La deputata di Die Linke, Sahra Wagenknecht, che è con
Oskar Lafontaine, suo marito, un esponente di punta del partito di sinistra
tedesco sulla sua pagina pubblica questo
intervento sull’immigrazione rilasciato a Focus.
Nella Linke rappresenta la componente occidentale e di provenienza SPD, con la
quale si posiziona in radicale rottura (anche se nell’articolo lo nega
tatticamente) e per una cosiddetta alternativa di sistema, poi c’è la
componente che ha radicamento nell’est, il cui principale esponente Gisy punta ad una prospettiva di unità delle sinistre, quindi esiste una tendenza
radical-libertaria che non manca mai in una formazione di sinistra (devo questa
scansione a Manfredi Mangano).
La prima parte dell’intervista, del 10 febbraio,
inquadra il tema della costituenda grande coalizione tra la Spd e la Cdu, e
dichiara che questo accordo aprirebbe enormi spazi politici per una opposizione
che non possono essere lasciati alla destra. Se da una parte “chiunque faccia
politica contro i suoi elettori non dovrebbe stupirsi di perderli”, con
espresso riferimento alla SPD, è necessario infatti un nuovo movimento che
fermi il collasso della coesione sociale.
È quindi necessario un raggruppamento di tutte le
forze che militano per i dipendenti, per i pensionati, per i piccoli lavoratori
autonomi, e quindi non per le grandi aziende, le banche e i ricchi. Secondo l’opinione
di Sahra è presente oggi una maggioranza potenziale interessata a tassare la
ricchezza dei miliardari, ottenere un salario minimo più elevato, uno stato che
protegge i cittadini dal capitalismo finanziario globalizzato e dalla
concorrenza. Ma, come dice, per radunarla non serve un leader carismatico,
serve orientare la propria azione ad “un’ampia base sociale”.
Sahra Wagenknecht |
Quella base sociale che può essere sensibile
all’aumento del divario sociale, ai lavori poveri l’insicurezza, la povertà
delle pensioni. Da radunare perché spesso, in particolare nelle zone povere, la
maggior parte di questa “base” si è ormai allontanata dalla democrazia, vota infatti
al 30% o meno.
Soprattutto per questo
popolo di salariati poveri e persone in condizioni precarie, chiede il
giornalista, “la questione della
migrazione è la linea di demarcazione fondamentale per la sinistra”: mentre
quasi tutti i precari e deboli abitanti delle periferie sono contro
l’immigrazione illimitata la maggior parte delle persone di sinistra è per le
frontiere aperte.
La Wagenknecht
risponde a questa scomoda domanda che “aprire i confini per tutti” non è
realistico; se la preoccupazione principale della politica di sinistra dovrebbe
essere rappresentare gli svantaggiati, è ovvio che “la posizione senza
frontiere è l’opposto della sinistra”; la sinistra non dovrebbe abitare solo
nei salotti e nei quartieri-bene. La cosa è semplice: “tutti i successi nel contenimento e nella regolamentazione del
capitalismo sono stati raggiunti all’interno di singoli stati e gli stati hanno
confini”. Ponendosi con questa frase (“contenimento e regolamentazione”) in
una chiara prospettiva riformista, se pur radicale, l’economista della Linke
sottolinea, infatti, che “le migrazioni della manodopera significano aumentare
la concorrenza per l’occupazione, specialmente nel settore a basso reddito”.
Dunque che se ne abbia paura dal lato di chi è sfidato è comprensibile, ma è anche vero, d’altra parte, che le persone
perseguitate che arrivano hanno bisogno di protezione, quindi di asilo. Dopo aver
evocato, con questo passaggio, l’inevitabile contraddizione tra due opposti
obiettivi l’esponente della Linke tenta di uscirne allargando il quadro: una
politica di sinistra deve eliminare le cause e le ragioni della migrazione, tra
i quali le pratiche di concorrenza commerciale predatorie. Si potrebbe dire,
introducendo a livello di funzionamento del sistema mondiale delle relazioni ‘elementi
di socialismo’.
D’altra parte il
90% dei rifugiati nel mondo, che fuggendo impoveriscono i loro paesi, restano
nei paesi immediatamente vicino, e secondo proprio la Sahra Wagenknecht è principalmente
lì che andrebbero aiutati, eliminando le ragioni di quella che chiamerò “economia
politica dell’emigrazione”.
Quindi, restando
in Germania, bisogna cercare di affrontare anche le cause della mancata
integrazione, che contribuisce a far restare debole e quindi esaspera e mette
in funzione la “economia politica dell’immigrazione”. Tra queste cause spicca
la concentrazione nei quartieri poveri, dove a volte gli immigrati recenti
raggiungono anche il 50% e si radicalizzano; perché è semplice: “se cresci
povero ti senti escluso”. D’altra parte, se è vero che “la lotta per la parità
dei diritti e contro la discriminazione è di sinistra”, è pure vero che non si
può fare davvero se si ignora quella più importante: quella economica. Cioè se si resta in una prospettiva culturalista
e sociologica e si immagina che sia ‘questione di veli’, o di ‘genere’. Qui,
insomma, prende le distanze dalla componente radical-libertaria e dalla sua ispirazione
‘politicamente corretta’. Quindi, dice la Wagenknecht, “Una femminista che
combatte per le quote femminili negli schemi di vigilanza [sul lavoro], ma non
ha nulla in contrario alle riforme del mercato del lavoro di Agenda 2010, anche
se queste generano posti di lavoro a basso salario e part-time a basso reddito per
milioni di donne, è vuota e ipocrita”.
Dunque, come dice anche in altri interventi, non si
tratta di buttare a mare le posizioni classiche, ma di semplice realismo: si
tratta di avere a che fare con le persone che hanno paura e approcciarle con
sensibilità, senza denigrarle subito come “razziste”. Se lo si fa, seguendo le
orme della SPD, di tutte le sinistre che
odiano il popolo, si perde l’elettorato, e giustamente. Bisogna, insomma, riconoscere che il concetto di
cosmopolitismo suona diverso per un ex-studente di Erasmus, aperto al mercato
del lavoro e qualificato, e per un disoccupato che subisce la concorrenza. In
un intervento
tradotto da “Voci dalla Germania”, Wagenknecht
individua la necessità che non siano sempre i più deboli, quelli che vivono nei
sovraffollati quartieri popolari e periferici, e che usano il welfare, accedono
alle liste per le case popolari, concorrono per i buoni libro e le mense
scolastiche, per le prestazioni sanitarie gratuite, a soffrire per la pressione
competitiva di una massa di recenti immigrati, relativamente più poveri e
bisognosi, che è stata improvvisamente importata, si è concentrata in pochi
luoghi (a causa della dinamica dell’offerta di condizioni di vita a basso costo
e la domanda di lavoro ‘debole’) e aggrava inevitabilmente le difficoltà di un
welfare sottofinanziato.
Con riferimento in particolare alla recente polemica
che ha visto alcune Tafel (associazioni di volontariato che distribuiscono
generi alimentari) decidere di dare priorità ai tedeschi sugli immigrati e
richiedenti asilo, Wagenknecht ribadisce la necessità di guardare al problema
con uno sguardo strutturale, sensibile al meccanismo in essere: da una parte l’emigrazione
impoverisce i paesi di estrazione, perché li priva della parte più mobile,
istruita e dinamica della popolazione (i veri poveri non possono muoversi,
restano ad affollare gli slums suburbani), dall’altra queste povere persone sradicate
e deboli, precipitate in un paese ostile, vengono utilizzate e sfruttate
creando oggettivamente maggiore concorrenza nei settori a basso salario e “dando
alle imprese ancora di più la possibilità di giocare mettendo l’uno contro l’altro”.
Questo meccanismo (che chiamo “delle due
economie politiche”) ‘non ha senso’ nella prospettiva di una formazione di
opposizione radicale di sistema. La prima
‘economia politica’ (quella che impoverisce i paesi di estrazione, saccheggiandoli
con molteplici politiche estrattive, delle quali l’emigrazione è parte e
conseguenza) è infatti messa in campo dal sistema delle imprese multinazionali
occidentale (e non solo) con il fattivo contributo, aiuto e spesso anche minaccia
espressa (anche militare) dei governi e delle organizzazioni internazionali ‘occidentali’;
in questo caso è il ‘business’, e i relativi gruppi di pressione così ben
rappresentati nelle stanze decisionali, a guidare la logica complessiva. Contemporaneamente
la catena dei prezzi, e quella dei corpi, collegano questa ‘economia politica’ alla
seconda, che in effetti la presuppone: l’economia
politica dell’immigrazione.
È quella che Amin chiama “la specializzazione
internazionale ineguale” (“Lo
sviluppo ineguale”, 1973, p. 248) a guidare il gioco, ovvero quella coazione
a riprodurre ‘economie sottosviluppate’ da parte del sistema dominante
decentrato dei poteri economici e politici. Ovvero economie in cui settori ed
imprese sono scarsamente integrate tra di loro, in stati deboli, ma restano
viceversa fortemente interconnesse, anche se in posizione subalterna e tributaria,
separatamente l’una dalle altre, in complessi estroflessi il cui centro di
gravità e controllo dei prezzi è altrove. Economie che dunque fungono da ‘campagna’
in favore delle ‘città’ (magari ‘globali’)
nella famosa immagine gramsciana.
È l’incastro di queste due ‘economie politiche’ che
sta devastando il mondo, provocando e regolando secondo le sue necessità
intrinseche, del tutto indifferenti a qualsiasi istanza sociale, politica o
finanche umanitaria, l’emigrazione e l’immigrazione. Sta facendo saltare ogni
possibile patto sociale e per ragioni necessarie e strutturali: si tratta di un meccanismo intrinseco alla
dinamica necessaria del capitale.
Persino Stiglitz, certamente non un marxista, lo riconosce:
“con curve
discendenti della domanda (il caso abituale), un incremento dell’offerta porta
normalmente a un prezzo di equilibrio più basso. Sui mercati del lavoro questo
significa che un afflusso di lavoratori dequalificati porta a una
diminuzione dei salari. E quando i salari
non possono scendere oltre, o non vengono diminuiti, ne consegue una maggiore
disoccupazione” (“L’Euro”, p.347).
La Wagenknecht si confronta con questo problema, che
richiederebbe l’introduzione a livello delle relazioni internazionali come
nelle economie dominanti del ‘centro’ almeno alcuni ‘elementi di socialismo’ (secondo
la vecchia formula riformista di Berlinguer), e che certamente interroga in
profondità la nostra civiltà con il suo carico di emozione, invitando a non
alzare semplicemente muri, ma neppure aggiungendo al torto sanguinante di
sfruttare il mondo l’unica alternativa ai singoli, come atomi dispersi, di
venire a fare i servi da noi. La soluzione non passa, cioè, per un incremento
di mobilità a condizioni invariate, lasciando che tutti siano soli a provare a
cavarsela combattendo, e quindi aggiungendo lo sfruttamento indotto dalle ‘città
globali’ sulle ‘economie sottosviluppate’ lo sfruttamento a casa nostra che completa
il modello di sviluppo ineguale. Neppure davanti alla doppia escatologia
contrapposta (ma curiosamente convergente, nella pratica contingente) del
cosmopolitico impero mondiale del capitale e della democrazia liberale (un
ossimoro di cui questo
è uno splendido esempio) e del razionale socialismo mondiale realizzato (ovvero
dell’internazionalismo dogmatico).
A chi, come Bernd Riexinger dice che i migranti
sfruttati sono la forza lavoro che potrà domani costituire la base, anche
elettorale, del movimento, risponde quindi che “puoi aiutare solo le persone che le tue infrastrutture e le tue
capacità permettono di aiutare”. E questo non per egoismo, ma proprio per
non innescare il meccanismo di lotta tra poveri che da una parte estende e
approfondisce lo sfruttamento da parte del capitale che è in posizione
dominante, dall’altra è strumento di controllo sociale, distrazione dalle vere
cause, e del degrado verso la destra populista del quadro politico. Bisogna,
insomma, “evitare che emergano mondi paralleli” e che la xenofobia si
intensifichi, in particolare nelle zone ad elevata immigrazione.
Foto di Gabriele Pasutto |
Bisogna, come mi sono espresso in precedenza, che si
assuma in pieno la responsabilità della formazione di un ‘noi’ che deve
includere entrambe le ‘economie
politiche’ messe in contatto nelle relazioni ineguali del mondo. I lavoratori
deboli e la ‘base sociale’ di cui parla la Wagenknecht, i migranti ed i non
ancora emigranti, messi in reciproca concorrenza dalla triplice apertura della
globalizzazione capitalista (che non è destino ma scelta): dei capitali, delle
merci e servizi, delle persone.
Non ci sarà del resto mai il tempo auspicato da Bernd
Riexinger del superamento e ricomposizione del sistema di sfruttamento (che è illimitato,
come la logica del valore fittizio che lo muove), se costantemente gli
sfruttati che si avviano a diventare consapevoli dell’insostenibilità della
loro condizione vengono sostituiti con altri per i quali questa è un
miglioramento.
Per poter accumulare la forza di costringere il
capitalismo ad arretrare dalle
attuali, distruttive, condizioni, bisogna in primo luogo che “l’economia
politica dell’immigrazione” sia distrutta, e con essa necessariamente e
parallelamente quella “dell’emigrazione”. E’ chiaro che qui lo Stato dovrà
avere un ruolo, anche negli investimenti (ma qui saremmo banalmente a Keynes,
che serve ma non basta); ma per
costringerlo, a sua volta, ad orientarsi in questa direzione bisogna prima
guadagnare la forza sociale. La ‘base sociale’ di cui parla all’inizio la
Wagenknecht, e dunque in primo luogo e momento bisogna rompere il gioco del
controllo dei lavoratori attraverso i lavoratori. Salari minimi,
controlli, rifiuto del ricatto della disoccupazione (e quindi lavoro di ultima
istanza), condizionalità del sostegno alle imprese, limiti alla circolazione
dei capitali speculativi in ingresso ed uscita, fair trade, interruzione dell’estrazione
di risorse finanziarie attraverso il controllo esogeno dei prezzi e i tassi
predatori dai paesi periferici, riconoscimento del diritto alla separazione
selettiva, multipolarismo e fine delle operazioni di ‘polizia internazionale’,
quasi sempre finalizzate a conservare il controllo delle due ‘economie
politiche’, retrocessione dalla integrazione ineguale in primis in Europa, sono
alcune delle urgenze.
Con la rivoluzione? Magari anche prima, il cammino è
fatto di molti passi.
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