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sabato 9 dicembre 2017

Frammenti: Helmut Schmidt, “Lettera aperta a Tietmeyer”, 8 novembre 1996


Su Die Zeit, l’8 novembre 1996 l’ex Cancelliere Helmut Schmidt scrive una serrata lettera aperta al Presidente della Bundesbank, Hans Tietmeyer, in risposta ad una lettera per stesso mezzo inviata da questi. Nel testo si legge una specifica accusa di “mancanza di visione” politica, rivolta al grande tecnocrate finanziario.


Il punto di sostanza, avanzato da Schmidt è che i fondamenti politici dovrebbero cambiare insieme a quelli economici.
Leggiamo:

Gentile signor Tietmeyer,
nella primavera di quest’anno mi ha inviato una lettera (pubblicata sul “Die Zeit” del 26 aprile) per affermare di non essere un oppositore dell’Unione Monetaria Europea, bensì un suo sostenitore. Aggiunge però alcune limitazioni… che indica come “la creazione di fondamenta economici e politici essenziali”. Per queste posizioni la vedo come il più importante oppositore dell’Unione, che ai miei occhi dimostra una mancanza di visione.

In discorsi pubblici – per due volte – e in alcune interviste ha precisato e articolato la natura delle sue osservazioni. In sostanza, ritiene i fondamenti politici di oggi sufficienti anche come fondamenti economici del trattato di Maastricht.

Lei insiste sulla “osservanza rigorosa” delle cinque misure contenute nel trattato di Maastricht, nel quale l’idoneità economica di uno Stato deve essere valutata con attenzione prima di impegnarsi nella futura valuta comune. Tuttavia lei non parla dell’articolo 104c aggiunto al trattato di Maastricht e delle decisioni del Consiglio europeo. Invece lei fa nascere in modo insistente l’impressione, scorretta, che i criteri contenuti nel protocollo del trattato siano assolutamente vincolanti.

Il Trattato di Maastricht viene reintepretato come gabbia vincolante (nella quale rinchiudere i riottosi Stati cicala del sud, evidentemente) in assenza della quale la stessa unione monetaria sarebbe da rigettare.
 In effetti, il trattato di Maastricht afferma che se uno Stato membro soddisfa “nessuno o solo uno di questi criteri, allora tutti i fattori pertinenti devono essere considerati, inclusi la situazione economica e la posizione di bilancio dello Stato membro a medio termine”.

Tuttavia ha spesso detto pubblicamente che senza una Unione Europea creata su basi politiche la valuta comune rimane compromessa nel suo funzionamentoDalle sue osservazioni e dalle rettifiche di alcuni suoi colleghi, i tedeschi hanno capito che nelle attuali condizioni sarebbe meglio non procedere con l’euro. Se le sue osservazioni sul processo di integrazione europea possono sembrare positive, il suo effetto sull’opinione pubblica tedesca è negativo.

Le conseguenze di ciò sui Paesi europei sono un altro piano. In Francia, in Italia, in Inghilterra e altrove si ha l’impressione che il processo di integrazione europea sia nelle sue mani. Il carattere e la diffusione dei suoi discorsi la rendono non solo poco amato – cosa sopportabile – ma rendono anche la Germania poco amata, cosa che non ci siamo meritati e che non possiamo sopportare. A molti dei nostri Paesi vicini la Germania, che lei rappresenta, appare dispotica e troppo prepotente.
Se il 1 gennaio 1999 la moneta europea non si attuerà, forse non si attuerà mai più, perché nel frattempo, ovunque, si diffonderà una ribellione contro il trattato di Maastricht e contro i tagli di bilancio voluti dai tedeschi. Ne conseguirà la più grande crisi del processo d’integrazione europea, probabilmente la sua fine. E la Germania sarà lì, isolata – proprio il contrario di quell’integrazione che da Adenauer a Kohl, tutti i Cancellieri che avevano perseguito come obiettivo strategico fondamentale nel vitale interesse tedesco!

Ecco chiaramente individuato da Schimdt l’interesse politico che ritiene essenziale, ed alla base del complessivo processo europeo: evitare che la Germania resti “lì, isolata”. Ovvero che resti sola al centro dell’Europa, circondata da avversari.
Una paura di lunghissimo corso nella geopolitica tedesca.

Il politico socialdemocratico, il cui ruolo nella storia e la cui determinazione nel portare avanti il superiore interesse tedesco non può essere trascurato (si può leggere il libro di D’Angelillo “La Germania e la crisi europea” in proposito), a questo punto attacca le precedenti posizioni del suo interlocutore, ed avversario politico, sin dalla “Carta di Lambsdorf” del 1982, l’anno in cui cade il suo governo e gli succede Kohl.

Gentile signor Tietmeyer, lei si è sbagliato altre volte su questioni economiche e politiche. Sbagliare è umano; nessuno è esente da errori. Tuttavia, tre suoi errori dovrebbero far riflettere sulla bontè delle sue posizioni.

Primo. Nel 1982 ha elaborato la cosiddetta “Carta Lambsdorff”, che aveva lo scopo di porre fine all’esasperata controversia economica all’interno della coalizione di governo e di portare al governo la cdu/csu. In effetti, da allora il debito pubblico totale è aumentato di quattro volte, le tasse e gli oneri fiscali sono più alti che mai, soprattutto la disoccupazione ha raggiunto livelli preoccupanti; solo l’inflazione è inferiore al 1982 quando, in seguito all’aumento del prezzo del petrolio da parte dell’Opec era, temporaneamente, più elevata. Non dovrebbe ammettere che le posizioni espresse nella “Carta Lambsdorff” si sono dimostrate sbagliate?

E quelle assunte nel 1990:
 Secondo. Nel 1990 come consulente personale del cancelliere per le questioni di economia e di unione monetaria con la DDR, ebbe delle grosse responsabilità per gli errori che furono commessi e per le irrealistiche promesse formulate in quella circostanza. Non deve oggi riconoscere che più del 100% di rivalutazioni del marco dell’Est sia una delle principali conseguenze del crollo della vecchia industria della DDR? Oppure che la promessa di non innalzare delle tasse fu una stupidaggine inaudita? E non lo furono anche le promesse di rinascita e di raggiungimento nel giro di quattro anni del livello salariale della Germania dell’Ovest anche nella Germania dell’Est?

Specificamente ricorda la responsabilità del tecnico nel determinare l’unione monetaria con parità in occasione della unificazione con la Germania dell’Est, ovvero quella misura che frantumò letteralmente la industria dell’est, provocando immediatamente milioni di disoccupati. La lettura di “Anschluss. L’annessione” di Wladimiro Giacchè, è qui necessaria.

E poi la responsabilità nel processo di formazione della Unione monetaria stessa:

Terzo. Condivise la decisione di aumentare i tassi di interesse della Bundesbank, che dopo il 1990 doveva di nuovo portare al crollo monetario. Contribuì alla decisione di rifiutare il necessario aumento del tasso di cambio del marco tedesco all’interno del sistema monetario europeo, al suo totale annacquamento, mentre la banda di fluttuazione del tasso di cambio si era espansa a più del sestuplo. Prese parte alla decisione che stabiliva nel trattato di Maastricht il criterio del rispetto della banda di fluttuazione del sistema monetario europeo. Non deve oggi ammettere che ciò creò de facto l’ECU, il quale fu introdotto nei mercati della finanza mondiale, mentre invece era adatto essenzialmente per l’Unione monetaria? Un brutto errore!

La Bundesbank, al cui direttorio lei appartiene dagli inizi del 1990, ha pesantemente influenzato la stesura dei criteri di convergenza di Maastricht. Ma né la Bundesbank, né il ministero delle Finanze hanno mai pubblicamente spiegato il motivo per cui il debito totale di uno Stato partecipante non debba essere superiore al 60% del suo prodotto interno lordo. Viene allora da chiedersi perché funzioni, sin dai primi anni Venti, l’unione monetaria fra Belgio e Lussemburgo, e perché il tasso di cambio del franco belga sia relativamente stabile, benché il debito totale del Belgio, oggi, sia raddoppiato e quello del Lussemburgo sia solo un decimo.

Qui Schmidt sottolinea opportunamente che nessuna regola economica indica e giustifica le regole di Maastricht, che infatti furono scelte arbitrariamente.
Allo stesso modo, non è motivato economicamente l’altro criterio fondante che il debito annuale di uno Stato membro non possa essere superiore al 3% del suo prodotto interno. Quando uno Stato risparmia molto, allora lo Stato può accedere ad altri crediti senza con ciò ostacolare il finanziamento degli investimenti privati; quando però un popolo risparmia poco, o non risparmia per niente, allora il 3% come limite per prestiti statali è fin troppo alto. Il tasso di risparmio americano è al 4%, quello tedesco all’11%, quello giapponese a circa il 16%; ciononostante lo stesso Giappone, oggi, a causa del criterio del 3%, teoricamente non potrebbe venire preso in considerazione per essere uno Stato dell’area dell’Euro. Il criterio del 3% può essere basato nelle buone congiunture, ma in una recessione invece questa soglia è troppo alta: la flessibilità dell’articolo 104c è perciò necessaria.

Il punto è che la flessibilità, sostiene Schmidt, è necessaria.
Invece il governo, che è guidato dalla CDU di Kohl (fino al 1998) propone in quegli anni il “Patto di stabilità”, sottoscritto l’anno successivo, nel quale i criteri si irrigidiscono e di fatto l’articolo 104c è vanificato.  
Adesso il ministro delle finanze, Waigel, attraverso il “patto di stabilità” tra gli Stati membri, vuole saltare sulla sella del trattato di Maastricht e rendere immutabili i criteri di convergenza, minacciando sanzioni pecuniarie agli Stati che oltrepassano i criteri. Dipendenza dalla Germania? Oggi i nostri partner europei sono arrabbiati per la pressione di Waigel, e ci fanno capire apertamente che a loro Waigel non va bene.

Con questo autentico colpo di mano, che cambia completamente il senso dei punti di accordo e compromesso, pur insufficienti, raggiunti nella trattativa di ratifica, la Germania si mette dalla parte di una austerità senza ragionevolezza e rischia di essere sempre più sola.

Del resto questa politica non appare all’ex Cancelliere neppure necessaria, la convergenza non lo è.

Ammetto che pure a me sembra auspicabile una grande convergenza delle economie dei Paesi membri. Ma per il funzionamento dell’euro la convergenza non è assolutamente necessaria. Poiché la banca Centrale europea non deve fare credito a nessun Governo, un Governo fiscalmente non convergente dovrà offrire al mercato interessi più alti per collocare il suo debito. Non è questa una punizione e un’intimidazione sufficiente? Quando Bismarck nel 1875 sostituì il marco alle dodici valute tedesche, non chiese prima la convergenza, giustamente. Effettivamente non ci fu nessuna convergenza dei prestiti pubblici degli Stati tedeschi e nessuna convergenza tra la Prussia dell’Ovest e Amburgo o la Frisia dell’Est e la Sassonia. Anche ai nostri tempi il marco vale sia negli ambienti ricchi di Stoccarda, che in quelli poveri della Pomerania. E lo stesso yen vale nelle prefetture povere di Okinawa come in quelle ricche di Tokyo; lo stesso dollaro vale negli Stati poveri come l’Arkansas, come pure negli Stati ricchi come la California. Attenzione: per la solidità di una moneta e per la politica monetaria non è pertinente che la valuta sia valida per ricchi e poveri, per imprese e regioni povere e ricche. L’unico presupposto è che la politica monetaria si trovi in mani esperte, scevre da ideologie, libere dalla pressione di gruppi di interessi e da inclinazioni partitiche. Ma sono proprio queste le condizioni che il trattato di Maastricht cerca di salvaguardare.


Nel seguito arriva una interessante ammissione (ormai avanzata da più parti, ma nel 1996 piuttosto rara).
Si parla volentieri del marco tedesco come della “valuta àncora”. Effettivamente, la Bundesbank ha rivalutato costantemente, attraverso la sua politica di alti tassi di interesse, il corso monetario del marco; essa è persino orgogliosa dell’instabilità della nostra “forte” valuta estera. Effettivamente il pesante aumento del costo del lavoro tedesco si basa, a confronto con l’economia mondiale, per buona metà sulla quasi incredibile rivalutazione del marco nei confronti delle valute di quasi tutti i nostri concorrenti del mercato planetario […].

Se l’euro non arrivasse, una nuova significativa rivalutazione del marco sarebbe immediata inevitabile conseguenza – e con ciò un’ulteriore perdita di posti di lavoro tedeschi. Perché le nostre esportazioni diventerebbero di nuovo troppo onerose; e contemporaneamente in Germania prevarrebbero beni d’importazione più vantaggiosi dei prodotti finiti tedeschi, dall’auto all’elettronica.

L’euro serve ad evitare che il marco si rivaluti per attirare capitali, nel sistema della BCE ciò avverrà per linee interne. Ovvero il Trattato di Maastricht creerà le condizioni per “mettere sotto pressione i partner europei”, senza bisogno di rivalutare.

Da quando esiste Maastricht la Bundesbank, per far seguire la propria impostazione, ha messo sotto pressione molti nostri partner europei. Con ciò lei accetta – e anche il ministro delle Finanze Waigel – che questo attivismo pesi sul trattato di Maastricht e che questo e l’euro, perciò siano rifiutati da parecchie persone.

E, parimenti, in questo modo la politica della Bundesbank, che è “uno stato nello stato”, sostanzialmente illegale in Germania (ma accettata dalla maggioranza democristiana) diventerebbe quella europea.

 La Bundesbank è, secondo il paragrafo 12 del suo regolamento, “obbligata a sostenere la politica economica generale del governo federale”. Lei potrebbe replicare che il taglio della spesa pubblica e sociale sia una politica economica generale da accettare. Ma la Bundesbank non è uno Stato nello Stato; è tenuta a sostenere l’adempimento del trattato di Maastricht, che il governo federale ha portato a compimento e che il Bundestag ha ratificato in tutte le sue parti.

Lei invece chiede l’adempimento del trattato, ma solo alle specifiche condizioni della Bundesbank. Gli eccessi inammissibili di potere della Corte Costituzionale nel verdetto su Maastricht del 1993 e le più recenti posizioni – sulla competenza economica alle minacce del giudice della corte costituzionale Kirchhof – sono diventati suoi alleati. Ma nel frattempo in Germania vale ancora la legge della stabilità e della crescita! Nel frattempo, ai sensi dell’articolo 1, un “alto livello di occupazione” è l’obiettivo legittimo di ogni governo federale.

L’alto livello di occupazione diventerà un ricordo.

Ma c’è ancora di più.

La nostra economia e le sue aziende non possono, attraverso il taglio della spesa pubblica e sociale, guarire da sole (non parlo qui ancora di giustizia sociale), bensì occorre urgentemente la deregolamentazione, cioè l’abrogazione e la semplificazione di 2000 leggi dell’Unione, di oltre 3000 ordinanze, nell’insieme 85000 articoli. In tutto questo, le norme dell’Unione Europea, degli Stati federali e le contrattazioni salariali non sono calcolate.

Prima di tutto occorre attuare urgentemente l’espansione della nostra ricerca nel campo medico e scientifico e dello sviluppo tecnologico al fine di portare sul mercato mondiale, nel futuro, le nostre merci che non sono state prodotte nei Paesi a basso salario. Di questi temi decisivi per la nostra attività non ho ancora sentito la sua voce, finora – anche se la Bundesbank si esprime in ogni resoconto mensile su tutti gli altri temi possibili, fino alla più recente richiesta di tagliare i trasferimenti monetari pubblici ai nuovi Lander.

Se lei, onorato signor Tietmeyer, insiste esclusivamente sulla “sicurezza della valuta”, come dice il testo dell’articolo 1 della legge bancaria federale, allora lei non può avere in mente esclusivamente la valuta interna, bensì deve pensare alla stabilità della nostra valuta estera. Dovesse la sua visione rimanere attaccata esclusivamente al valore interno della valuta, ci troveremmo di fronte, insieme alla globalizzazione crescente, a un’ulteriore rivalutazione, a ulteriori perdite di competitività e posti di lavoro: i nostri posti di lavoro verrebbero velocemente trasferiti nell’Europa dell’Est e in Asia. Se ne rende conto? La linea della banca Centrale negli anni dal 1930 al 1932, a causa di un’ideologia deflazionistica monomaniacale, non ci ha condotto alla rovina, a perdite immense di posti di lavoro, con conseguenze politiche gravi?

Schimdt, qui evoca, connettendolo alla politica suicida della Banca Centrale tedesca, che si sta imponendo al nuovo organismo europeo, la tragedia del nazismo.
Un avvertimento sinistro del quale non può, proprio lui, essere ignaro.

Da questo punto la lettera va verso la chiusura e l’esponente socialdemocratico passa prima sul piano geostrategico, ricordando uno dei più rilevanti motivi nella formazione della Unione Europea: guadagnare un rango imperiale a fianco dei grandi poli di potere mondiali.

Mi auguro che la Banca Centrale Europea, diversamente da lei, gentile signor Tietmeyer, prenda sul serio la stabilità esterna dell’euro, come la sua stabilità interna. Ciò sarebbe un bene per le nostre industrie e i nostri lavoratori. L’Euro produrrà per la prima volta il finora falsamente denominato “Mercato Comune”. I costi di trasferimento da una valuta a un’altra sarebbero soppressi (a oggi ammontano, annualmente, all’interno della UE a circa 30 miliardi di marchi). Per la prima volta i prezzi in Europa diventerebbero per la gente, in modo trasparente e immediato, confrontabili. Con ciò si avrebbe anche il più grande vantaggio economico: con l’euro sarebbe creato finalmente un contrappeso al dollaro americano e alla politica monetaria egoistica di Washington; un contrappeso anche nei confronti dello yen giapponese e della valuta della Cina, che ha acquistato velocemente valore.

In seguito enuncia l’altro: il progresso. L’unificazione è vista come momento di razionalità e progresso, perseguita sin dal 1950 con il “Piano Schuman”.

Ma il vantaggio più importante è il seguente: l’euro è il progresso tanto atteso che noi abbiamo percorso dal 1950 con il piano Schuman. Quando sarà compiuto, allora si verificheranno i presupposti per una politica estera e per la sicurezza dell’Unione europea. Se lei tuttavia vuole far cadere l’euro, il processo di integrazione si spezzerebbe. Il cancelliere Kohl ha detto a proposito: “Gioco qui la mia esistenza politica”.

Certamente non mi aspetto molto dalla confusione di Kohl sul piano economico, ma con la sua politica europea mi sento soddisfatto. Evidentemente egli è, con Jacques Chirac, ben deciso a fare uso del trattato di Maastricht e a unire Germania e Francia e collocarle nella Unione Europea.
Giusto così. Se lei però con la sua politica del rifiuto vuole cancellare il signor Kohl per le sue azioni strategiche, allora non sarebbe solo Kohl a perdere, ma anche la Germania entrerebbe nuovamente in una strada tortuosa: i nostri vicini ci guarderebbero con sospetto e si unirebbero contro la nostra potenza.


Ma insieme al progresso, torna la paura. La Germania teme che ci si “unisca contro la nostra potenza”.



E’ la storia del novecento che sta sempre dentro di noi.

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