalistiche (occidentali) siano costrette ad allocare una quota
sempre crescente del prodotto sociale (ovvero dell’insieme della produzione
socialmente disponibile, o resa tale) alle spese per consumi sociali. Ciò dipende
dalla maggiore interdipendenza della società contemporanea e dal venir meno
delle organizzazioni sociali chiuse, comunitarie e rivolte alla sussistenza,
tradizionali. E dipende dalla tendenza alla “accresciuta proletarizzazione della
popolazione”, in uno con la crescita di disfunzionali sobborghi-dormitorio e l’assenza
di una pianificazione sociale adeguata.
Lo schema analitico di O’Connor riconosce una
simmetria tra i rapporti lavoratori/capitalisti, quelli settore monopolistico/concorrenziale
e la relazione città/sobborgo. Una simmetria idealtipica, ovviamente (vedi nota
2).
Nella prima parte del capitolo analizza quindi il
fenomeno storico dell’uscita della classe media, e poi dell’élite operaia (quella
impiegata nel settore monopolista), verso i sobborghi e quindi lo sprawl urbano.
I motori sono le automobili, le autostrade federali e i programmi di garanzia
dei mutui; tutte politiche del New Deal. In conseguenza “tra il sobborgo e la
città si è stabilito un rapporto assai simile a quello che intercorreva fra le
potenze imperiali e le colonie produttrici ed esportatrici di prodotti primari”
(viene citato Paul Baran). La città offrirebbe dunque gratuitamente la propria
posizione centrale nello stesso modo in cui l’economia di esportazione offre le
proprie risorse naturali.
Gli effetti sono che nella città si insediano le
preziose attività direzionali (banche, uffici, servizi) e restano invece il
commercio al dettaglio, ed i servizi nei settori concorrenziali, mentre le
fabbriche si spostano in periferia (espulse dal costo del terreno).
Dunque la città madre è alla fine in un rapporto di
dipendenza dai sobborghi (dove vivono le classi medie istruite e si insedia
anche il capitale) come le colonie dai centri imperiali. Si tratta di un
problema di “sviluppo ineguale”, direbbe Amin. Anche parte dei redditi
guadagnati lavorando nella città, vengono “esportati” nei sobborghi, insieme ai
lavoratori della conoscenza che vi abitano.
Tutto questo, la fuga delle famiglie abbienti e delle
industrie mentre continuano a gravitare per i servizi centrali sulla città, in
qualche modo sfruttandola, determina una tendenza alla crisi fiscale e “non è
che uno dei (molti) meccanismi specifici attraverso i quali si realizza l’impoverimento
di un terzo della classe operaia: i lavoratori nel settore concorrenziale”
(ivi, p.148).
Naturalmente, e questo sarà oggetto dell’O’Connor
degli anni novanta, ciò determina anche una tendenza al sovrasfruttamento
ambientale ed alla conseguente crisi. La crisi fiscale e quella ambientale dunque
si traguardano (si veda, per un’attualizzazione, questo
post sulla crisi idrica in California).
Più nel dettaglio, ciò che accade nel sobborgo borghese
è che il consumo sociale è più omogeneamente diretto agli interessi delle
classi relativamente abbienti che lo abitano, e che le norme urbanistiche,
volte a preservare la qualità del costruito e l’efficienza del suo
funzionamento, vengono dirette a proteggere il carattere selettivo del loro
insediamento sociale. In sostanza l’amministrazione fa da muro all’introduzione di elementi estranei e protegge l’investimento
immobiliare. È un tema fortemente praticato oggi da David Harvey, e sul quale
siamo più
volte tornati.
Una delle conseguenze è che l’economia dei sobborghi
tende a specializzarsi di pari passo con i servizi e i vari tipi di enclosure
che offrono.
Invece l’economia politica della città centrale “lavoratrice”
è molto diversa: qui sono concentrati i lavoratori del settore concorrenziale e
dunque sia i redditi, sia i valori immobiliari sono più bassi, come la base
imponibile. In conseguenza sono modeste le spese per consumi sociali ma inoltre
i ceti popolari, nelle periferie urbane, tendono ad essere poco rappresentati
ed attivi politicamente.
Dunque “la spiegazione strutturale del moltiplicarsi
dei consumi sociali nei sobborghi, dell’espandersi nelle città delle spese per
consumi sociali a favore dei pendolari, delle sperequazioni nei consumi sociali
tra la città e il sobborgo è radicata
nelle contraddizioni del capitalismo stesso: nel dominio del capitale
monopolistico, nell’oppressione sociale di neri e delle altre minoranze, nella
segmentazione della forza di lavoro fra la classe operaia ‘debole’ del settore
concorrenziale e la classe operaia ‘forte’ del settore monopolistico” (p. 155).
Una conseguenza di questa tendenza allo sviluppo
ineguale ed a quello che chiama “imperialismo suburbano” è il declino della
redditività nei centri urbani, cosa che spinge il capitale a reagire elaborando
piani di investimento e di risanamento urbanistico promossi da agenzie statali.
Agenzie che normalmente operano a fianco delle decisioni del capitale,
rafforzandole e favorendole (non di rado in senso espressamente speculativo) in
una logica strettamente reattiva. Nella nota 34 viene illustrata la posizione
di Raymon Vernon, che sottolinea i fenomeni di espulsione e sostituzione che
accompagnano normalmente i rinnovi urbani.
Si contrappone dunque un accresciuto dinamismo di alcuni
quartieri centrali all’accelerato degrado di altri. Queste spese, in altre
parole, non essendo incorporate in una
logica di pianificazione sociale e regionale, aggravano le irrazionalità
dello sviluppo capitalistico (polarizzando la rendita e moltiplicandola in modo
fittizio, cfr “Londra
si autodistrugge”, di Saskia Sassen) e la crisi fiscale.
Chiaramente tutta quest’analisi, che abbiamo
richiamato a titolo di omaggio, è situata e dipendente dallo specifico
contesto.
Non lo è il
metodo.
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