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sabato 24 febbraio 2018

Guido Carandini, “Quella grande illusione”


L’articolo del conte Guido Carandini, ex deputato PCI dal 1976 al 1982, esponente dell’importante ed antica famiglia modenese dei Carandini su La Repubblica del 22 agosto 1985, è il primo che dà avvio al processo finale di revisione dell’impianto ideologico del PCI: in sostanza l’inizio della fine.
Erano gli anni in cui dalla morte improvvisa di Enrico Berlinguer la segreteria del partito era tenuta da Alessandro Natta nel pieno dell’avvio delle politiche che oggi chiameremmo neoliberali e del regresso delle politiche del welfare. Nel 1983 Craxi sale al governo e cresceva dentro il partito la frattura tra chi intendeva proseguire l’orgogliosa dichiarazione di alterità, almeno nella versione berlingueriana, e chi spingeva per una trasformazione modernista. Cioè proponeva di inseguire i socialisti, come suggerito dai cosiddetti “miglioristi” (Giorgio Napolitano, Gerardo Chiaromonte, Luciano Lama, Napoleone Colajanni), mentre la sinistra ingraiana spingeva in direzione opposta.


Il 9 e 10 giugno 1985, dopo una tornata elettorale nella quale il Pci si era assestato, in lieve flessione, al 30,2% (mentre la DC arrivò al 35%), si tenne il referendum abrogativo della manovra con la quale il governo Craxi intendeva ridurre gli scatti di adeguamento all’inflazione da pagare (“punti di contingenza”), ovvero limitare e poi abrogare la cosiddetta “scala mobile”. Il Pci si mobilità da solo contro l’azione delle forze di maggioranza e andò incontro ad una dignitosa sconfitta (54,3% contro 45,7%).
Il 5 luglio il segretario, Natta, convocò il Congresso entro la primavera dell’anno seguente. Il dibattito fu molto acceso, con interventi su “l’Unità” di Colajanni, Aldo Tortorella, Occhetto, Andriani, Gaetano Arfè, Armando Cossutta, Luciano Ghelli, Corrado Vivanti, Paolo Cantelli, Luciana Castellina, Lanfranco Turci fino agli operai della Piaggio e dell’Alfa di Arese. Nel corso di questo dibattito emergono centrali alcuni temi, come l’imprescindibile orizzonte europeo e l’orientamento verso le socialdemocrazie.
Quattro anni dopo ci sarà la “svolta della Bolognina” che avvierà il processo di scioglimento del Partito Comunista Italiano il 3 febbraio 1991.


Parallelamente al dibattito su L’Unità un altro giornale rilevante, per l’indirizzo politico della sinistra avvia con questo articolo di Carandini un processo di revisione critica della cultura e della posizione dei comunisti italiani. E lo fa con un articolo che già nel titolo “La grande illusione”, manifesta subito il suo carattere provocatorio ed aggressivo.

Carandini prende le mosse dal libro di Aldo Schiavone sulla storia del PCI negli anni settanta, e mette immediatamente l’accento sul “fallimento del disegno politico di Berlinguer” e sulla fine, quindi, del “viaggio dei comunisti italiani intrapreso nel dopoguerra sotto la guida di Togliatti”. Ovvero, come dice, epilogo della vicenda comunista in generale, e quindi necessità di “porre mano alla costruzione di una forza politica nuova ‘al posto del Pci’”.
Il motivo è il “vuoto di idee e di programmi” che dopo le sconfitte seguite alla fine del compromesso storico, ovvero al biennio 1976-78, lo caratterizza.

Ma c’è una ragione più profonda secondo lui: bisogna ammettere che l’impegno civile dei comunisti (di Schiavone e dello stesso autore) “è stato sorretto per anni da una ragione arretrata rispetto al tempo storico in cui viviamo”.

Con questa potente (e direi proprio costitutiva della posizione della sinistra) metafora spaziale, dunque identitaria (vedi la riflessione di Charles Taylor in “La topografia morale del sé”), Carandini chiude in pratica la partita. Se, infatti, una ragione si dimostra arretrata l’impresa che ne deriva non può che essere “votata all’insuccesso” proprio “dalle stesse premesse dalla quali muove”. Le premesse sono per l’autore connesse, cioè, a schemi di interpretazione della realtà che “si andavano consumando” dall’inizio del secolo “nel più avanzato pensiero occidentale”.
Ecco dunque l’arretrato rispetto a cosa lo è (si tratta sempre di topografie, ovvero di schemi fondati su confronti e relazioni): rispetto al pensiero occidentale. Rispetto, cioè, a “nuove correnti di pensiero (filosofico, storico, economico e politico)”, fondate sulla rivoluzione scientifica relativistica (esattamente, come dice, “sotto l'impulso della rivoluzione scientifica nel campo della fisica relativistica”), capaci di mettere in crisi i modelli precedenti. In sostanza il primo positivismo, e storicismo, sul quale si innesta il pensiero formatosi nel 1800.
L’attacco di Carandini (che fa riferimento all’ambiente intellettuale nel quale l’economia neoclassica, il neopositivismo al quale è strettamente legata, e le varie forme di pensiero “debole” e critica della ragione seguite alle varie e anche diverse “svolte” novecentesche) dichiara dunque “corroso” dal tempo il marxismo.

L’autore chiama del resto lo stesso Marx a sostegno della sua tesi di caducità storica delle ideologie, utilizzando contro di essa lo spirito critico che aveva rivolto contro le coeve teorie “borghesi” (ovvero su Ricardo ed epigoni).

“E del resto questo suo destino non era già stato forse anticipato dal concetto stesso di ‘storicità delle categorie economiche’ con il quale Marx aveva demolito le false certezze della borghesia del suo tempo, mostrando i limiti storici tanto delle sue costruzioni teoriche quanto del suo sistema di produzione? Se almeno questo insegnamento di Marx fosse rimasto vivo e operante, avrebbe stimolato una riflessione diversa da quella che si è attardata nel Pci sui temi della ‘rivoluzione’. Soprattutto dopo che quelle russa e cinese avevano partorito regimi sideralmente distanti dalle pur scarne anticipazioni che Marx aveva lasciato sulla società del futuro”.

La seconda lezione di Marx richiamata nel denso testo di Carandini è il caposaldo stesso della proposta: l’unica via per la trasformazione di una formazione storica di produzione è nello svolgimento interno delle sue contraddizioni (cit. “Il Capitale”, Vol.1). In questa affermazione, piuttosto connessa con lo scientismo del suo tempo e contemporaneamente rivolta come arma contro i competitori politici, i Proudhon, in Bakunin, i Mazzini, per dirne alcuni, l’autore legge invece la condanna senza appello a chi avesse ritenuto, negli anni settanta, maturi i tempi del cambiamento, e quindi perseguibile una prospettiva rivoluzionaria che ne fondasse la diversità.
La diagnosi della crisi del capitalismo negli anni settanta (condotta a metà degli ottimisti anni ottanta, quando il paese cresce al 2,5% e lo slogan della “Milano da bere” viene formulato), come crisi finale di dissoluzione è definita “una fantasia non solo sciocca, ma anche pericolosa”, ovvero infantile e basata su premesse culturali obsolete. Dunque un errore, dal quale bisogna emendarsi, riparandolo: “aver appartenuto a quella generazione, aver condiviso quella cultura e quelle fantasie, è stato un errore gravido di conseguenze, alla riparazione del quale non è lecito sottrarsi”.

Il motivo per il quale attardarsi nell’idea che si potesse cambiare il capitalismo, quando questo non stava crollando per suo proprio moto, ma attraversava solo una congiuntura sfavorevole, ha impedito infatti al Pci di dedicarsi ad una politica più seria e realistica. Ed ha eliminato dalla scena politica effettiva le forze che questo rappresentava.

Insomma Carandini parla dell’accesso al potere.

Il tentativo del “compromesso storico”, nel quale si cercava l’accesso al potere ma al contempo dichiarando di voler far cessare quello stesso potere cui si chiedeva di partecipare e ci si dichiarava “diversi”, è indicato qui come un “parto intellettuale” residuale. Ovvero come il

residuo prodotto di quella razionalità classica ottocentesca che già Marx, nella sua critica della borghesia, aveva iniziato a mettere in crisi. Un prodotto cioè ancora di quella concezione del mondo che esigeva una risposta non soltanto ‘certa’ ma anche ‘immutabile’ a ogni possibile domanda, della natura come della storia”.

Nello spiegare questo passaggio Carandini mette infine sotto accusa la pretesa di conservare una prospettiva rivoluzionaria in un contesto che non lo è. Con un rovesciamento logico interessante, e dimostrando di non essere lui stesso fuoriuscito dall’incantesimo del pensiero determinista (anche di Marx, appunto), gli pare che il fatto che la dinamica propria di una fase sia “non rivoluzionaria”, perché i meccanismi interni all’opera, mossi dalla loro logica e dalla struttura dei rapporti, non sono orientati all’autosuperamento, sia confutazione dell’azione del Pci che cerca una via di ‘fuoriuscita morbida’ dal capitalismo entro la cornice democratica. Questa ipotesi di Berlinguer (si veda, ad esempio, gli articoli “austerità”, del 1977), è per Carandini solo una “illusione”. Anzi, una vicenda “grottesca” e spia di “un’ondata di fanatismo religioso” che ha il sopravvento sulla ragione e sul buon senso di un terzo degli italiani.

La rivoluzione e la democrazia politica, del resto, si combattono sul piano pratico. Mentre il Pci immaginava una via graduale, che però portasse egualmente al socialismo, dal basso la strategia ingraiana di potenziamento della democrazia di base (nelle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri) per poi ascendere nella rappresentanza del partito e nel compromesso con gli altri si scontrava nella pratica con le rigidità organizzative e il verticalismo (il cosiddetto “centralismo democratico”).

Dunque:
“La ‘base’ comunista, per quanto recalcitrante, ha sempre dovuto (e voluto) accettare il pieno dominio dei vertici del partito con un misto di esaltante adesione e di passiva rassegnazione. Questa passività dei quadri del partito nei confronti del ristretto gruppo dirigente si ripeteva, sia pure con qualche attenuazione, nell'ambito del gruppo parlamentare con effetti, però, ben più devastanti perché si riverberava chiaramente sul ruolo del medesimo Parlamento. Cosicché lo stesso Ingrao, ispiratore e teorico della più spinta ‘democrazia di base’ e della esaltazione delle assemblee elettive, nel triennio ('76-'79) della sua Presidenza della Camera, non riusciva ad attuare la più piccola riforma regolamentare che togliesse la Camera stessa dalla penosa situazione di subalternità rispetto alle decisioni delle segreterie di partito, non seconda a nessuna quella comunista”.

Questa è l’esperienza, anche personale, che spinge l’autore a denunciare l’autocratismo del vertice del Partito Comunista (in una fase in cui premevano “i quarantenni”, di cui erano espressione Occhetto e in seconda fila D’Alema), e lo spreco di energie come quelle, ad esempio, di Napoleoni e Spaventa. E che lo spinge a dichiarare venuta meno l’illusione di poter “inventare una nuova forma di rivoluzione basata non sulla forza ma sul consenso”.


Nel seguito dell’articolo Carandini, non senza citare il capo politico dei “miglioristi”, Giorgio Napolitano, spende parole per riconoscere che l’approccio socialdemocratico, pienamente compatibile con la democrazia politica al prezzo di non attardarsi con la “rivoluzione”, sia stato capace di “trasformare la società nel suo insieme”

in modo tale da far dubitare che oggi Marx chiamerebbe disinvoltamente ‘capitalistiche’, senz'altra specificazione, le strutture economico-sociali di alcuni fra i maggiori paesi industrializzati dell'occidente. Noi abbiamo già assimilato nel nostro modo di vita, senza rendercene conto, gli ‘elementi di socialismo’ (quelli sì che lo erano!) che, a partire dal laburismo inglese dell'immediato dopoguerra, hanno penetrato le società capitalistiche, modificandone profondamente la natura”.

Questo approccio socialdemocratico (che da allora, Carandini non lo sa, proprio secondo l’idea iniziale che il socialismo tutto sia “arretrato” sarà revocato in profondità, scavando sotto i piedi della sua stessa proposta) diede enorme impulso attraverso l’azione pubblica alla “socializzazione delle forze produttive”. Ottenendo di fornire supporto e garanzia ai bisogni collettivi senza sacrificare i diritti individuali (ovvero senza dittatura).

Ecco quindi la richiesta al gruppo dirigente (ovvero a Natta quando chiama il congresso): abbandonare lo stesso vocabolo “comunista” (“almeno in questa parte del mondo e nel nostro universo culturale”). La storia infatti dirà, se gli esiti del comunismo russo (siamo nel 1985, mancano quattro anni) e cinese “vi sarà veramente la liberazione sociale degli uomini non solo dai vincoli del bisogno ma anche da quelli del terrore e del dispotismo”.
E nel proporlo Carandini riprende in effetti l’asse arretrato/avanzato e la metafora scientista (entrambi così marxiani, anche senza rendersene conto): “Ma per noi, nel bel mezzo di questa vecchia Europa, è un vocabolo ormai insensato, almeno quanto lo è ‘alchimia’ per descrivere il compito di far avanzare la chimica e la fisica nell' era atomica”.

Soddisfatto di aver chiarito, con la logica impeccabile della scienza (o meglio, evocandone il potere), la necessità storica di abbandonare il nome, Carandini si sofferma ora sul piano pratico. Il nome contiene il germe del concetto di essere ‘diversi’, di volere qualcosa di diverso dalla semplice gestione del potere e dalla partecipazione alla festa capitalista. E questo è “uno dei motivi di orgoglio e quindi delle ragioni di coesione del partito”.
E nel farlo si rivolge ad un leader migliorista come Pajetta, per avviare a conclusione il percorso.

“In ogni caso, se veramente si è arrivati, come io credo, a questo punto di non ritorno, perché quanti di noi, che ambirebbero respirare un'altra aria politica di quella che spira nel Psi e nel Pci, non fanno con totale franchezza un esercizio di fantasia immaginando e poi dichiarando pubblicamente ciò che gli piacerebbe che avvenisse? Per esempio, la convocazione di un congresso super-straordinario per decretare la fine dell'era euro-‘comunista’? E poi, immancabilmente, una bella scissione fra l'ala continuista guidata dal compagno Cossutta e quella che, pur fra molti mugugni, decide di: a) abbandonare il centralismo democratico; b) avviare una rivalutazione delle esperienze delle socialdemocrazie e di farne il terreno per una proposta di governo alternativo; c) invitare conseguentemente, in vista di questo obiettivo, le sparse forze della sinistra italiana a riunirsi in un partito ‘veramente nuovo’ da chiamare, perché no, ‘Partito democratico del lavoro’?”


Avverrà, in effetti, ma molto in ritardo.

Con lo stesso esatto programma ma minore spessore nel 2003, Michele Salvati proporrà l’espulsione della corrente “non moderata” (Cossutta se ne va molto prima) dei DS per completare la trasformazione da partito vagamente ispirato alla socialdemocrazia richiesto da Carandini (i PdS e poi i DS) a partito senza forma, post-ideologico, che compete al centro convinto che lì ci sia ancora il baricentro della società. Un “progetto da sonnambuli”, come avevo scritto qui.

Ma anche qualcosa di diverso, in fondo: un progetto che nel dichiarare la completa rottura con il determinismo ottocentesco attribuito a Marx segue in forma fossile, senza saperlo, le stesse mosse di pensiero. Dichiara infatti, in ogni possibile circostanza, la propria legittimazione nell’essere “in linea con la storia”, “avanzato”, “moderno”.
Come se questo bastasse a se stesso.

Tutto bene.

Ma per fare cosa?

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