Un
commento ad un mio breve articolo, che a sua volta faceva seguito ad uno
scambio su un altro. Nel frattempo il fatto che originariamente si commenta si
allontana. E nella replica di Massimo Morigi, in effetti, si allontana di
molto.
A
grandi linee il
commento ai tragici fatti di Macerata di Roberto Buffagni tendeva ad
individuare l’emergere di un fondo belluino non civilizzato
nell’incontro/scontro troppo poco mediato, nella generale perdita di autorità
delle istituzioni repubblicane e financo religiose, tra persone sradicate e
culture diverse. Cioè l’avvio di quel che più teme: la perdita di coesione e
l’avvio di una guerra generale: “homo hominis lupus”.
La
mia prima reazione, insieme di commenti su Facebook montati
in un solo pezzo che meriterebbe più coesione, collegava tale ipotesi e
l’attacco di Buffagni al multiculturalismo alla anomia della società
contemporanea, nella quale l’erosione dei valori fa sponda con la perdita delle
risorse (riecheggiando in qualche modo la
profezia di Pasolini). E risaliva da questa al dominio della tecnica che
riduce l’uomo alle sue metriche, facendone macchina del valore e disincantando
il mondo: secolarizzandolo, dunque. In questo ordine del discorso fa problema
lo scientismo, sublimato nell’economia contemporanea, che postula una
separazione radicale tra corpo e mente, confinando in quest’ultima tutto il
senso. La tesi è dunque che quando diversi gradi di secolarizzazione giungono
in contatto, senza sufficienti mediazioni, anziché la “moltitudine”
indifferenziata e libera può darsi l’emergere del terroso. Insieme del corpo, e
dei ‘mondi incantati’ (Taylor).
Seguì
una sistemazione più meditata nel post “Lo
scontro delle secolarizzazioni”, riportato anche in “Sinistra in rete” (qui)
e su “Italia e il mondo” (qui).
Il tessuto di violenza emerso dalla vicenda era messo in relazione con la
perdita di senso determinata dalla secolarizzazione che il capitalismo, ovvero
la forza della tecnica e delle metriche di valore deumanizzanti, impone in
tutto il mondo e per esso nei paesi in corso di ‘monetizzazione’ (ovvero in cui
la logica del denaro sta penetrando con crescente intensità) e in quelli
storicamente tali, come l’Italia. Il problema non è nostro e non deriva solo
dal confronto/scontro, ma nella ripresa su “Sinistra
in rete” ci sono state interessanti reazioni, da una posizione
classicamente marxista (soprattutto una) che hanno fatto venire in superficie
altri temi. In questo diverso ordine del discorso, sotto l’impulso a
considerare non già la dimensione sacrale e culturale, ma quella strutturale
economica, ho provato quindi a individuare i nessi tra le “economie politiche”
intrecciate della “emigrazione” (ovvero quella che estrae, sradicando, gli
esseri umani trasformandoli in risorse e contenitori di lavoro) e dell’
“immigrazione” (ovvero quella che attira, generando differenziali di
valorizzazione e utilizzando i nuovi contenitori di lavoro per abbassare le
pretese dei vecchi, ovvero, con le parole di Barone del proletariato autoctono
facendo uso di quello immigrato). Nessi la cui effettiva capacità di potenza è
differenziata, altamente, tra filiere produttive, segmenti della catena del
valore e aree geografiche. Questo processo lavora nel tenere in movimento
quella macchina deflazionaria che chiamiamo economia contemporanea globalizzata,
fondata sulla concentrazione del valore in alto per via di competizione. Ne è
anzi uno dei meccanismi essenziali. Un meccanismo, sia chiaro, del tutto razionale, profondamente
innestato nella logica della razionalizzazione occidentale messa in movimento
cinquecento anni fa dalla rivoluzione scientifica. Ovvero dallo snodo del quale
parlava la prima divagazione. Entro la logica scientifica, che riduce la natura
a numero (come logicamente propose Galileo e ancora meglio Newton), con mossa
profondamente metafisica, il modo di produzione capitalista (sviluppato in
termini coevi), o se preferiamo la riduzione del valore a numero-denaro, è
invincibile perché razionale. E lo è perché competizione e calcolo economico
dicono la verità dei rapporti, la verità della loro funzione nel sistema totale
che incorpora ogni possibile società. Divenuta inevitabile la competizione per
la creazione di valore misurabile, divengono anche inevitabili i rapporti
sociali che questa determina. I rapporti sociali, cioè la gerarchia sociale.
In
un altro dialogo con gli stessi interlocutori, quello mosso dall’articolo “Due
appelli, due europe”, di Buffagni, risposi con “Lo
scontro tra le diverse Europe” nel quale concordavo che l’economico va
“risecolarizzato” (essendo una forma surrogatoria di tipo religioso) questa
volta nel senso di reincoprorarlo, come dice Amin, in un “iceberg di rapporti
sociali di cui la politica costituisce la parte emersa” (OM,
p,102). La bella immagine dell’economista egiziano presuppone di fuoriuscire
sia dallo scientismo sia dall’economicismo, riportando sulla terra, con i piedi
ben piantati, la hybris della riduzione del mondo a numero e delle cose tutte a
valore scambiabile (uomo incluso). Questa mossa richiede e non inibisce la
costituzione di sistemi di nessi, condivisi, popolari, democratici e dotati di
confini. Ovvero nazionali. Come avevo scritto: ciò che bisogna separare è il
nesso interno tra una certa visione lineare della storia come progresso verso
un qualche telos, l’identificazione della meccanica (quando non anche del telos
stesso) con un presunto svolgersi infallibile di leggi dell’economia ‘pura’
(una visione autorizzata da una lettura banalizzante di alcuni passi dello
stesso Marx, ma molto più di Engels e di alcuni suoi epigoni), e il precipitare
finale di tutto ciò a servizio di un progetto di potenza nascosto in bella
vista nella retorica Wilsoniana di tanto in tanto riemergente. La retorica
wilsoniana, di cui si è fatto grande uso nel progetto europeo, che conduce a
deboli strutture di nesso, vuote e disincarnate, che non offrono ostacolo alla
traduzione di tutto in cosa scambiabile e il suo accumulo, sotto forma di
valore-numero, nelle munite cassaforti dei sacerdoti della globalizzazione e
nei loro templi.
A
distrarre da questo semplice effetto la retorica della creazione di una
comunità universale, che naturalmente non è nessuna delle due cose, in quanto
impossibile (mentre nasconde la verità del dominio imperiale di alcuni nessi
funzionali) non è universale e in quanto programmaticamente uniforme non è
comunità. Al massimo ci sono pseudo-comunità (rette dal comune interesse) di
élite sradicate ed interconnesse con i poteri sradicanti.
A
questo intervento Roberto Bufagni replicò in due parti. La prima
dispiegava una sorta di glossario esplicativo che articola il tema della guerra
civile di religione che secondo la sua opinione sobbolle sotto il fragile velo
di ghiaccio dell’universalismo. Nella seconda
parte riprende il noto argomento di Michels sulla inevitabilità della formazione
di ineguaglianze derivanti dalla divisione del lavoro, facendone discendere la
conseguenza (per la quale vengono in mente normalmente esempi rivoluzionari)
degli effetti controfinalistici del tentativo di eliminarla.
Sono,
questi, tutti temi difficili e vengono inquadrati da diverse tradizioni
teoriche e politiche. I due dialoghi alla fine si intrecciano tra di loro,
disseminando talmente tante questioni che una trattazione appena decente
richiederebbe forse diversi libri; ma guardare con occhi diversi può essere un
esercizio capace di mostrare meglio a sé il proprio stesso sguardo.
Ora
Massimo Morigi ne esprime uno particolarmente lontano dalla mia sensibilità, ma
forse per questo particolarmente utile. È questa una fase nella quale la
profonda crisi di trasformazione consiglia la massima apertura. In “Considerazioni
a margine”, che commenta il mio testo “Lo
scontro delle secolarizzazioni”, Morigi svolge una complessa obiezione
all’eccesso di economicismo, e quindi di scientismo, che intravede nel mio
testo. In parte questo è dovuto al contesto, si trattava infatti di una replica
ad un commento sul pezzo pubblicato in “Sinistra
in rete” nel quale la crisi veniva ricondotta agli effetti della
secolarizzazione dovuta all’evoluzione sincrona della rivoluzione scientifica
ed alla formazione del mondo capitalista. Ovvero di una replica ad un’accusa
simmetrica: di far troppo conto sulla cultura.
A
questo su un primo livello bisogna replicare che ‘struttura’ e ‘soprastruttura’,
anche nella migliore tradizione marxiana, sono entrambi necessari, e sono
sostanzialmente nostre partizioni a scopo di rappresentazione di un insieme
continuo di fenomeni e rimandi.
Morigi,
però, conduce la sua critica attraverso una densa lettura della figura di
Mazzini, letta dalla chiave interpretativa dell’attualismo gentiliano (dunque
potremmo dire, da destra) e l’interpretazione di Delio Cantimori, come
antilluminista (lui che era allievo di Buonarroti). Più precisamente, riporto:
“le pur generose esortazioni (ed anche in parte penetranti analisi) di Alessandro
Visalli, il cui difetto di fondo è l’essere impregnate di quello spirito
universalistico di matrice illuministica che Mazzini – e sulla sua scia il
Repubblicanesimo Geopolitico – sempre e con tutte le sue energie avversò,
e questo non perché fosse un reazionario ma perché aveva capito benissimo che
se si vuole essere veramente universali la prima cosa che necessita è possedere
una visione strategica il cui centro focale è la creazione di una propria
distinta ed unica identità, lasciando agli ideologi la discussione in merito
all’universalità di questo o quell’altro sacro principio”. Non ci sono dubbi
che quel che chiama “il repubblicanesimo geopolitico”, cioè la scuola realista,
avversa lo spirito universalistico di matrice illuminista, sospettato di
astrazione e di doppia morale, ma non mi resta chiaro l’esatto senso del “vero universalismo”.
Inoltre,
pur non avendo adeguata dimestichezza con Giuseppe Mazzini (che dovrei
approfondire molto di più) nei testi che ho letto (“Pensieri
sulla democrazia”, del 1846; “Dei
doveri dell’uomo”, 1859; ed il meno impegnativo “A
Francesco Crispi”, del 1864) trovo più articolazione, e certamente molto
più illuminismo. Certo Mazzini non è, e non è mai stato, un astratto teorico, è
uomo d’azione nel quale pensiero e prassi si fondono, completandosi. È anche un
uomo che sceglie di combattere, che esercita violenza, che uccide (non
personalmente). Averlo scelto come exempla per opporre alla mia bozza di
posizione un “non basta”, rivolto all’esercizio di un surplus di
determinazione, con la scandalizzata sottolineatura del mio “sono pochi
centinaia di casi”, riferiti agli omicidi rituali scoperti in Africa centrale
(su una popolazione di duecento milioni di persone), è una trasposizione, mi
perdoni l’autore, forzata.
Gioverà
ricordare che gli austriaci avevano invaso la penisola a più riprese, nel 1820 quando
sedano nel sangue le rivolte a Napoli, in Sicilia ed in Piemonte, o come nel
1830 o nel 1848, nell’ambito del cosiddetto “concerto” delle nazioni (Austria,
Prussia, Francia, Inghilterra). Paragonare, dunque le concretissime truppe
austriache a flussi di disperati, sia pure disomogeamente distribuiti, mi pare
davvero una forzatura. E non comprendo bene l’invito: prendere le armi anche
contro costoro? E magari con i carabinieri che volessero difenderli?
Non
credo che il mio gentile interlocutore intenda davvero questo. Neppure per
“dare una speranza a questo paese”.
Il
Mazzini di Morigi, quello che ha: “una chiara visione strategica di pretto
stampo mazziniano che partendo dai problemi sociali e culturali del nostro
popolo sappia (ri)costruire e rafforzare una identità nazionale che permetta al
nostro paese di rimandare al mittente tutte le spinte disgregative (di cui
l’immigrazione è una di questa) che ci giungono da questa disgraziata modernità
di un mondo sempre più multipolare”, era un energico rivoluzionario che operava
(dal 1830 al 1861) in un quadro in cui la ‘nazione’ era solo un’astrazione
illuminista, importata dalla Francia di Napoleone, e coltivata da ristrette
élite, del tutto indifferente al popolo. Mentre dal 1861 al 1872 è un
rivoluzionario clandestino che cerca di combattere la monarchia sabauda. La
Nazione di Mazzini, in quel quadro così profondamente diverso, è però un
costrutto mistico, l’agente della provvidenza, parte del piano divino di
emancipazione dell’umanità. Certo, il nostro è antiliberale (sarà Cavour a
impersonare il liberalesimo), e svolge una critica dei “diritti” che è
sicuramente ancora attuale ed interessante. Certo costantemente inneggia alla
Patria, come idea che sorge su un territorio (DU,
p.75). Ma la lettura di Delio Cantimori non è senza problemi, se è pure vero
che si può leggere la storia solo con il più alto senso del presente e quindi
aggiungendo qualche filo, ma non è difficile ritrovare diverse letture (es.
Mack Smith, “Il risorgimento italiano”, pp.
51 e seg, oppure si veda la bibliografia ragionata in calce al testo di Roland
Sarti “Giuseppe Mazzini”, pp. 307 e seg.).
Ora,
in un autore immenso come il nostro Mazzini, una delle figure dominanti del
secolo, si possono ritrovare certamente molte cose, e molte anche
reciprocamente incoerenti dal nostro punto di vista. Tanto più in uno scrittore
prolifico ma non sistematico, più d’occasione, del tutto disinteressato a
creare un corpus teorico. Forse poche figure come quella di Mazzini, nella
vastità dei suoi interessi e complessità delle sue posizioni, si è prestata
quindi a divenire di volta in volta il nume tutelare, o il bersaglio, delle
battaglie del presente.
Ma
l’interpretazione condotta, solida o meno, precipita nella seguente frase: “se si vuole essere veramente universali la
prima cosa che necessita è possedere una visione strategica il cui centro
focale è la creazione di una propria distinta ed unica identità”, sia o no
attribuibile alla visione del grande genovese.
Foto di Gabriele Pasutto |
Come
ho già scritto all’autore, mi appare un tema di complessa costituzione. Certamente
il Mazzini riteneva che l’Italia unita avrebbe portato al fine all’Europa Unita
e federale (per la quale fondò la “Giovine Europa”, in questo in linea con il
suo maestro Buonarroti) e riteneva questo essere il disegno di Dio e produttore
della pace. Per fare un solo esempio, in “Fede
e avvenire”, 1835, Mazzini scrive “noi crediamo nell’UMANITA’, ente
collettivo, e continuo, nel quale si compedia l’intera serie ascendente delle
creazioni organiche e di manifesta più che altrove il pensiero di Dio sulla
terra, siccome unico interprete della legge” (maiuscolo nel testo, Utet,
Scritti politici, p.474).
Ma
al di là del grande rivoluzionario l’idea che se si vuole amare l’umanità,
costituendola e riconducendola contemporaneamente ad un solo principio (sia
esso religioso o secolare), bisogna nello stesso gesto tripartito costituire se
stessi come distinti è interessante e altamente problematica al contempo. Mazzini
la risolveva nell’idea che Dio volesse l’unità, per cui prima quella
dell’Italia, separata da secoli in staterelli subalterni ed umiliati,
attraversata a turno da eserciti di invasione, soggetta agli egoistici (uno dei
termini più ricorrenti nella damnatio del nostro) interessi di capi e capetti, insieme
a quella di Polonia e Germania, e poi quella dell’Europa tutta come
“associazione di tutte le patrie”. Certo il nostro avvia questa idea negli anni
trenta (“Giovine Europa”), la
riprende brevemente in Inghilterra nei primi quaranta (“Lega internazionale dei popoli”) e un’ultima volta dopo il 1848 (“Comitato centrale democratico europeo”
nel contesto della Repubblica romana del 1849, per poi concentrarsi nei
successivi venticinque anni sul problema dell’unità d’Italia e sulla lotta per
la repubblica. La risolveva comunque nell’idea che progresso e libertà
passassero necessariamente per l’uguaglianza e quindi la fratellanza e l’associazione
tra eguali, uomini e popoli. Che quindi si potesse senz’altro dire “che ogni
uomo e ogni popolo ha la sua missione speciale, il cui compimento determina
l'individualità di quell'uomo o di quel popolo e aiuta a un tempo il compimento
della missione generale dell'Umanità” (Patto di Fratellanza, Berna, 1834).
Leggiamo
la chiusa del manifesto della “Giovine Europa”:
«Convinti
finalmente:
«Che l'associazione degli uomini e dei
popoli deve congiungere la certezza del
libero esercizio della missione individuale alla certezza della direzione verso
lo sviluppo della missione generale;
«Forti dei nostri diritti d'uomini e di
cittadini, forti della nostra coscienza e del mandato che Dio e l'Umanità
affidano a tutti coloro i quali vogliono consecrare braccio, intelletto,
esistenza alla santa causa del progresso dei popoli;
«Dopo d'esserci costituiti in associazioni
Nazionali libere e indipendenti, nuclei primitivi della Giovine Polonia, della
Giovine Germania e della Giovine Italia;
«Uniti in accordo comune pel bene di
tutti, il 15 aprile dell'anno 1834 abbiamo, mallevadori, per quanto riguarda
l'opera nostra, dell'avvenire, determinato ciò che segue:
I.
La
Giovine Germania, la Giovine Polonia e la Giovine Italia, associazioni
repubblicane tendenti allo stesso fine umanitario e dirette da una stessa fede
di libertà, d'uguaglianza e di progresso, si collegano fraternamente, ora e
sempre, per tutto ciò che riguarda il fine generale.
II.
Una
dichiarazione dei princìpi che costituiscono la legge morale universale
applicata alle società umane, sarà stesa e firmata dai tre Comitati Nazionali.
Essa definirà la credenza, il fine e la direzione generale delle tre
Associazioni. Nessuna potrà staccarsene nei suoi lavori senza violazione
colpevole dell'Atto di Fratellanza e senza soggiacere a tutte le conseguenze di
quella violazione.
III.
Per
tutto ciò che non è compreso nella dichiarazione dei princìpi ed esce dalla
sfera degli interessi generali, ciascuna delle tre Associazioni è libera e
indipendente.
IV.
L'alleanza
difensiva e offensiva, espressione della solidarietà dei popoli, è stabilita
fra le tre Associazioni. Tutte lavorano concordemente alla loro emancipazione.
Ciascuna d'esse avrà diritto al soccorso dell'altre per ogni solenne e
importante manifestazione, che avrà luogo in seno ad esse.
V.
La
riunione dei Comitati Nazionali o dei loro delegati costituirà il comitato
della Giovine Europa.
VI.
È
fratellanza tra gli individui che compongono le tre Associazioni. Ciascun
d'essi compirà verso gli altri i doveri che ne derivano.
VII.
Un
simbolo comune a tutti i membri delle tre Associazioni sarà determinato dal
Comitato della Giovine Europa. Un motto comune indicherà le pubblicazioni delle
Associazioni.
VIII.
Ogni
popolo che vorrà esser partecipe dei diritti e doveri stabiliti da questa
alleanza, aderirà formalmente all'Atto di Fratellanza, per mezzo dei proprî
rappresentanti.
Berna, 15 aprile 1834. »
La
“Giovine Europa”, insomma, ha l’obiettivo di “costituire l’umanità”, cosa che
passa per la convinzione che (punto 17) “ogni Popolo ha una missione speciale
che coopera al compimento della missione generale dell’Umanità. Quella missione
costituisce la sua Nazionalità. La Nazionalità è sacra”, e (19) “L'Umanità non
sarà veramente costituita se non quando tutti i Popoli che la compongono,
avendo conquistato il libero esercizio della loro sovranità, saranno associati
in una federazione repubblicana per dirigersi, sotto l'impero d'una
dichiarazione di princìpi e d'un patto comune, allo stesso fine: scoperta e
applicazione della Legge morale universale”.
L’universalismo
di Mazzini è quindi classicamente (fin nell’evocazione della “grande catena
dell’essere”, all’inizio dei brani che ho riportato) espressione di una
religione di salvezza dell’individuo in qualche modo trasposta sul piano
secolare. Il deismo mazziniano non ammette salvezza al di fuori dell’adesione al
suo sistema dottrinario (su questo piano contesta al socialismo ed al
liberalismo un eccesso di egoismo).
Ora,
in calce all’articolo,
quando ho richiesto a Morigi approfondimento su questo punto il cortese interlocutore
ha individuato una questione di grande complessità: la relazione tra libertà ed
autenticità. È davvero libero chi si conforma ai costumi che trova, “assorbendo
gli idòla tribus della società”? O forse lo è chi parte dalle proprie personali
qualità e volizioni, uniche ed irripetibili, che sole possono arricchire anche
l’umanità?
Questa
questione si pone con Herder, nel contesto storico della Germania divisa e
soggetta, e nel secolo del romanticismo si estende.
Monet, "Il bar alle Folies Bergère" |
Monet,
ne “Il bar alle Folies Bergère”, del
1882, dipinge un luogo rumoroso, impregnato di odori e di licenza, sregolato. In
esso una donna sta al centro, ferma, con espressione enigmatica, triste e
pensosa, frontale e circondata da solidi oggetti. Lo specchio alle sue spalle
restituisce una folla, luci e vasti ambienti, ma anche, a destra, se stessa di
spalle e il suo interlocutore, quasi fuori del campo. I due si guardano ma non
possono essere lì, la prospettiva lo vieterebbe. Monet ha rischiato di apparire
incapace per proporci una riflessione sullo sradicamento tra l’apparente
solidità e semplicità frontale delle cose e il loro doppio, slittato e sfocato.
La Francia della seconda metà dell’ottocento è investita dall’onda lunga della
rivoluzione industriale e della sua razionalizzazione, fenomeni imponenti di emigrazione
urbana, spostamenti di popolazioni, modifiche profonde dello stile di vita, che
determinano una potente tendenza a idealizzare l’autenticità e la nazione. L’onore
è nell’autenticità, nell’essere connessi ad un territorio ed una cultura che
consente una immediata intesa, un riconoscersi.
Ma
non è necessario rivolgersi all’ottocento per ritrovare questo concetto. Michael
Walzer, in “Che cosa significa essere
americani”, letto qui,
discute dell’incontro e scontro tra diritti individuali e collettivi in difesa
di un universalismo temperato piuttosto diverso da quello mazziniano. Lo sfondo
è il dibattito internazionale sul multiculturalismo che segue alle guerre
jugoslave e agli eventi della fine del secolo e inizio del successivo. Si confrontano
fondamentalmente quattro posizioni:
-
gli autori liberali tradizionalisti, che
difendono la soluzione scaturita a loro dire dalle guerre di religione dall’attacco
del tribalismo (ovvero delle posizioni comunitarie), questa linea è
inconsapevolmente tenuta da uno degli interlocutori del primo post che abbiamo
commentato, ma dimentica che dalle guerre di religione (che sono cosa assai più
complessa) sono passati gli anni dell’industrializzazione e della presa del
capitalismo, ovvero dell’estensione dell’anomia. La soluzione liberale, si
dice, in quanto scaturita dalle guerre di religione, fornisce protezione ad
ogni individuo dal rischio dell’oppressione delle maggioranze, ma lo fa in
quanto cittadino. Ma è il cittadino che nelle condizioni contemporanee
rischia di ridursi a contenitore di lavoro astratto e mero consumatore.
-
Poi ci sono posizioni intermedie che
individuano un problema ma in ultima analisi tengono il punto liberale,
Habermas è uno dei più complessi.
-
Quindi autori come Will Klymicka e Joseph Raz
che riconoscono che i diritti liberali non offrono adeguata protezione e pur
attuando un “eguale trattamento” (anzi proprio perché lo fanno), non
garantiscono un “trattamento tra eguali” (ovvero di trattare l’eguale in modo
adatto alle proprie caratteristiche) secondo una distinzione che Ronald Dworkin
recupera dalla tradizione greca. Axel Honneth, con la sua ripresa di
Hegel, lavora
in questa direzione entro la tradizione francofortese (uno dei tentativi più
interessanti di far leva sull’autenticità per superare le tendenze massificanti
della modernità).
-
E ci sono le posizioni relativiste.
Nel
contesto di questo dibattito Charles Taylor ricorda che la questione dell’identità
per come noi la capiamo è figlia della modernità, ovvero della
secolarizzazione. Infatti è il crollo delle gerarchie sociali fondate sull’onore
(e quindi l’adesione al ruolo) che fa emergere l’idea di pari dignità e quella
di avere una voce morale individuale. Qui si segue Rousseau fino a Herder, che
mette a fuoco l’idea che ognuno ha un suo modo di essere uomo, una sua
“misura”. Bisogna dunque essere principalmente fedeli a se stessi; a questo
ideale è ancorata la ragione di essere della propria vita. Si tratta di un
potente ideale morale, che implica anche il fatto che il modello al quale
conformare la propria vita è rintracciabile solo in se stessi, non in un
modello esterno. “Essere fedele a me stesso significa essere fedele alla mia
originalità, cioè a una cosa che solo io posso articolare e scoprire; e
articolandola definisco me stesso, realizzo una potenzialità che è mia in senso
proprio” (Taylor, p.16). Questo concetto di autenticità si applica per Herder
sia alla persona sia ai popoli. Al Volk che dovrebbe essere fedele alla propria
cultura.
Questo
modo di essere unico non può essere derivato socialmente ma deve generarsi
interiormente. Ma, qui Honneth, questo effetto può ricavarsi solo nelle
relazioni con gli altri, nasce cioè solo riconoscendosi vicendevolmente (come,
appunto, eguali sotto il profilo della dignità). Universalismo è qui sia
egualizzazione dei diritti e dei titoli, sia identità e quindi differenza.
Si
può dire che ciò che fa questione è a cosa si debba eguale rispetto: a ciò che
abbiamo in comune (l’Umanità, più o meno con la maiuscola) o alle
particolarità? Quando si resta all’impegno procedurale a trattarci l’un l’altro
in modo equo ed eguale indipendentemente dall’idea che ognuno (anche collettivamente)
ha dei suoi scopi specifici nella vita (ovvero dei suoi scopi “sostantivi”) si
resta nel classico alveo della soluzione liberale. Un simile idea, che risale a
Kant, ha per Taylor delle assunzioni filosofiche molto profonde, la prima delle
quali è di valorizzare l’autonomia come fondamento della dignità umana. Per
questo una società deve restare neutrale rispetto alla possibilità di ciascuno
di considerare per conto proprio questa o quella concezione particolare della propria
vita.
In
una simile società, in altre parole, non c’è spazio per una nozione pubblica
del bene. Per una società che ha fini collettivi.
Ma
è possibile anche una società (come il Quebec francofono, difeso dal filosofo
canadese) che si organizza intorno ad una definizione della vita buona senza
per questo sminuire necessariamente chi non la condivide. Basta distinguere tra
diritti fondamentali, riconosciuti a tutti, e altre salvaguardie, privilegi ed
immunità, sottomesse a ragioni di interesse pubblico.
L’accusa
che viene mossa in queste discussioni all’astratto formalismo del linguaggio
dei diritti è, con Hegel (di cui anche Taylor è illustre interprete), di
astrazione dalla situazione concreta, ovvero di lesione della razionalità
sociale già incarnata come “spirito oggettivo” nella grammatica normativa
esistente attraverso sistemi d’azione istituzionalizzati. Il fatto che questa
lesione sia inconsapevole, e lo sia l’effetto di anomia che ne consegue, non lo
rende meno grave. Il disconoscimento dei fattori costitutivi, istituenti il
nostro rapporto originario con gli altri (senza i quali neppure l’identità si
può formare), è una lesione perché non ne possiamo, neppure volendo, disporre a
nostro piacimento. Come spesso scrive anche Sandel (altro grandissimo filosofo
contemporaneo) il soggetto che si pensa come auto-legislatore rimane in qualche
modo sospeso in aria, non situato. Lungi dall’essere legislatore è agito da
forze sistemiche esterne, da quello che prima chiamavo la dinamica della
monetizzazione.
L’unica
teoria della giustizia possibile, dunque, è quella che è in qualche modo
progettata (rischiosamente) a partire dalle caratteristiche che lo sviluppo storico
concreto ha depositato nell’oggi, per come queste si sono date, cioè, dal sedimento dei
conflitti e dei successi o fallimenti nell’ottenere riconoscimento da parte
delle diverse soggettività.
Probabilmente
anche l’unica possibile pratica politica.
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