L’articolo
del conte Guido Carandini,
ex deputato PCI dal 1976 al 1982, esponente dell’importante ed antica famiglia
modenese dei Carandini su
La Repubblica del 22 agosto 1985, è
il primo che dà avvio al processo finale di revisione dell’impianto ideologico
del PCI: in sostanza l’inizio della fine.
Erano gli anni in cui dalla morte improvvisa di Enrico
Berlinguer la segreteria del partito era tenuta da Alessandro Natta nel pieno
dell’avvio delle politiche che oggi chiameremmo neoliberali e del regresso
delle politiche del welfare. Nel 1983 Craxi sale al governo e cresceva dentro
il partito la frattura tra chi intendeva proseguire l’orgogliosa dichiarazione
di alterità, almeno nella versione berlingueriana, e chi spingeva per una trasformazione
modernista. Cioè proponeva di inseguire i socialisti, come suggerito dai
cosiddetti “miglioristi” (Giorgio Napolitano, Gerardo Chiaromonte, Luciano
Lama, Napoleone Colajanni), mentre la sinistra ingraiana spingeva in direzione
opposta.
Il 9 e 10 giugno 1985, dopo una tornata elettorale
nella quale il Pci si era assestato, in lieve flessione, al 30,2% (mentre la DC
arrivò al 35%), si tenne il referendum abrogativo della manovra con la quale il
governo Craxi intendeva ridurre gli scatti di adeguamento all’inflazione da
pagare (“punti di contingenza”), ovvero limitare e poi abrogare la cosiddetta
“scala mobile”. Il Pci si mobilità da solo contro l’azione delle forze di
maggioranza e andò incontro ad una dignitosa sconfitta (54,3% contro 45,7%).
Il 5 luglio il segretario, Natta, convocò il Congresso
entro la primavera dell’anno seguente. Il dibattito fu molto acceso, con
interventi su “l’Unità” di Colajanni, Aldo Tortorella, Occhetto, Andriani,
Gaetano Arfè, Armando Cossutta, Luciano Ghelli, Corrado Vivanti, Paolo
Cantelli, Luciana Castellina, Lanfranco Turci fino agli operai della Piaggio e
dell’Alfa di Arese. Nel corso di questo dibattito emergono centrali alcuni
temi, come l’imprescindibile orizzonte europeo e l’orientamento verso le
socialdemocrazie.
Quattro anni dopo ci sarà la “svolta della
Bolognina” che avvierà il processo di scioglimento del Partito Comunista Italiano il 3 febbraio 1991.
Parallelamente al dibattito su L’Unità un altro giornale rilevante, per l’indirizzo politico della
sinistra avvia con questo articolo di Carandini un processo di revisione
critica della cultura e della posizione dei comunisti italiani. E lo fa con un
articolo che già nel titolo “La grande
illusione”, manifesta subito il suo carattere provocatorio ed aggressivo.
Carandini prende le mosse dal libro di Aldo Schiavone sulla storia del PCI
negli anni settanta, e mette immediatamente l’accento sul “fallimento del
disegno politico di Berlinguer” e sulla fine, quindi, del “viaggio dei
comunisti italiani intrapreso nel dopoguerra sotto la guida di Togliatti”.
Ovvero, come dice, epilogo della vicenda comunista in generale, e quindi
necessità di “porre mano alla costruzione di una forza politica nuova ‘al posto
del Pci’”.
Il motivo è il “vuoto di idee e di programmi” che dopo
le sconfitte seguite alla fine del compromesso storico, ovvero al biennio
1976-78, lo caratterizza.
Ma c’è una ragione più profonda secondo lui: bisogna
ammettere che l’impegno civile dei comunisti (di Schiavone e dello stesso
autore) “è stato sorretto per anni da una ragione arretrata rispetto al tempo storico in cui viviamo”.
Con questa potente (e direi proprio costitutiva della posizione della
sinistra) metafora spaziale, dunque identitaria (vedi la riflessione di Charles
Taylor in “La
topografia morale del sé”), Carandini chiude in pratica la partita. Se,
infatti, una ragione si dimostra
arretrata l’impresa che ne deriva non può che essere “votata all’insuccesso”
proprio “dalle stesse premesse dalla quali muove”. Le premesse sono per
l’autore connesse, cioè, a schemi di interpretazione della realtà che “si
andavano consumando” dall’inizio del secolo “nel più avanzato pensiero occidentale”.
Ecco dunque l’arretrato rispetto a cosa lo è (si tratta sempre di topografie, ovvero di
schemi fondati su confronti e relazioni): rispetto al pensiero occidentale.
Rispetto, cioè, a “nuove correnti di pensiero (filosofico, storico, economico e
politico)”, fondate sulla rivoluzione scientifica relativistica (esattamente,
come dice, “sotto l'impulso della rivoluzione scientifica nel campo della
fisica relativistica”), capaci di mettere in crisi i modelli precedenti. In
sostanza il primo positivismo, e storicismo, sul quale si innesta il pensiero
formatosi nel 1800.
L’attacco di Carandini (che fa riferimento
all’ambiente intellettuale nel quale l’economia neoclassica, il neopositivismo
al quale è strettamente legata, e le varie forme di pensiero “debole” e critica
della ragione seguite alle varie e anche diverse “svolte” novecentesche)
dichiara dunque “corroso” dal tempo il marxismo.
L’autore chiama del resto lo stesso Marx a sostegno
della sua tesi di caducità storica delle ideologie, utilizzando contro di essa
lo spirito critico che aveva rivolto contro le coeve teorie “borghesi” (ovvero
su Ricardo ed epigoni).
“E del resto questo suo destino non era già stato
forse anticipato dal concetto stesso di ‘storicità delle categorie economiche’
con il quale Marx aveva demolito le false certezze della borghesia del suo
tempo, mostrando i limiti storici tanto delle sue costruzioni teoriche quanto
del suo sistema di produzione? Se almeno questo insegnamento di Marx fosse
rimasto vivo e operante, avrebbe stimolato una riflessione diversa da quella
che si è attardata nel Pci sui temi della ‘rivoluzione’. Soprattutto dopo che
quelle russa e cinese avevano partorito regimi sideralmente distanti dalle pur
scarne anticipazioni che Marx aveva lasciato sulla società del futuro”.
La seconda lezione di Marx richiamata nel denso testo
di Carandini è il caposaldo stesso della proposta: l’unica via per la trasformazione di una formazione storica di
produzione è nello svolgimento interno delle sue contraddizioni (cit. “Il
Capitale”, Vol.1). In questa affermazione, piuttosto connessa con lo scientismo
del suo tempo e contemporaneamente rivolta come arma contro i competitori
politici, i Proudhon, in Bakunin, i Mazzini, per dirne alcuni, l’autore legge
invece la condanna senza appello a chi avesse ritenuto, negli anni settanta,
maturi i tempi del cambiamento, e quindi perseguibile una prospettiva
rivoluzionaria che ne fondasse la diversità.
La diagnosi della crisi del capitalismo negli anni
settanta (condotta a metà degli ottimisti anni ottanta, quando il paese cresce
al 2,5% e lo slogan della “Milano da bere” viene formulato), come crisi finale
di dissoluzione è definita “una fantasia non solo sciocca, ma anche
pericolosa”, ovvero infantile e basata su premesse culturali obsolete. Dunque
un errore, dal quale bisogna emendarsi, riparandolo: “aver appartenuto a quella
generazione, aver condiviso quella cultura e quelle fantasie, è stato un errore
gravido di conseguenze, alla riparazione del quale non è lecito sottrarsi”.
Il motivo per il quale attardarsi nell’idea che si
potesse cambiare il capitalismo, quando questo non stava crollando per suo
proprio moto, ma attraversava solo una congiuntura sfavorevole, ha impedito infatti
al Pci di dedicarsi ad una politica più seria e realistica. Ed ha eliminato
dalla scena politica effettiva le forze che questo rappresentava.
Insomma Carandini parla dell’accesso al potere.
Il tentativo del “compromesso storico”, nel quale si
cercava l’accesso al potere ma al contempo dichiarando di voler far cessare
quello stesso potere cui si chiedeva di partecipare e ci si dichiarava
“diversi”, è indicato qui come un “parto intellettuale” residuale. Ovvero come
il
“residuo
prodotto di quella razionalità classica ottocentesca che già Marx, nella sua
critica della borghesia, aveva iniziato a mettere in crisi. Un prodotto cioè
ancora di quella concezione del mondo che esigeva una risposta non soltanto ‘certa’
ma anche ‘immutabile’ a ogni possibile domanda, della natura come della storia”.
Nello spiegare questo passaggio Carandini mette infine
sotto accusa la pretesa di conservare una prospettiva rivoluzionaria in un
contesto che non lo è. Con un rovesciamento logico interessante, e dimostrando
di non essere lui stesso fuoriuscito dall’incantesimo del pensiero determinista
(anche di Marx, appunto), gli pare che il fatto che la dinamica propria di una
fase sia “non rivoluzionaria”, perché i meccanismi interni all’opera, mossi
dalla loro logica e dalla struttura dei rapporti, non sono orientati all’autosuperamento,
sia confutazione dell’azione del Pci che cerca una via di ‘fuoriuscita morbida’
dal capitalismo entro la cornice democratica. Questa ipotesi di Berlinguer (si
veda, ad esempio, gli articoli “austerità”,
del 1977), è per Carandini solo una “illusione”. Anzi, una vicenda “grottesca”
e spia di “un’ondata di fanatismo religioso” che ha il sopravvento sulla
ragione e sul buon senso di un terzo degli italiani.
La rivoluzione e la democrazia politica, del resto, si
combattono sul piano pratico. Mentre il Pci immaginava una via graduale, che
però portasse egualmente al socialismo, dal basso la strategia ingraiana di
potenziamento della democrazia di base (nelle fabbriche, nelle scuole, nei
quartieri) per poi ascendere nella rappresentanza del partito e nel compromesso
con gli altri si scontrava nella pratica con le rigidità organizzative e il
verticalismo (il cosiddetto “centralismo democratico”).
Dunque:
“La ‘base’
comunista, per quanto recalcitrante, ha sempre dovuto (e voluto) accettare il
pieno dominio dei vertici del partito con un misto di esaltante adesione e di
passiva rassegnazione. Questa passività dei quadri del partito nei confronti
del ristretto gruppo dirigente si ripeteva, sia pure con qualche attenuazione,
nell'ambito del gruppo parlamentare con effetti, però, ben più devastanti perché
si riverberava chiaramente sul ruolo del medesimo Parlamento. Cosicché lo
stesso Ingrao, ispiratore e teorico della più spinta ‘democrazia di base’ e
della esaltazione delle assemblee elettive, nel triennio ('76-'79) della sua
Presidenza della Camera, non riusciva ad attuare la più piccola riforma
regolamentare che togliesse la Camera stessa dalla penosa situazione di
subalternità rispetto alle decisioni delle segreterie di partito, non seconda a
nessuna quella comunista”.
Questa è l’esperienza, anche personale, che spinge
l’autore a denunciare l’autocratismo del vertice del Partito Comunista (in una
fase in cui premevano “i quarantenni”, di cui erano espressione Occhetto e in
seconda fila D’Alema), e lo spreco di energie come quelle, ad esempio, di
Napoleoni e Spaventa. E che lo spinge a dichiarare venuta meno l’illusione di
poter “inventare una nuova forma di rivoluzione basata non sulla forza ma sul
consenso”.
Nel seguito dell’articolo Carandini, non senza citare
il capo politico dei “miglioristi”, Giorgio Napolitano, spende parole per
riconoscere che l’approccio socialdemocratico, pienamente compatibile con la
democrazia politica al prezzo di non attardarsi con la “rivoluzione”, sia stato
capace di “trasformare la società nel suo insieme”
“in modo tale da
far dubitare che oggi Marx chiamerebbe disinvoltamente ‘capitalistiche’,
senz'altra specificazione, le strutture economico-sociali di alcuni fra i
maggiori paesi industrializzati dell'occidente. Noi abbiamo già assimilato nel
nostro modo di vita, senza rendercene conto, gli ‘elementi di socialismo’
(quelli sì che lo erano!) che, a partire dal laburismo inglese dell'immediato
dopoguerra, hanno penetrato le società capitalistiche, modificandone
profondamente la natura”.
Questo approccio socialdemocratico (che da allora,
Carandini non lo sa, proprio secondo l’idea iniziale che il socialismo tutto
sia “arretrato” sarà revocato in profondità, scavando sotto i piedi della sua
stessa proposta) diede enorme impulso attraverso l’azione pubblica alla
“socializzazione delle forze produttive”. Ottenendo di fornire supporto e
garanzia ai bisogni collettivi senza sacrificare i diritti individuali (ovvero
senza dittatura).
Ecco quindi la richiesta al gruppo dirigente (ovvero a
Natta quando chiama il congresso): abbandonare
lo stesso vocabolo “comunista” (“almeno in questa parte del mondo e nel
nostro universo culturale”). La storia infatti dirà, se gli esiti del comunismo
russo (siamo nel 1985, mancano quattro anni) e cinese “vi sarà veramente la
liberazione sociale degli uomini non solo dai vincoli del bisogno ma anche da
quelli del terrore e del dispotismo”.
E nel proporlo Carandini riprende in effetti l’asse
arretrato/avanzato e la metafora scientista (entrambi così marxiani, anche
senza rendersene conto): “Ma per noi, nel
bel mezzo di questa vecchia Europa, è un vocabolo ormai insensato, almeno
quanto lo è ‘alchimia’ per descrivere il compito di far avanzare la chimica e
la fisica nell' era atomica”.
Soddisfatto di aver chiarito, con la logica
impeccabile della scienza (o meglio, evocandone il potere), la necessità
storica di abbandonare il nome, Carandini si sofferma ora sul piano pratico. Il
nome contiene il germe del concetto di essere ‘diversi’, di volere qualcosa di
diverso dalla semplice gestione del potere e dalla partecipazione alla festa
capitalista. E questo è “uno dei motivi di orgoglio e quindi delle ragioni di
coesione del partito”.
E nel farlo si rivolge ad un leader migliorista come
Pajetta, per avviare a conclusione il percorso.
“In ogni caso, se veramente si è arrivati, come io
credo, a questo punto di non ritorno, perché quanti di noi, che ambirebbero
respirare un'altra aria politica di quella che spira nel Psi e nel Pci, non
fanno con totale franchezza un esercizio di fantasia immaginando e poi
dichiarando pubblicamente ciò che gli piacerebbe che avvenisse? Per esempio, la
convocazione di un congresso super-straordinario per decretare la fine dell'era
euro-‘comunista’? E poi, immancabilmente, una bella scissione fra l'ala
continuista guidata dal compagno Cossutta e quella che, pur fra molti mugugni,
decide di: a) abbandonare il centralismo democratico; b) avviare una
rivalutazione delle esperienze delle socialdemocrazie e di farne il terreno per
una proposta di governo alternativo; c) invitare conseguentemente, in vista di
questo obiettivo, le sparse forze della sinistra italiana a riunirsi in un
partito ‘veramente nuovo’ da chiamare, perché no, ‘Partito democratico del lavoro’?”
Avverrà, in effetti, ma molto in ritardo.
Con lo stesso esatto programma ma minore spessore nel
2003, Michele Salvati proporrà
l’espulsione della corrente “non moderata” (Cossutta se ne va molto prima) dei
DS per completare la trasformazione da partito vagamente ispirato alla
socialdemocrazia richiesto da Carandini (i PdS e poi i DS) a partito senza
forma, post-ideologico, che compete al centro convinto che lì ci sia ancora il
baricentro della società. Un “progetto da sonnambuli”, come avevo scritto qui.
Ma anche qualcosa di diverso, in fondo: un progetto
che nel dichiarare la completa rottura con il determinismo ottocentesco
attribuito a Marx segue in forma fossile, senza saperlo, le stesse mosse di
pensiero. Dichiara infatti, in ogni possibile circostanza, la propria
legittimazione nell’essere “in linea con la storia”, “avanzato”, “moderno”.
Come se questo bastasse a se stesso.
Tutto bene.
Ma per fare cosa?
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