Il mio amico Roberto Buffagni ha una ipotesi circa i
fatti di Macerata, nelle Marche, in cui si è consumato un doppio orrendo fatto
di cronaca: alcuni criminali di origine nigeriana, dediti a quanto sembra a
spaccio di stupefacenti, avrebbero ucciso una povera ragazza anche essa dedita
all’uso, dunque una cliente, e poi, forse per occultarne il cadavere,
l’avrebbero fatta a pezzi e abbandonata in campagna. Successivamente un
criminale italiano, a scopo di vendetta razziale, ha sparato su passanti di
colore e si è quindi consegnato, avvolto in un tricolore.
Le indagini non sono concluse, e la dinamica non è completamente
confermata, ma in alcune versioni emerge l’ipotesi, sposata da Buffagni nel suo
pezzo, che l’omicidio sia stato in qualche modo una forma pervertita e corrotta
di secolarizzazione (ovvero di utilizzo a fini economici di riti tradizionali)
delle forme religiose tradizionali dell’area di provenienza degli attori.
Certo, come sostiene
Giorgio Cingolani, professore a contratto dell’università di Macerata ed
antropologo, è del tutto prematuro connettere questi pochi fatti a ritualità
pervertite o, come dice, a “personalizzazioni del rito ad opera di soggetti
specifici”, ed è certamente improprio immaginare che questi fenomeni, dove si
danno, siano di massa o “tradizionali”.
Al momento
le indagini, quando l’udienza di convalida non si è neppure tenuta, non
confermano, né escludono queste ipotesi, ma, come scrive la Repubblica: “restano invece aperti tutti i dubbi sul
movente dell'omicidio: dal tentativo di stupro finito male al sacrificio
rituale, ipotesi che gli inquirenti non escludono ma per le quali, al momento,
non hanno prove”.
Tra l’altro giova ricordare che la Nigeria,
il più popoloso stato africano, settimo al mondo, è sede di antica
civilizzazione e dispone di un PIL di tutto rispetto (435 miliardi di dollari),
maggiore di quello del Sud Africa; dal punto di vista religioso per lo più la
popolazione è cristiana e mussulmana, solo l’1,4% è animista. La Nigeria, sin
dal 1200 d.c. si specializza nell’essere un terminale commerciale essenziale
tra il nord-africa (e poi gli occidentali) e l’Africa profonda, nel traffico
degli schiavi e nell’economia di saccheggio che ne consegue. Dal 1600 gli
occidentali fondano porti dedicati a tale tratta che diventa gradualmente
egemone nel 1800 (in particolare diretta alle americhe). Dal 1901 è un
protettorato e poi una colonia inglese, nel 1960 diviene indipendente e
federale (36 stati). L’economia nigeriana è la prima del continente, la 26° nel
mondo. Il settore agricolo determina il 22% del PIL, mentre il settore
manifatturiero il 7%, il settore petrolifero determina il 15% del PIL ed il
terziario il 52% (banche, cinema e telecomunicazioni).
Isaac Newton |
L’unica cosa certa di questa vicenda è che una ragazza
è morta, alcuni immigrati hanno tentato di occultare il cadavere,
dissezionandolo, e un italiano in preda ad esaltazione ha tentato di fare
giustizia sommaria su altri innocenti scelti a caso.
La vicenda mostra dunque un tessuto di violenza che
attraversa la nostra società, messa sotto tensione dagli effetti di diversi
sradicamenti e sul quale ci dovremmo interrogare.
Ma è anche vero, per quanto marginale e certamente non
di massa, che in alcune aree centroafricane lo stesso sradicamento e troppo
rapida secolarizzazione, sotto la spinta dell’esposizione senza filtri ai
mercati ed al potere della tecnica (e del capitale), sta provocando fenomeni di
perversione delle forme rituali tradizionali. Ci sono associazioni, tra cui la
ALCR (questa la
sua pagina Facebook), attiva in Gabon, che denunciano coraggiosamente gli
omicidi rituali, spesso condotti per banali ragioni di successo economico in un
contesto di elevata frammentazione etnica (circa 40 gruppi) e di religioni
animiste (20% della popolazione) o sincretiche come il Bwiti, anche se il 75%
della popolazione è identificata come cristiana. Si tratta comunque di poche
centinaia di casi, spesso ricondotti a non meglio precisati “cultisti” (questo
un articolo nigeriano), ma sono spia del disagio di una troppo rapida, e
subalterna, trasformazione.
ALCR |
Non ci sono dunque prove che l’episodio di Macerata
sia connesso con i crimini che a volte si verificano nei paesi di provenienza e
che le forze dell’ordine locali, le chiese e le religioni locali, e le associazioni
combattono con vigore.
Ma il dibattito con Buffagni si è egualmente
sviluppato come se tale ipotesi fosse
possibile. In questo
link la sua ripresa su Sinistrainrete.
E in essa la reazione di due lettori, Eros Barone e Mario Galati, che con
diverse sfumature richiamano al primato dell’economico di marxista memoria. In
particolare Galati accusa la conversazione che è linkata nell’articolo e cui
rinvio, di “scorrere tutta entro la dimensione pulsionale e sacrale dell’uomo”,
fino a concepire la storia stessa solo come “storia religiosa”, ignorando o
subordinando la “produzione e riproduzione della vita materiale”. In particolare,
con riferimento al mio dire, si chiede se “constatare la persistenza di
pulsioni primordiali e del senso del sacro possa spiegare la storia?” e,
ancora, se “stabilire il nesso tra razionalismo e sviluppo capitalistico
equivalga forse a rigettare il pensiero scientifico, in quanto semplice statuto
disciplinare, paradigma convenzionale, o che dir si voglia?” Non mi è
immediatamente chiaro cosa significhi “pensiero scientifico come statuto
disciplinare, o paradigma convenzionale”, in quanto il pensiero scientifico è
una sorta di habitus mentale e un insieme molto largo e comprensivo di pratiche
sociali dotate di meccanismi verbali di inclusione ed esclusione; una cosa che
va molto oltre lo statuto di una o più “discipline” e di convenzioni.
Attraversa i “paradigmi” (nel senso di Thomas Khun) e non ne è incluso o
rappresentato.
Ma la domanda sarebbe qui se il razionalismo occidentale sia, o meno, connesso con lo sviluppo
storico del capitalismo, e se il riconoscimento di questa connessione debba
portare direttamente a rigettare il pensiero scientifico, evidentemente in
favore del primato di pulsioni o di sacralità (o, come dice Barone, del
comunitarismo etnico). E, con le parole del professore di filosofia Eros
Barone, al netto degli insulti o dei posizionamenti identitari, riassunti
nell’etichetta di “dialettica e materialismo storico” ed ancora più
nell’evocazione di passaggio dell’inferno (cui si contrappone simbolicamente un
paradiso evidentemente rappresentato dal comunismo), se si debba alla fine parlare
solo “dei rapporti di proprietà”, ed a questi ricondurre il fondo del conflitto
e di ogni differenza.
Lo schema di Barone è molto tradizionale: è alla fine l’imperialismo
che genera, alleva e fa prosperare la “prole mostruosa” del “bellicismo espansionista,
del razzismo differenzialista, e del comunitarismo etnocentrico”. Prole che può
essere sconfitta solo da un “vasto fronte popolare” in grado di fare
l’operazione esattamente inversa a quella condotta dal capitale: unire ciò che questo vuole dividere
(proletariato autoctono e immigrato), e dividere
ciò che vuole unire (borghesia e proletariato). In altre parole è compito
dei comunisti riportare lo scontro sul piano delle differenze di classe,
proletari contro borghesi in relazione alle strutture di produzione imposte dal
capitale, rigettando come false tutte le differenze di tipo etnico o culturale.
Come si possa fare, senza farsi carico di comprendere il punto di vista e la
percezione delle classi popolari, e continuando a ritenere di avere in toto il
monopolio della Verità, mi sembra difficile da immaginare.
In questa direzione va comunque anche la richiesta di
Galati di trovare piuttosto direzioni nelle quali agire, senza restare
inchiodati alle carenze delle dimensioni primordiali e l’insufficienza di
precarie “civilizzazioni”.
Gabon, articolo |
Colgo l’invito a parlare
prima di tutto delle condizioni materiali: anche se il fenomeno è
disuniforme quanto ad impatto quantitativo (ma tende, per le modalità stesse
che diremo, a concentrarsi, risultando differentemente percepito per i diversi
gruppi sociali ed areali), la dinamica delle emigrazioni ed immigrazioni
determina una complessiva ‘economia politica’ che è caratterizzata da
importanti fenomeni di corruzione degli assetti sociali e culturali, di
gestione come oggetti d’uso dei corpi estratti, e di potenziamento dello
sfruttamento a causa dei normali meccanismi di creazione del valore di scambio.
Per comprenderlo bisogna però fare prima una mossa, che ha qualcosa a che fare
con il discorso che faremo su razionalismo e capitalismo: smettere di vedere le
‘economie povere’ come un vuoto. Una dimensione eguale alla nostra, ma con meno
denaro. Se si inquadra, facendo uso di cecità educata da economisti, in questo
modo l’emigrazione e la stessa trasformazione dell’ambiente di provenienza dei
flussi umani immigrati alla fine è solo questione di razionalizzazione e
sviluppo.
Propongo una diversa ipotesi interpretativa: che,
cioè, sia più utile inquadrare il fenomeno come un progressivo allargamento
dello spazio dominato e controllato dal mercato, e per esso dalla finanza,
nell’intreccio di due “economie politiche” reciprocamente rimandantesi. Quella
che avevo
chiamato “economia politica
dell’immigrazione”, la nostra, che fa scaturire una insaziabile e crescente
spinta estrattiva e insieme di trasformazione (spingendo l’uomo a ripensarsi
come ‘forza lavoro’, adattandosi alla relativa disciplina) che via via incorpora
‘risorse’ (umane) per fornire risposta ad una domanda di lavoro debole e
disciplinato, insaziabilmente prodotta dall’attuale economia interconnessa e
finanziarizzata (allo scopo di tenere in movimento la macchina
deflazionaria contemporanea), nella quale tutti sono sempre in concorrenza con tutti sotto il pungolo del
capitale mobile e continuamente valorizzante. È essenziale in questo senso che
il meccanismo del recupero di margini di valorizzazione, attraverso la
riduzione costante dei costi (in primis del costo più ‘inutile’, quello del
lavoro), sia sempre in movimento; sia sempre un poco più veloce del paese
vicino. Quindi è essenziale che il lavoro sia un poco più debole, un poco più
disciplinato, giorno dopo giorno, anche a costo di espellere e sostituire chi
non abbia la possibilità materiale di piegarsi, o non voglia. Il ricatto
davanti al quale ci troviamo tutti è semplicemente che l’unica alternativa, in
condizione di piena mobilità dei capitali, è che ad andarsene siano invece i
processi produttivi. Dunque non resta che importare forza lavoro sempre più
debole, per rendere debole quella che c’è, o lasciare tutti a casa. L’effetto
di questa dinamica, trascinata dalla valorizzazione differenziale nella metrica
della finanza che mette in contatto e costringe alla competizione il mondo
intero, è che è nelle aree del lavoro debole che si concentra, in diretto
contatto con coloro i quali sono sfidati e pungolati a ‘maggiore efficienza’
(che normalmente significa minori compensi a parità di lavoro produttivo),
l’attrazione di ‘forza lavoro’ sostitutiva. Il processo è strutturalmente
simile per i lavoratori-raccoglitori dei pomodori nelle piane pugliesi, o
campane, per i lavoratori-manifatturieri nei cantieri navali o nelle fabbriche
e fabbrichette in subappalto disseminati nelle nostre periferie industriali,
per i lavoratori-domestici che sono nelle nostre case e per i
lavoratori-professional che sono messi in competizione con le piattaforme.
Ha dunque ragione chi dice che il problema è nel rapporto di forza con il
capitale, ma nello stesso momento ha torto: perché nel dirlo non si fa carico
davvero della materialità del problema nei luoghi in cui si determina.
Questa dinamica di attrazione differenziale,
ulteriormente accentuata dal meccanismo stesso dell’attrazione (influenzato dal
percorso, come dicono gli economisti, e quindi dalla preesistenza di reti di
relazione, strutture sociali di accoglienza, “diaspore”) che tende ad
accrescere la presenza dove è già maggiore, esercita obiettivamente una
pressione al disciplinamento che è letto come oggettivamente violento (anche se
la fonte non è nei corpi dei concorrenti per il lavoro debole ma in ciò che lo
rende tale). Nessuno può riaprire una relazione sentimentale con le classi
popolari se non comprende questa dinamica, se si limita intellettualisticamente
a qualificare come brutti, sporchi e cattivi, e razzisti, coloro che se ne
sentono vittime.
Il subcomandante Marcos |
Nel suo testo “la
IV guerra mondiale è cominciata”, Rafael Sebastián Guillén Vicente, noto
come “il subcomandante Marcos”, denuncia questa situazione in questo modo:
“Il risultato di questa guerra di conquista mondiale è
una grande giostra di milioni di migranti in tutto il mondo. ‘Straniere’ nel
mondo ‘senza frontiere’ promesso dai vincitori della III Guerra Mondiale [ndr
la guerra fredda], milioni di persone subiscono la persecuzione xenofoba, la
precarietà del lavoro, la perdita dell'identità culturale, la repressione
poliziesca, la fame, il carcere e la morte. ‘Dal Rio Grande americano allo spazio
Schengen 'europeo', si conferma una doppia tendenza contraddittoria: da un
lato, le frontiere si chiudono ufficialmente alle migrazioni di lavoro, per
l'altro, interi rami dell'economia oscillano tra l'instabilità e la
flessibilità, che sono i mezzi più sicuri per attrarre la manodopera straniera’
[Alain Morice, op, cit.]. Con nomi diversi, subendo una differenziazione
giuridica, dividendosi una eguaglianza miserabile, i migranti o rifugiati o
delocalizzati di tutto il mondo sono ‘stranieri’ tollerati o rifiutati.
L'incubo della migrazione, quale che sia la causa che la provoca, continua a
rotolare e a crescere sulla superficie del pianeta. Il numero di persone che
sarebbero di competenza dell'Alto commissariato delle Nazioni unite per i
rifugiati [Acnur] è cresciuto in modo sproporzionato dai due milioni del 1975 a
più di 27 milioni nel 1995. Distrutte le frontiere nazionali [dalle merci], il
mercato globalizzato organizza l'economia mondiale: la ricerca e il disegno di
beni e servizi, così come la loro circolazione e il loro consumo sono pensati
in termini intercontinentali. In ogni
parte del processo capitalista il ‘nuovo ordine mondiale’ organizza il flusso
di forza lavoro, specializzata e no, fin dove ne ha bisogno. Ben lontani dal
subire la ‘libera concorrenza’ tanto vantata dal neoliberismo, i mercati del
lavoro sono sempre più condizionati dai flussi migratori. Quando si tratta di
lavoratori specializzati, e anche se questa è una parte minore delle migrazioni
mondiali, questo ‘travaso di cervelli’ rappresenta molto in termini di potere
economico e di conoscenze. Però, si tratti di forza lavoro qualificata o
semplice manodopera, la politica migratoria del neoliberismo è più orientata a
destabilizzare il mercato mondiale del lavoro che a frenare l'immigrazione.
La IV Guerra Mondiale [il riassestamento neoliberale], con il suo processo di distruzione/spopolamento e
ricostruzione/riordinamento provoca lo spostamento di milioni di persone.
Il loro destino sarà di continuare ad essere erranti, con il loro incubo sulle
spalle, e di rappresentare, per i lavoratori impiegati nelle diverse nazioni
una minaccia alla loro stabilità nel lavoro, un nemico utile a nascondere la
figura del padrone, e un pretesto per dare senso all'insensatezza razzista che
il neoliberismo promuove”.
Ma questa “economia politica” si affianca a quella “dell’emigrazione”, la
“ricostruzione/riordinamento” si affianca alla “distruzione/spopolamento”.
Perché le persone che sono ‘aspirate’ in occidente dalla domanda di lavoro
debole, alimentano anche il trasferimento di poveri surplus monetari che insieme
alla trasformazione dei pochi settori produttivi in industria da esportazione
estranea al tessuto locale e dipendente dai capitali esteri, attraggono e
corrompono, disgregandole, aree ancora relativamente esterne al circuito della
valorizzazione, contribuendo a “monetizzarle”, ovvero a ricondurle entro il
circuito astratto e impersonale del capitale e della sua logica. In qualche
misura questo paradosso è stato oggetto di analisi della tradizione marxista
sin dal suo avvio, e delle esitazioni dei suoi padri.
Questo processo va infatti inteso come
“razionalizzazione”, ed alfine giudicato una sia pure dura necessità (come
inclinava a pensare il vecchio Engels)? Oppure un non necessario sacrificio, un
calice che potrebbe anche passare, se si avesse il tempo di prendere il proprio
percorso (come inclinava a pensare il vecchio Marx, ma non il giovane)? Ha
ragione lo zapatista e neo-anarchico Marcos o il marxista Negri?
In altre parole, questa ‘economia’ che, come avevamo
scritto, corrompe in basso, gestisce in
mezzo e sfrutta in alto è senza alternative, perché in fondo coerente con
la direzione della Storia? O è solo coerente con quelli che chiamavo i “campi
sentimentali” dei millennials (e dei loro profeti), che individualisticamente
vedono la mobilità attraverso le frontiere come liberazione?
Ma la dura realtà, ben oltre gli immaginati campi del
desiderio, o le palingenesi storiche, parla del semplice fatto che è la piena libertà di movimento dei capitali, nelle attuali
condizioni e infrastrutture tecnico-legali (che significa anche sistema delle “città globali” di cui parla Sassen), che porta
necessariamente, insieme alla libertà di spostamento delle merci (nelle
condizioni della rivoluzione informatica), a quella insostenibile segmentazione
delle catene produttive nei settori tradabili (o mobili) su lunghe filiere
logistiche disegnata espressamente per
massimizzare lo sfruttamento dei fattori non mobili (ambiente e lavoro), i
quali restano al contrario localmente sempre abbondanti in senso relativo. E’
in questo contesto generale che interviene la libertà di movimento anche dei
lavoratori, per tenere sempre abbondante il fattore poco mobile, dunque per
tenerlo in condizioni di subalternità.
In altre parole, se nei settori in cui le produzioni sono
rivolte a mercati globali (dunque in cui le merci, ovunque prodotte, possono
essere vendute su ogni mercato alle stesse condizioni), si riesce a garantire anche
la piena mobilità dei fattori produttivi capitale e conoscenza, si ottiene che
questi possano andare sistematicamente a rintracciare quelle condizioni locali
di relativa abbondanza del fattore mancante (lavoro ed ambiente) in modo che il
saggio di sfruttamento complessivo sia massimo. Ciò a fronte del ricatto di non
collocarsi lì ma andare dal secondo migliore e via dicendo.
L’immigrazione, dunque
la resa in condizione mobile anche del lavoro, adempie precisamente questa
funzione; a questo punto il capitale può generare ovunque le desiderate
condizioni di inflazione (e quindi debolezza) del fattore che gli manca per
valorizzarsi.
Si tratta di un meccanismo ovvio e di semplicissima e materiale
geometria, all’opera da secoli e del tutto noto a Marx:
«Il progresso industriale che segue la marcia
dell'accumulazione, non soltanto riduce sempre più il numero degli operai
necessari per mettere in moto una massa crescente di mezzi di produzione,
aumenta nello stesso tempo la quantità di lavoro che l'operaio individuale deve
fornire. Nella misura in cui esso sviluppa le potenzialità produttive del
lavoro e fa dunque ottenere più prodotti da meno lavoro, il sistema capitalista
sviluppa anche i mezzi per ottenere più lavoro dal salariato, sia prolungando
la giornata lavorativa, sia aumentando l'intensità del suo lavoro, o ancora
aumentando in apparenza il numero dei lavoratori impiegati rimpiazzando una
forza superiore e più cara con più forze inferiori e meno care, l'uomo con la
donna, l'adulto con l'adolescente e il bambino, uno yankee con tre cinesi. Ecco
diversi metodi per diminuire la domanda di lavoro e rendere l'offerta
sovrabbondante, in una parola per fabbricare una sovrappopolazione. ...
L'eccesso di lavoro imposto alla frazione della classe salariata che si trova
in servizio attivo ingrossa i ranghi della riserva aumentandone la pressione
che quest'ultima esercita sulla prima, forzandola a subire più docilmente il
comando del capitale» (Il Capitale, Libro, I, 7,25)
Questo docile comando del capitale (che, giova
ricordarlo, non è persona ma meccanica) trasmette, attraverso la connessione
indotta dai flussi di merci, denaro e persone (e, perché no, armi), i suoi
effetti di corruzione attraverso la razionalizzazione e la divisione tra
deboli. Questa corruzione si manifesta sia nei luoghi di estrazione sia in
quelli di ricollocamento, dunque bisogna evitare entrambi gli errori: quello di
considerare che se la lotta tra poveri favorisce lo sfruttamento degli uni e
degli altri, allora bisogna negare che ci sia competizione, e quello di reagire
solo difendendosi dai poveri più poveri.
Trovare un corso di azione non è facile, e per farlo
abbiamo bisogno delle più rilevanti forze che siamo in grado di mettere in campo
e dello Stato. Dobbiamo definire la nostra responsabilità, verso noi stessi e
verso l’umano.
Samir Amin |
L’economista marxista Samir Amin, in “La
crisi”, del 2009, sottolinea la necessità di combattere quella tendenza
intrinseca del capitalismo, ovvero del meccanismo di creazione del valore come
differenziazione ed accumulazione, che crea periferie, schiacciandole. La
macchina produttiva fa dell’uomo e della natura risorse, costringendolo nel
tempo lineare e razionalizzato, misurabile, della scienza e con ciò ad
alienarlo (si veda anche Lohoff, qui).
Amin, già nel testo del 1973, “Lo
sviluppo ineguale”, sostiene che in fondo il modo di produzione
capitalista, che è interpretato come una
forma storica creatasi in occidente in un contesto particolarmente predatorio,
e di qui dispiegatasi nel resto del mondo travolgendo altre forme di
organizzazione sociale (tra le quali le promettenti forme di protocapitalismo
orientali, più lente e molto meno individualiste), lungi dall’essere una
necessità storica (si può leggere su questo anche l’ultimo
Marx) esprime invece una forma
di razionalità specifica, connaturata ai suoi propri rapporti sociali ma
anche limitata da questi. Le caratteristiche essenziali del modo di produzione
capitalista (la generalizzazione della “forma-merce”, l’assunzione di tale
forma da parte della “forza-lavoro”, quindi la reificazione
e la proletarizzazione dell’uomo fatto produttore di merci, la finalizzazione
ad essa delle attrezzature produttive tutte), si ritrovano peraltro intatte
anche in molte forme di esperienza socialista reale, che è quindi un
“capitalismo senza capitalisti”.
In altre parole, se entro il modo di produzione
capitalista, fino a che si resta entro la sua logica, appare alla fine comunque razionale, e quindi
invincibile, il calcolo economico e la competizione, con essa diventano anche inevitabili i rapporti
sociali che esso determina (o meglio, che lo fondano); con la sua logica
viene anche una specifica forma di gerarchia sociale. Comprendendo il
capitalismo, invece, come figura storica (e non sopra-storica)
diventa possibile accedere ad un piano di critica più profondo. Il calcolo economico, indiscutibile sul
piano della valorizzazione del valore (e quindi della sua accumulazione, nel
contesto dei rapporti sociali dati), diventa irrazionale se si tiene al centro
il principio di una altra socialità: se la ricerca dell’autonomia porta a porre
al centro la natura e la società tutta. Il calcolo economico, come scrive nel
1973 Amin, diventa allora riconoscibile come “irrazionale dal punto di vista
sociale”.
Allora come si esce dalla trappola dell’intreccio
delle due “economie politiche” (che possono anche essere scalate nel rapporto
intraeuropeo tra paesi ‘arretrati’ come il nostro e ‘locomotive’ come la
Germania, che estrae e reinserisce a fini di disciplinamento le nostre “risorse
umane”)? Ovvero dalla trappola del sottosviluppo che si proietta su tutto il
pianeta? La condizione per uscire dalle condizioni di “sottosviluppo” (ovvero
da forme di organizzazione sociale, prima che economiche, rese subalterne e
funzionalizzate da una logica esterna nella
quale possono solo perdere sempre), è dunque necessariamente di uscire
anche dalla “mondializzazione capitalistica”. Dove è il secondo termine ad essere
qualificante: di “sganciarsi”, dunque.
Ma una parte non secondaria dello “sganciamento” è
concettuale: riconoscere che l’illuminismo, con tutti i suoi meriti che non si
negano, è anche il progetto di instaurare il capitalismo. Precisamente di
insediare, al posto delle forme sociali precedenti, ormai disfunzionali
(diagnosi che, come ovvio, autori come Burke, De Maistre ed altri contestano),
una nuova società, fondata sulla ragione, anziché sulle consuetudini sociali e
le forme di vita consolidate e immersive; una società capace di determinare in sé l’emancipazione dell’individuo.
Individuo che quindi deve essere libero di operare, nella cornice di leggi, nel
“modo economico” (ovvero entro l’ambiente competitivo dei “mercati”) e di
scegliere attraverso la forma politica della democrazia (anche essa individuale,
in qualche modo nella forma di un “mercato politico”). Ma come “i due versanti
del progetto sono entrambi legittimati ricorrendo alla Ragione”, così questo si
autodefinisce come “instaurazione di una Ragione trans-storica e definitiva –
la fine della storia, dopo una preistoria priva di ragione” (Amin, p.77). Questa è la radice ideologica della
rivoluzione borghese dalla quale anche i padri del marxismo (in particolare
quelli che camminano nelle orme di Engels) hanno fatto fatica a vedere, e
quindi a liberarsene (nell’unico modo in cui ci si libera di una
idea: capirla).
Veniamo ora al punto che ci consentirà di rileggere la
discussione con Buffagni in modo diverso: proprio per Samir Amin parte della
rivoluzione deve interessare il mondo tradizionale agricolo, nel quale è
impegnato ancora la gran parte dell’umanità (e la cui distruzione provoca le ondate migratorie). Se si guarda
con attenzione si vede che l’agricoltura industrializzata del nord attiva un
meccanismo di drenaggio strutturale, per il quale i profitti del capitale
impiegato dagli agricoltori vengono sistematicamente intercettati dai segmenti
dominanti del capitalismo industriale (la rete distributiva e di
trasformazione) e finanziario (tramite il meccanismo del debito), situati
necessariamente a monte, invece l’agricoltura povera del sud resta intrappolata
in ancora più aspre condizioni di dominazione (dal capitale internazionale), e
tanto più si modernizza tanto più espelle individui ormai inutili.
Ancora il subcomandante Marcos:
“La IV Guerra Mondiale sul terreno rurale, per
esempio, produce questo effetto. La modernizzazione rurale, che i mercati
finanziari esigono, punta a incrementare la produttività agricola, però quel
che ottiene è distruggere le relazioni sociali ed economiche tradizionali.
Risultato: esodo massiccio dai campi alle città. Sì, come in una guerra.
Intanto, nelle zone urbane si satura il mercato del lavoro e la distribuzione
diseguale del reddito è la ‘giustizia’ che spetta a coloro che cercano migliori
condizioni di vita”.
Alla fine l’auspicata, dai fautori dello sviluppo, modernizzazione
accelerata dell’agricoltura del sud creerebbe quindi, nel medio termine,
eserciti immani di “inutili” come effetto della semplice logica propria della
valorizzazione. Gli ‘inutili’ saranno però anche sradicati culturalmente, e
costretti violentemente entro una logica del valore che non comprendono.
Dunque se bisogna che lo sviluppo (in quanto ‘sociale’
ed ‘umano’, e non ‘economico’) sia inclusivo e non escludente, bisogna anche che
a lungo sopravviva un’economia contadina effettiva, cosiddetta “di
sussistenza”, i cui rapporti con “i mercati” restino protetti e regolati. La
prima forma di rivoluzione in molte parti del mondo è dunque il diritto
all’accesso alla terra (anche superando le forme gerarchiche tradizionali,
rivolte alla creazione di élite estrattive più che tributarie). Per tornare all’esempio
della Nigeria, il più ricco paese africano (soggetto come tutti alle dinamiche
estrattive del capitalismo contemporaneo), e quello che tutto sommato dalla
decolonizzazione ad oggi ha conservato la sua unità politica, le risorse minerarie
e la connessione con l’economia internazionale passano entrambe a vantaggio del
sud cristiano, lasciando isolato il nord mussulmano nel quale opera il Boko
Haram e dal quale muovono due milioni e mezzo di sfollati, con quindicimila
richieste di asilo in Italia nel 2015 e una tratta di giovani donne molto ben
organizzata. Le rotte nigeriane (vedi qui) partono dai porti
costieri, hanno un nodo nella città del nord Kano (4 ml di abitanti), e di lì
transitano ad Agadez, nel basso Sahara, di qui in tre tappe si arriva alla
città-prigione libica di Sabha e infine a Tripoli. La politica economica del
governo nigeriano è orientata agli investimenti stranieri, concentrati su
industrie di esportazione (anche verso il resto del continente) ed una
importazione interamente rivolta ai consumi distintivi di imprenditori, mercanti,
alta burocrazia. Il petrolio (che vale il 90% delle esportazioni, e nel quale
opera l’ENI) ha determinato la distruzione ambientale di vaste zone e l’incremento
dei prezzi con conseguente esodo rurale e concentrazione di immense masse in
slums suburbani. Risultano al 2010 il 20% degli addetti al settore primario (ca
40 milioni) e il 10% di disoccupazione maschile (50% femminile).
Si tratta quindi di una sfida complessa e
multidimensionale, per la quale bisogna fare bene attenzione a non confondere “cosmopolitismo” (borghese) con “internazionalismo”
(delle lotte nelle condizioni locali). Cioè di non perdere di vista la logica
dell’uniformazione gerarchica, sotto un’unica Ragione (quella della legge del
valore), propria di una oligarchia che esercita una sorta di “imperialismo
collettivo”, la cui meccanica si nutre di una spontanea solidarietà tra
frammenti “nazionali” che gestiscono un sistema mondiale di fatto.
Ma questa dinamica, dell’intreccio tra due ‘economie
politiche’ nelle quali gli uomini vengono estratti e funzionalizzati alla
logica della valorizzazione astratta resta strettamente connessa con le
infrastrutture concettuali della modernità, in cui il loro “lavoro concreto” si
fa “astratto” e ricondotto a metriche che espellono, non trovandovi più posto,
le altre dimensioni della vita, riducendole o colonizzandole. Tra queste il tempo astratto, lineare ed omogeneo, e
il relativo spazio. Si tratta di vere
e proprie infrastrutture concettuali messe a punto, in un processo coestensivo
alla trasformazione della società e l’estendersi delle reti commerciali e di
capitale, e delle relative tecniche, che sono state messe a punto nella lunga
evoluzione della rivoluzione scientifica, tra il 1500 ed il 1700. Da allora il
tempo che conta è quello misurabile e la misura è in esatto rapporto con la
produzione di merci e con la possibilità del salario e del profitto.
Ogni lavoro, sempre e di chiunque, è quindi la
riduzione del tempo ad una quantità puramente astratta e reificata di tempo
speso, che rende scambiabili tra di loro i relativi prodotti. Cioè il ‘lavoro’ in quanto astrazione forma la sostanza
del valore, nella misura i cui esso incorpora nel suo stesso concetto la misura
nel tempo astratto. In altre parole, il lavoro non crea il valore in modo ovvio
e banale, come il panettiere fa il pane in modo tale che il cumulo di pane
finisca per rappresentare, in rei, il lavoro ormai trascorso, dunque “morto”; al
contrario, misurare il pane come prodotto di un “tot” di lavoro, determinando
rispetto ad esso il suo valore, presuppone quella che Lohoff chiama
“l’astrazione di un’astrazione”: l’esistenza, cioè, di un concetto di
tempo, ordinato, astratto e lineare, che separa la vita stessa in sfere
distinte, e che sarebbe stato inattingibile per una persona prima della
modernità. Non era ‘lavoro’ nel nostro senso quel che si svolgeva, ma parte
inseparabile degli obblighi, delle relazioni e degli affetti, che costituiva la
persona stessa. Parte, cioè, del suo ruolo nel mondo; era, come dice:
intimamente legato alla totalità della sua esistenza (si può leggere in proposito
“La
nozione di persona”, di Marcel Mauss).
Ora, la tesi di Buffagni è, in fondo, questa: che le persone, dei criminali certamente
ma anche degli alienati perché incapaci di sopportare la reificazione delle
loro vite, che hanno condotto l’azione
orrenda di Macerata si possano
interpretare come disadattati alla forma di secolarizzazione che viene imposta
dalla nostra società (anche nella ‘economia politica dell’emigrazione’,
anche qui,
dalla quale sono fuggiti, per ricadere in quella ‘dell’immigrazione’). E che la
loro rozza reazione sia di secolarizzare malamente la loro cultura, piegandone
i riti alle esigenze pervertite che trovano nell’oggi.
Sia vero o meno che ciò che è fattualmente accaduto a
Macerata corrisponda a questa ipotesi, essa è in linea generale possibile.
Quel che dunque nel dialogo con la lettura
del fatto come emergere di un profondo tenebroso non domesticato (sia nel
criminale nigeriano sia nell’italiano), e come un fallimento della cultura e
delle istituzioni, di Buffagni, mi pare quindi da rimarcare è che può esservi
incluso il fatto che l’uomo sfugge al razionale e si ancora nei riti. L’uomo è
molto di più, come dice
Sahlins; e pensare altrimenti è il “grosso sbaglio” dell’idea occidentale di
natura umana. In altre parole, con i poveri mezzi a disposizione i disgraziati
attori della vicenda urlano che ci sono dei nessi più larghi che li
costituiscono, che loro guardano e si riconoscono, ovvero fondano la loro vita,
in un cosmo più ampio. La perversione dei criminali nigeriani è di immaginare
mezzi creati in un contesto animista per ottenere obiettivi che solo
l’adattamento alla metrica del valore occidentale può dare, e di forzare per
questo i mezzi, trascinandoli fuori del loro senso. La perversione del
criminale italiano è di capire il gesto dei primi come lesione di una
immaginaria purezza, e di ricondurla a simboli per i quali spendere sangue.
È qui che si inseriva la
mia replica a Buffagni: il radicale altro che potrebbe essere incluso nei
fatti di Macerata è che l’uomo sfugge al
destino di essere completamente sussunto nella tecnica e per essa nella
creazione di valore del capitalismo. Nella riduzione del mondo ad oggetti e di
se stessi ad erogatori, secondo metriche lineari, di ‘lavoro’ e per questo di
‘valore’. Inoltre che questo enorme risultato è provocato da uno schermare e
disincantare il mondo che ha richiesto secoli e non è mai del tutto riuscito.
L’estrazione violenta di uomini e donne da mondi ancora non completamente
incorporati nell’occidente, mondi ‘arretrati’ e per questo deboli e periferici,
rende quindi in contatto dentro la ‘gabbia
d’acciaio’ della modernità, radicamenti diversi.
È un tema davvero difficile, con il quale si sta
misurando anche la filosofia più specialistica (abbiamo letto, ad esempio,
Habermas in “Verbalizzare
il sacro”): come scrive il grande filosofo tedesco la religione, tutte le
forme rituali, sono in qualche modo dei
contrafforti, di socialità prediscorsiva, davanti al rischio di costringere
tutto l’umano entro l’oggettivazione scientista e la razionalità strumentale e
per questo funzionale ai “mercati”. Questi rischiano alla fine di disseminare
un mondo di naufraghi disperatamente orfani e incapaci delle più elementari
prestazioni di solidarietà e reciproco riconoscimento che sono indispensabili
anche a fondare quella che chiama la normatività post-metafisica: il
riconoscimento reciproco come persone capaci di azione e volontà autonome, in
linea di principio in grado di scegliersi insieme il destino nella forma
dell’autolegislazione.
In altre parole, e più semplici, senza conservare
delle fonti autonome dalla ragione funzionale (che si riconduce necessariamente
alla logica schiacciante della valorizzazione) anche la democrazia finisce per
essere incorporata come tecnica dall’economico e ridotta a vuoto involucro. È,
più o meno, ciò che accade al progetto europeo.
Nella risposta a Buffagni ripercorrevo quindi la
storia, sommariamente, della riduzione del reale al numerabile ed alla legalità
scientifica. Ovvero, come scriveva Koyrè l’espulsione dalla legalità
scientifica di tutti i ragionamenti e delle esperienze basate su concetti come:
perfezione, armonia, significato, fine.
Non si tratta però, come teme Galati di rifiutare la
scienza, nessuno potrebbe farne a meno e comunque nemmeno vorremmo. Si tratta invece
di sfuggire anche all’inconsapevole
religione del capitalismo (Benjamin, “Il
capitalismo come religione”) che disgrega tutte le altre, sostituendole con
pallidi feticci.
Un modo per diventare sensibili alle alternative ed a ciò che ci sta succedendo sotto gli occhi (unitamente ai suoi costi umani) è quindi di connettere il discorso sulla disgregazione interna della società africana per effetto della ‘seconda secolarizzazione’, quella giovane, indotta dalla ferrea logica del capitale internazionale alla prima, ‘quella vecchia’, che allunga i suoi tentacoli.
Che cosa fare?
Serve un vasto progetto di scala internazionale;
connesso con politiche industriali a guida pubblica e non di mercato, che rovescino la logica dello sviluppo che sfrutta
la lotta tra poveri e che costantemente riadattino verso il lavoro povero la
composizione organica del capitale; una logica, in grado di orientare
anche lo sviluppo tecnologico, che faccia uso di opportuna repressione
finanziaria per creare condizioni di
scarsità invertite, nelle quali non sia il capitale a potersi spostare
liberamente ed indefinitamente scegliendosi dallo scaffale i lavoratori di
volta in volta più consoni, al minor prezzo, ma il lavoro a trovarsi in
condizioni di scarsità relativa e quindi attivare una dinamica ascendente
(maggiore costo del lavoro, investimenti, aumento della produttività) che possa
favorire il riposizionamento dei sistemi-paese su segmenti di valore e
ricchezza superiori. In questa dinamica potrebbe darsi anche il miracolo che
nuova forza-lavoro (che, però, sono anche persone, con la loro cultura)
progressivamente sposti verso l’alto quella esistente, invece di rigettarla
nella disoccupazione, la rabbia e l’intolleranza. Ma questo schema prevedrebbe
anche autonomia, dunque di fuoriuscire dallo schema imperialista europeo e da
quello, più in generale, di quella che Amin chiama “la triade” (USA, Giappone,
Europa), eventualmente con i suoi soci minori.
In altre parole, bisogna rimettere radicalmente in
questione le “quattro libertà” del progetto europeo. Che sono oggettivamente
preordinate alla meccanica, incorporata nella logica del capitale e non
necessariamente voluta o progettata da alcuno, della creazione costante di
‘eserciti di riserva’ pronti a prendere il posto dei renitenti locali (ovvero
di chi avanzasse l’assurda pretesa di trarre dal suo lavoro quanto basta ad una
vita sicura e dignitosa).
L’incastro delle due “economie politiche” osservate (e
della terza, quella dell’”emigrazione” dai paesi semiperiferici come i nostri
ed i paesi “core”) nella dinamica “emigrazione/immigrazione/emigrazione” sta infatti
devastando il mondo e sta facendo saltare ogni possibile patto sociale, ed in
modo necessario in quanto si tratta di un meccanismo strutturale intrinseco
alla dinamica necessaria del capitale.
L’anziano Marx si pose questo problema nel suo
dialogo, che prese diversi anni della sua vita, con i populisti russi, di cui
l’esempio più noto è la lettera a Vera Zasulic e quella alla «Otecestvennye
Zapiski», che è del 1877. Davanti al problema della conservazione della obšcina,
ovvero della forma tradizionale di vita (che, comunque aveva circa cento anni
di vita, essendo scaturita da una riforma delle forme medioevali) che prevedeva
proprietà collettiva e strutture comunitarie (come oggi in alcune aree agricole
asiatiche e africane). Marx resta profondamente incerto, alla fine risolvendosi
verso il tentativo di tenere insieme individualità (frutto della modernità) e
forme comunitarie. Questo Marx, scrive anche la prefazione
all’edizione russa del “Manifesto”, nel 1882, che “l’odierna proprietà comune rurale russa potrà servire di punto di
partenza per un’evoluzione comunista”. Ovvero scrive che la comunità
rurale, questa forma tradizionale, non moderna, non progressiva nel senso
comune del termine, questa forma che è un residuo “della originaria proprietà
comune della terra” (residuo delle forme premoderne, dunque), può passare “direttamente”
alla forma più “alta” del socialismo. Può passarci per un movimento interno,
guidato dalla prassi rivoluzionaria ma anche dalla continuità, può unire
conservazione e rivoluzione.
Elaborando un’idea che viene ripresa da Samir Amin (ed
in modo esplicito) il Marx nel suo penultimo anno di vita (un anno di intensi
studi storici ed antropologici), dice insomma che la forma comunistica, più
“alta”, può manifestarsi grazie alla disponibilità di abilità, raziocinio,
consuetudini e sapienza e tecnica, ad avere tempo (quel che non avrà), evitando
di percorrere la stessa drammatica strada che l’occidente ha seguito. La strada
della modernizzazione capitalistica non è un destino inevitabile, via proletarizzazione
ed estensione del modello della ‘città’, dello sfruttamento della città nei
confronti della campagna.
L’ipotesi che propone Marx per risolvere il dilemma è
che, senza passare sotto le forche caudine del sistema capitalistico, i
contadini ne potrebbero utilizzare ed integrare le acquisizioni positive. Così
come non è necessario superare tutte le fasi tecnologiche (dal telaio
meccanico, a quello a vapore, poi ai bastimenti a vapore, poi le ferrovie, e
via dicendo) od organizzative (prima le fiere, poi le borse merci, poi le
banche, le società per azioni, …) per impostare un sistema economico avendole
ormai davanti pronte tutte.
Questo è il senso, a ben vedere, in cui si capisce
l’ultima frase della prefazione del 1882:
“la sola risposta oggi possibile [al problema] è
questa: se la rivoluzione russa servirà di segnale a una rivoluzione operaia in
occidente, in modo che entrambe si completino, allora l’odierna proprietà
comune rurale russa potrà servire di punto di partenza per un’evoluzione
comunista”.
Se la rivoluzione, invece, in Russia resterà sola,
costretta a competere con le potenze capitaliste, in termini di confronto
geopolitico e produttivo, non avremo “il completamento” reciproco e la comune
potrebbe essere schiacciata (come fu, dalla collettivizzazione).
Non è andata affatto così, anche perché Engels, quando
Marx andrà a Highgate, riporterà la barra al centro, e riaffermerà la sua
versione del materialismo storico, oltre i dubbi e le sfumature del “vecchio
Nick”.
Potremmo, almeno noi, tentare di essere meno
schematici?
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