Il libro del
filosofo Domenico
Losurdo è del 2017, e rappresenta una densa e coraggiosa carrellata su tutti
i motivi più sensibili della tradizione marxista, al contempo con uno spirito
militante e rigore storico. A metà tra la storia delle idee e l’interpretazione
della dinamica storico-sociale la tesi del filosofo marxista, assolutamente al
centro dei dibattiti che agitano la contemporaneità nel campo del pensiero
critico, è che abbiamo avuto in sostanza negli ultimi cento anni non un paradigma marxista internazionale, ma
almeno due: quello occidentale e quello orientale.
All’origine della divergenza, che a tratti è stata
scontro, è una differenza essenziale di priorità, prima ancora che di posizione
e ruolo:
-
Dove il marxismo
ha trionfato, sempre in paesi deboli e periferici rispetto al centro imperiale
del capitalismo occidentale, il tema che si è guadagnato la centralità è sempre
stato la sopravvivenza. Quindi l’indipendenza e la difesa dal colonialismo,
ferocemente perseguito con assoluta determinazione dalle potenze occidentali.
-
Dove il marxismo,
invece, si è sviluppato come pensiero e prassi critica di opposizione, sbarrata
nell’accesso reale al potere, ovvero in occidente, il tema divenuto centrale è
stato l’antiautoritarismo in chiave di antinazionalismo e di attesa messianica
e millenarista di una finale dissoluzione dello Stato. Il marxismo all’opposizione
si è confrontato infatti con Stati forti e di successo, e nel centro del potere
imperialista, ma ha finito a volte a far sovrapporre una inconsapevole ripresa
della tradizione religiosa occidentale (e prima della tradizione cinica) alla
concreta percezione delle forze in campo e delle priorità che una lettura
materialista di queste avrebbe consigliato.
Il termine “marxismo
occidentale”, certamente una etichetta sommaria, è ripreso da Losurdo da un
libro del 1976 di Perry Anderson e da un intervento di Merleau-Ponty che
individua con esattezza una divaricazione tra una tendenza a immaginare un
progressivo decadimento dell’apparato statale ed una concreta azione per
rafforzarlo, al contrario, per utilizzarlo al fine di opporsi
all’assoggettamento coloniale. Una utopia verso una pratica concreta, mossa
dalla necessità.
Per entrambe le tendenze divaricantesi la data di
nascita è il movimento originatosi dalla prima guerra mondiale, quindi dal
1914, e poi ovviamente dal ’17. Il clima spirituale nel quale questi eventi, in
occidente, si verificano è del tutto diverso da quello che contemporaneamente
sovraintende ai movimenti che in oriente si cristallizzano nella crisi cinese:
-
da una parte
l’orrore per la guerra, una bandiera che determina in sommo grado la
concentrazione delle forze non solo russe intorno alla bandiera bolscevica. Ed
un luogo specifico della guerra civile italiana che, alla prova delle forze,
porterà poi al fascismo.
-
Dall’altra la
paura per la violenza portata dall’occidente e dalle sue armate coloniali, la
concreta minaccia e la viva esperienza dell’assoggettamento, originato dalla
debolezza istituzionale, tecnologica e militare.
Secondo le parole di Losurdo: “a ovest il comunismo e
il marxismo sono la verità e l’arma finalmente trovata per far terminare la
guerra e divellerne le radici, a Est il comunismo e il marxismo-leninismo sono
la verità e l’arma ideologica capaci di porre fine alla stagione di oppressione
e di ‘disprezzo’ imposto dal colonialismo e dall’imperialismo” (p.12). Emerge,
in queste virgolette, lo schema interpretativo hegeliano dell’autore, il motore
dell’azione della storia è il
riconoscimento, ed il suo opposto, il
disprezzo. Le lotte sono tali per il riconoscimento (una delle versioni
contemporanee di questa interpretazione è in Honneth).
Dunque mentre in occidente il patriottismo è letto con
crescente sospetto, visto come sentimento connesso con le guerre
interimperialiste e bandiera della reazione contro il movimento internazionale
dei lavoratori (anche, e soprattutto, su due arene strategiche ed esemplari
come la Germania e l’Italia), in oriente al contrario è la bandiera che chiama
alla riscossa. Ne è espressione, ad esempio, il primo Ho-Chi Minh.
Dall’altra parte in occidente prevale lo spirito
utopico, ad esempio espresso dall’auspicio blochiano della fine dell’economia
del denaro, mentre in oriente, si pone quello dello sviluppo economico e delle
forze produttive, come indispensabile leva per poter difendere le conquiste
sociali dall’aggressione concreta delle forze organizzate del capitale
occidentale. Chi sostiene questa posizione, nel punto di passaggio è già Lenin.
Mentre Bloch esprime quest’auspicio della fine dell’economia mercantile nel
1918, o Walter Benjamin nel 1920, il capo della rivoluzione russa sposta
progressivamente il tiro, e sulla spinta della necessità ridefinisce la
priorità dalla posizione della distruzione dello Stato (ai fini della sua
ricostruzione) di “Stato e rivoluzione”,
del 1917, con la NEP del 1921, in cui lo sviluppo economico di un paese ancora
arretrato è il tema cruciale.
Nel 1923, nella famosissima “Lettera al Congresso”, un Lenin ormai morente scrive, infatti:
“sarei pronto a dire che per noi il centro
di gravità si sposta sul lavoro culturale, se
non fossimo impediti dai rapporti internazionali, dall’obbligo di lottare per
la nostra posizione su scala internazionale … davanti a noi si pongono due
compiti fondamentali, che costituiscono un’epoca. Si tratta del compito di
trasformare il nostro apparato statale, che proprio non vale nulla e che
abbiamo ereditato al completo dall’epoca precedente”.
E prosegue:
“il nostro secondo compito consiste nel
lavoro culturale fra i contadini. E questo lavoro ha come scopo economico
appunto la cooperazione” (in questo riecheggiano i
temi dell’ultimo Marx stesso).
Ma, e questo è cruciale:
“questa rivoluzione
culturale comporta delle difficoltà incredibili, sia di carattere puramente
culturale (poiché siamo analfabeti) che di carattere materiale (poiché per
diventare colti è necessario un certo
sviluppo dei mezzi materiali di produzione, è necessaria una certa base
materiale”.
Questa della “certa base materiale” è l’ultima parola
della Lettera. L’ultimo lascito.
Un intelligente e sensibile esponente italiano del
“marxismo occidentale”, nel suo ultimo libro “La
città del lavoro”, del resto attaccherà Lenin proprio per questo: la certa base materiale si è sovrapposta
all’obiettivo della cooperazione, travolgendolo.
La “disciplina di fabbrica”, estesa all’intera
società, che il Lenin di “Stato e
rivoluzione”, prefigurava (davvero profeticamente) nelle sue ultime pagine
del 1917, da “tappa necessaria”, ma da superare, in vista della scomparsa della
“necessità di qualsiasi amministrazione”, e anche della democrazia, ormai anche
essa “diventata superflua”, si è al contrario affermata e consolidata. In vece
“della estinzione di ogni Stato” si è avuta la sua iperaffermazione.
Non si è avuto, cioè, mai il passaggio alla “fase
superiore della società comunista”, quella in cui si ha la “completa estinzione
dello Stato”, non più necessario perché il controllo e la misurazione del
contributo di tutti per gli interessi di ognuno si è “fatto costume”.
Ancora più netto di Lenin è Mao, per il quale c’è diretta
identità tra la lotta nazionale e la lotta di classe (L., p.16), e per il
quale, in modo in questo non dissimile da Lenin, la tecnologia e la metodica
occidentale diventa subito uno degli obiettivi della rivoluzione, e non il
moloch che vede Benjamin.
Questa marcata differenza origina da due fonti, per
Losurdo: dalla differente tradizione
culturale (il messianesimo giudaico-cristiano) e dalle diverse condizioni materiali.
La rivoluzione anticoloniale si impone per chi rischia
di esserne schiacciato, mentre più astratti temi di lotta alle ineguaglianze e
di critica culturale segnano la differenza nelle condizioni dell’occidente. Lo
scontro tra i due marxismi si incarna in quello tra Trockij (che tiene la
posizione “occidentale”) e Stalin (che è il campione del “marxismo orientale”).
Nelle posizioni di questi ultimi emergono categorie
come “i popoli oppressi” e una netta posizione antimperialista, nei primi
faticano ad affermarsi. Al contempo i campioni statuali della reazione, la
Germania e l’Italia, si impegnano in un rinnovato imperialismo colonialista. La
Germania è sin dall’inizio un progetto di colonizzazione (dell’Est europeo e
poi di ogni altra area debole disponibile). Un progetto di colonizzazione
imperniato sul razzismo e la più bieca violenza.
Di fronte a questa sfida, letteralmente per la
sopravvivenza, emerge allora, e si consolida, un “marxismo orientale” che è
indissolubilmente lotta anticoloniale, antimperialista e affermazione di Stati
forti e riusciti (come indispensabile mezzo per organizzare una resistenza e
affermarne le condizioni materiali). Nel “dilemma
di Daniel’son”, se affermare il Mir o puntare su un rapido sviluppo
industriale, distruggendolo, alla fine insomma il marxismo orientale
(allontanandosi dallo stesso Marx finale), sceglie di vivere. Sceglie il
socialismo come concreto progetto di affermazione della propria indipendenza
come nazione, e quindi di sopravvivenza come popolo, rispetto a quello
idealizzato come palingenesi dell’umanità, proprio della versione occidentale.
I più forti interpreti del marxismo “occidentale”,
scelgono invece di non vedere, o non mettere al centro, la questione delle
colonie e di farvi astrazione (p. 51).
Ne è esempio per Losurdo il dibattito tra Norberto
Bobbio e Togliatti, in cui Della Volpe finisce per inclinare per la valutazione
della superiorità dell’occidente nella tradizione della libertà formale
lockiana. La circostanza che questa forma di libertà non abbia mai impedito la
concretezza dell’assoggettamento, della schiavitù, e del colonialismo più
violento, non turba i nostri. Sarà il solo Togliatti a ricordarlo.
Ma va in questa direzione con ancora maggiore
determinazione l’operaismo (bersaglio polemico del nostro) e lo strutturalismo,
in pratica tutte le più influenti correnti del marxismo occidentale. Così la
Scuola di Francoforte nei suoi principali esponenti (Horkheimer e Adorno). Il
primo è addirittura accusato da Losurdo di essere filo-colonialista nel momento
in cui il suo antiautoritarismo a senso unico lo porta a condannare, dopo il
1942, la rivoluzione Russa perché ha inteso costruire uno Stato per resistere
alle invasioni occidentali.
Ma ancora più profondamente si trova in Adorno una
sorta di “universalismo imperiale”, che vede la necessità in direzione della
storia di un mondo infine unificato nella “umanità ormai visibile” dell’ideale
kantiano. L’epoca dei “conflitti mondiali e del potenziale di organizzazione mondiale
del mondo”, è letta nel 1966 come occasione per liquidare il nazionalismo dei
popoli provinciali ed arretrati.
Arriva fino a scrivere il seguente passo:
“Persino le invasioni dei conquistatori dell’antico
Messico e nel Perù, che là devono essere state viste come invasioni da un altro
pianeta, hanno contribuito sanguinosamente – in modo irrazionale per gli
Atzechi e gli Incas – alla diffusione della società razionale in senso borghese
fino ad arrivare alla concezione one
world, che inerisce teleologicamente al principio di tale società”
Cioè, il
colonialismo dell’occidente (quello di Cortés) ha contribuito ad avvicinare
alla ragione? Ad un mondo unificato, che è obiettivo teleologico superiore?
Hernàn Cortés Monroy era dunque uno strumento della
Ragione?
“Cortés
non ha popolo: è un lampo freddo,
un
cuore morto dentro l’armatura.
<terre
feraci, mio Signore e Re,
templi
ove l’oro viene coaugulato
dalle
mani dell’indio>
E
avanza, affondando pugnali, percuote
le
basse terre, le rampanti
cordigliere
dei profumi,
ferma
le truppe in mezzo alle orchidee
e
alle altre corone di pini,
e
calpesta i gelsomini,
fino
alle porte di Tlaxaca,
(o
fratello terrorizzato,
non
fidarti dell’avvoltoio rosa:
qui
dal muschio io ti parlo,
dalle
radici del nostro regno.
Domani
verrà pioggia di sangue,
e
le tue lacrime finiranno
per
formare nebbia, vapore, fiumi,
finché
i tuoi occhi si scioglieranno.)
Cortés
riceve in dono una colomba,
riceve
in dono un fagiano, una cetra
dai
musicanti del monarca,
ma
vuole altre concessioni: e tutto
entra
negli scrigni dei voraci.
Il
Re s’affaccia ai balconi:
<E’
mio fratello>, dice. I sassi
Del
popolo volano in risposta,
e
Cortés arrota i pugnali
sugli
stessi abbracci traditi.
Torna
a Tlazaca: il vento ha portato
Un
rumore sordo di dolori”.
Pablo Neruda, “Canto general”,
III Los Conquistadores,
Ci sono, per la
verità degli anticolonialismi anche nella tradizione del marxismo occidentale,
Losurdo ne fa traccia in Marcuse (che, però, assume comunque una posizione di
supporto su Israele, p. 84) e in Sartre, o Lukacs.
Ma “pur
caratterizzato da una varietà di posizioni, che vanno da un anticolonialismo
convinto ma dalla piattaforma teorica spesso fragile a un filo-colonialismo
dichiarato, nel complesso il marxismo occidentale ha mancato l’appuntamento con
la rivoluzione anticoloniale mondiale” (p.101).
Ha mancato di
riconoscere, cioè, la barbarie dell’occidente.
Una delle parti
più vibranti del testo è nell’attacco senza scampo che Losurdo compie al mito
di Hannah Arendt, con la sua sistematica rimozione del nesso
colonialismo-nazismo, ricondotto solo alla sfocata categoria di “totalitarismo”
(ben utilizzabile contro i nemici della sua patria di adozione, l’America) e
uno dei riferimenti principali di “Impero”
di Negri e Hardt. La completa rimozione della barbarie del colonialismo, al
punto di porre in ultima analisi sul banco degli imputati le vittime che si
difendono.
Sarebbe da qui che, senza forse avvedersene, dal cuore
della guerra fredda e del clima del maccartismo che Negri va a
prendere la tesi secondo la quale colonialismo e imperialismo sono estranei
agli USA e la dissoluzione dello stato in favore di un impero (generato per
meccanica propria e sviluppo della ragione) sia il finale esito dello sviluppo
della Storia (p.142).
Ma, certo, il testo se la prende anche con il ’68 e in
specie con Foucault e la sua “rimozione dei popoli coloniali dalla storia”. O,
abbassando alquanto il livello dell’obiettivo, con Zizek e con David Harvey
(p.153).
Tutte queste
sarebbero in fondo solo parole,
e come Lenin con esse bisogna lottare. Il marxismo in posizioni come quella di
Negri diventerebbe, in altri termini, sostanzialmente subalterno all’ordine
esistente (in specie all’ordine imperiale esistente), perché “ridotto a
religione d’evasione” (p.167).
Invece il marxismo può rinascere solo se si ricollega
alla lunga lotta contro il sistema colonialista. Contro tutti i colonialismi. Se si ricollega a quella lotta per “un
mondo multipolare”, alla quale chiama, ad esempio, Samir Amin. Una lotta
che prevedere anche l’orgogliosa affermazione di una sovranità
popolare, e la resa dei conti con il messianesimo. Non bisogna concentrarsi
sul futuro remoto, ma sulle concrete possibilità e necessità del presente.
Sulle condizioni materiali e sulla loro carica
emancipatrice.
Ovvero, come dice Losurdo, “filosofare piuttosto che
profetare”, e sapendo che “la filosofia è il proprio tempo appreso con il
pensiero” (Hegel).
Pensare il proprio tempo, dunque: questo qui, proprio ora.
Ritrovando in
esso la carica per emanciparlo.
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