Su Italiaeilmondo,
un dialogo con Roberto Buffagni, prima, e dopo con Massimo Morigi si sta
sviluppando sulla linea del confronto tra tradizioni culturali e punti di vista
diversi ma capaci di reciproco riconoscimento. La cosa era partita da un
commento ai fatti di Macerata di Roberto Buffagni che avevo riletto nella
mia tradizione come “scontro
di secolarizzazioni”, dal quale è nata un’altra linea di dibattito
interessante sulle pagine di Sinistrainrete
(l’ultima puntata è questa);
questo dibattito incrocia quello sulle “due
Europe”, anche esso avviato da Buffagni, cui replicai con “lo
scontro tra due europe” e quindi le repliche dello stesso Buffagni (qui
e qui).
Ciò che è in questione nell’intreccio dei tre dialoghi
è la questione della forma di universalismo verso la quale manifestare lealtà,
entro il sistema di tensioni non risolte della nostra cultura e valutando le
forze in campo, e la sua concrezione geopolitica nel progetto europeo e
mondiale, da una parte, e nella risposta alla crescita (per ragioni interne che
riassumo nello schema delle “due economie politiche”) della mobilità della
‘forza lavoro’, dall’altra. Si tratta di questioni dirimenti per il
posizionamento politico contemporaneo.
Sulla linea dello “scontro
di secolarizzazioni”, dunque sul registro dell’immigrazione, Massimo Morigi
replica in “Considerazioni
al margine” attraverso una densa lettura della tradizione politica italiana
imperniata sul momento risorgimentale e nella fattispecie la figura di Mazzini.
Commentando questo pezzo avevo quindi scritto “Identità
e universalismo”, nel quale venivano richiamati pochi momenti della grande
questione tra autenticità e autonomia che struttura il pensiero politico europeo
dei moderni nella sua formazione (attraverso snodi come Rousseau, Kant, Herder
ed Hegel, per dire), e viene ripresa ed attualizzata nel dibattito sul
multiculturalismo negli anni novanta e in quello sul comunitarismo. Nella
chiusa, in quelli che necessariamente anche per il mezzo possono essere solo
pochi appunti volanti, avevo scritto che oggi l’unica teoria della giustizia
possibile, dunque, è quella che è in qualche modo progettata
(rischiosamente) a partire dalle caratteristiche che lo sviluppo storico
concreto ha depositato nell’oggi, per come queste si sono date, cioè, dal
sedimento dei conflitti e dei successi o fallimenti nell’ottenere
riconoscimento da parte delle diverse soggettività.
Probabilmente anche l’unica possibile pratica
politica.
Massimo Morigi risponde con un pezzo
che riprende questi temi dal punto di vista del “repubblicanesimo geopolitico” e
sceglie di manifestare “l’estrema e multilaterale debolezza” del mio argomento
giudicato centrale: l’interpretazione di
Charles Taylor della tensione tra autenticità e autonomia nella nostra cultura.
E soprattutto la tesi del nostro che vi sia una discontinuità tra la lettura
dell’autenticità come progetto, sia pure costantemente sfidato da eteronomia
(in quanto è autentico in effetti chi non sottopone a riflessione l’essere in
cui si trova collocato), dei moderni e quella delle generazioni precedenti. In
altre parole, che l’identità sia da leggere in modo diverso per un moderno e
per un uomo colto premoderno. Con le parole di Morigi:
Il passo di Visalli testè citato sembra quindi
suggerire, assieme a tutto il tono del suo intervento, che il problema
dell’identità dei popoli, e di riflesso degli individui che questi popoli
compongono, ha inizio in epoca moderna, legato prevalentemente ai fenomeni di
secolarizzazione e di progressiva riduzione della dimensione del sacro.
L’obiezione è che, se pure di nazione e della relativa
identità si cominciò a parlare con un tono diverso anche a seguito della sfida
napoleonica e in ambiente tedesco prima con Herder e poi con i “Discorsi alla nazione tedesca” di
Fichte, in evidente polemica con l’universalismo illuminista (che con Napoleone
era imperialismo, se visto dall’alto lato delle baionette), l’identità
nazionale agonistica preesiste, e di molto. Gli esempi di Morigi sono i greci
contro i persiani, gli ebrei, i romani, e quindi dell’idea di Italia che emerge
nel medioevo (sia pure tra pochi intellettuali, tra i quali cita Dante e
Baldassar Castiglione, o, ovviamente, Machiavelli).
D’altra parte l’interlocutore finisce per concordare
con la conclusione:
Scrive Visalli in conclusione del suo pregevole
commento al mio articolo: «L’unica teoria della giustizia possibile, dunque, è
quella che è in qualche modo progettata (rischiosamente) a partire dalle
caratteristiche che lo sviluppo storico concreto ha depositato nell’oggi, per
come queste si sono date, cioè, dal sedimento dei conflitti e dei successi o
fallimenti nell’ottenere riconoscimento da parte delle diverse soggettività.
Probabilmente anche l’unica possibile pratica politica.» Per quanto da indegno
erede del crociano storicismo assoluto io sia del tutto hegelianamente
diffidente verso ogni teoria, anche se sotto forma di ‘teoria della giustizia’,
calata sulla “realtà effettuale”, non ho alcuna difficoltà a riconoscermi nello
spirito di questa affermazione, il cui nucleo è il sacro rispetto che si deve
avere di quell’ “astuzia della ragione” che consiste nel secolare deposito
storico di aspirazioni e tradizioni apparentemente contraddittorie ma che
proprio nella loro contraddittorietà – ed anche mutua violenza e volontà nel passato
e, purtroppo, anche odierna, di sopprimersi – formano oggi, del tutto
analogamente a come avviene per gli altri popoli, la nostra identità come
individui e come popolo.
Tenendo per buono questo finale accordo, probabilmente
conviene però spendere qualche parola sul contesto nel quale viene individuata
la discontinuità tra moderni e classici che ha colpito Morigi. Sostiene infatti
questi che sia “assolutamente da respingere come storicamente inesatta l’idea
che i popoli per sviluppare ed avvertire una propria identità, …, abbiano
dovuto aspettare il XVIII secolo”, e specificamente “di una identità avvertita
come agonistica rispetto alle altre”.
Ora, ci sono molti modi di reagire a questa osservazione:
-
- da una parte
‘l’agonismo’ tra le organizzazioni più o meno statuali e le nazioni è
ovviamente un fatto della storia. Ma entrambi i termini sono anacronistici, se
utilizzati prima della modernità nella quale si forma lo Stato-nazione, in
riferimento alle entità politiche e società preesistenti.
- Dall’altra la specie
umana è sempre stata formata da individui, ma non sempre questi hanno concepito
se stessi e i gruppi nei quali erano immersi nello stesso modo. Il legame sociale è sempre mutato e ancora muta
portando con sé l’insieme delle istituzioni, dei valori e delle norme sociali,
quindi anche le identità rese possibili da queste. Anche parlare di ‘popolo’,
al singolare, prima della modernità contemporanea, con la potenza dei suoi
mezzi di comunicazione, per dirne una, rischia di proiettare esperienze
contemporanee sul passato in modo indebito.
Quel che possiamo provare a nominare come ‘i popoli’
(che poi a grandi linee sono solo le loro élite e le clientele ad esse connesse
in vario modo, e quindi facenti parte del ‘modo di produzione’ tributario ad
esse) hanno sempre sviluppato una loro specificità, e quindi ciò che oggi
chiamiamo una loro ‘identità’, ma quanto
ad avvertirla il passo non è sempre automatico. Parlare dei ‘greci’ (una
realtà molto più fratturata di quanto ci piaccia sapere, e la cui tradizione ci
viene trasmessa da pochissime fonti, quasi tutte ateniesi, relative a poco più
di un secolo e praticamente tutte di parte aristocratica, a partire dalla linea
principale dei filosofi e dei drammaturghi) come di un ‘popolo’ opposto ai
‘barbari’ (prendendo per buona la retorica imperiale ateniese e poi macedone)
richiede una certa distanza, avvicinandosi l’immagine si frammenta. Egualmente
per i ‘romani’, il non-stato più multiforme, politicamente, giuridicamente,
etnicamente e culturalmente, dell’antichità.
Diciamo che bisognerebbe entrare molto dettagliatamente
nel merito, ed interrogare le fonti con occhio ed orecchio attento alle
differenze, che spesso baluginano nei dettagli, più che alle presunte
somiglianze (che possono facilmente essere proiezioni).
Ma anche l’osservazione di Charles Taylor va ascoltata
nel suo proprio contesto, ovvero entro l’ambiente di discorso al quale il
filosofo e storico canadese reagisce. Intanto dalla disciplina principale nella
quale interviene: filosofia morale. All’ambiente culturale: Oxford prima USA,
dopo. Quindi al periodo: anni settanta per gli studi hegeliani, ottanta per la
teoria del linguaggio e dell’azione, l’epistemologia, e poi teoria
dell’identità moderna al finire degli anni ottanta, e storia delle idee negli
anni a cavallo del millennio. I suoi libri più famosi sono “Hegel”,
1975, “Radici dell’Io”, del 1989, e “L’età secolare”, del 2009.
Si tratta di un autore che avvia la sua riflessione
sulla scorta di quell’evento epocale che fu la pubblicazione di “Una teoria della giustizia” di John
Rawls del 1971. La ripresa della più antica tradizione contrattualista, in
aperta polemica con l’allora egemone teoria morale utilitarista, nel libro
epocale di Rawls determina infatti negli anni seguenti una completa
ridefinizione del campo. La teoria politica liberale ne viene del tutto
riscritta; quella linea genealogica che aveva Hobbes e Locke come padri, poi
Kant e J.S. Mill, è riaggiornata da Rawls tenendo fermi i suoi caposaldi:
concezione naturalistica dei diritti, libertà individuale come non
interferenza, autonomia in senso personale e non collettivo, eguaglianza di
principio, democrazia. Ma viene creata anche una coerente cornice intellettuale
per far posto a quelle modifiche che il novecento aveva imposto a partire dal
new deal: le libertà positive e la redistribuzione, quindi per fare spazio alla
‘questione della giustizia’. Il liberalismo di Rawls fa infatti perno sulla
questione dell’eguaglianza, la determina come problema, mentre il liberalismo
utilitarista classico si limitava a porre la questione della ‘libertà’
(negativa). Le questioni che diventano rilevanti sono a questo punto
soprattutto due: la neutralità o meno dello Stato rispetto a diverse visioni
del bene; la natura dei beni che vanno redistribuiti. Del primo problema la
discussione si sviluppa con Dworkin, Ackerman, Nagel, Scanlon, ma anche Nozick.
Del secondo si discute con i proceduralisti, ad esempio con Ackerman e Habermas
(ne avevamo parlato qui).
Ma su questo terreno nasce anche una diversa controversia
che esce dal campo liberale, e in alcune versioni attacca direttamente l’impostazione
neo-kantiana di Rawls facendo uso di argomenti neo-hegeliani. È un attacco
dall’esterno (mentre il primo era dall’interno), ed impegna gli anni tra
ottanta e novanta. Si tratta della ripresa di motivi classici, della teoria
della virtù, o comunque non liberali, da parte di una nuova famiglia di critici
che sono stati etichettati come ‘comunitari’. Gli autori più rilevanti sono
Alasdair MacIntyre, di cui leggeremo “Dopo
la virtù”, del 1981; Michael Walzer, di cui leggeremo “Sfere di giustizia”, del 1983; Michael Sandel, “Il liberalismo e i limiti della giustizia”,
1982. La tesi a grandissime linee è che non si può presumere, se si pone la
questione della giustizia, che lo stato si mantenga neutrale tra opposte
concezioni del bene, o della vita buona, perché queste costituiscono gli
individui che sono sempre situati ed incarnati in esse.
Charles Taylor è un esponente di seconda generazione
di questa reazione all’astratto proceduralismo liberale. Ciò che scrive sulle
radici dell’io e la storia delle idee che lo hanno costituito nella modernità
va quindi necessariamente inquadrato in questa polemica.
Per il nostro l’identità in senso moderno si
caratterizza dall’avere contemporaneamente tre caratteristiche: la percezione
dell’interiorità, l’affermazione della vita come comune ed in comune, l’idea
della moralità come naturale. Nello spazio morale si determina quindi un ‘io’
quando riusciamo a comprendere che cosa sia per
noi di importanza cruciale e quindi in un certo senso quando sappiamo ‘dove’
siamo. Quando diventa possibile assumere una posizione e trovarsi in un
orizzonte nel quale possiamo stabilire, di volta in volta, e caso per caso, che
cosa è da tenersi per buono, quindi cosa dobbiamo fare o avversare. In altre
parole noi siamo in quanto ci stanno a cuore delle questioni e non altre, in
quanto siamo dotati di autointerpretazioni che non sono completamente
esplicite, e in quanto siamo immersi in relazioni. Nessuno può essere descritto
senza fare riferimento a quelli che lo circondano (T., “Radici dell’io”, p. 52). Dunque l’io esiste solo all’interno di
‘reti di interlocuzione’, e non nell’astratto e disincarnato vuoto immaginato
dai ‘diritti civili’ liberali. E non esiste staticamente, ma solo
narrativamente, sapendo non solo ‘dove siamo’ ma anche ‘dove andiamo’ e ‘da
dove’.
Anche Taylor, in effetti, sviluppa una critica allo
scientismo di cui è imbevuto il liberalismo naturalista (e le scienze
economiche) e valorizza la strategia di Aristotele (come MacIntyre), tendente a
definire come ‘vita buona’ quella che “combina nel più alto grado possibile
tutti i beni cui aspiriamo” (idem, p.93).
Ecco che la ‘meglior forma’ evocata da Morigi trova
una possibile cornice: la ragion pratica evocata ha a che fare con il racconto
biografico, con la possibilità, esercitando una forma narrativa di ragione, di
mostrare che una data soluzione tiene insieme meglio ciò che ci è caro, risolve
meglio le contraddizioni presenti, dissolve confusioni ricorrenti.
Nel capitolo dodicesimo del suo libro sulle radici
dell’io Taylor compie una digressione sulla spiegazione storica che direttamente
chiarisce il dubbio che Morigi avanza. Il percorso ricostruttivo nel quale
indulge (parlando di Cartesio, Locke, Montaigne e via dicendo) non è né una
spiegazione ‘idealista’ né una spiegazione storica strictu sensu. Non cerca di
dimostrare causazioni diacroniche, come propone ad esempio il marxismo, ma
cerca solo di enucleare quali caratteristiche siano state capaci di far
affermare la nuova idea di identità (p.256). La relazione tra le idee-forza
(ovvero capaci di motivazione e di emergere come parte della
autointerpretazione narrativa) e i meccanismi di causazione, è dunque
riconosciuta come complessa e passante per pratiche sociali concrete, per
l’applicazione di ciò che si può o non può fare. L’ambizione non è di
risolverla.
Il seguito vede un ampio racconto che passa per la
razionalizzazione del cristianesimo, esemplificata e condensata da Locke e poi le
teorie dei sentimenti morali della scuola scozzese, Shaftesbury, Hutcherson,
dalla quale emerge la categoria ‘dell’economico’ come ordine provvidenziale
(gioverebbe anche ricordare
Genovesi) che si autoregola. Quindi per gli orizzonti frantumati della perdita
di dio (cui dedica il ben più ponderoso “L’età
secolare”) e l’illuminismo radicale nel quale si afferma una idea di
ragione autoresponsabile, strettamente connessa con la nuova ragione
scientifica (Newton) e con l’affermazione dell’utilitarismo (p.410). Per il
‘controilluminismo’ di Rousseau e la nozione di ‘autonomia’ messa a fuoco da
Kant fissa l’ideale di essere razionali, ma anche per la svolta espressivistica
di Herder (p. 459) e l’idea di avere in effetti delle profondità interiori.
Da Darwin muove quindi la definitiva affermazione di
un ordine senza ordinatore che mette a sistema la visione morale dello
scientismo, affermando la secolarizzazione, che si può riassumere
nell’enunciato “non si deve credere ciò di cui non si hanno prove sufficienti”.
Un concetto di drammatica importanza, nel definire ciò che può essere e ciò che
invece deve recedere, che si fonda su due idee-forza per Taylor: la libertà
come razionale autoespressione e l’eroismo dell’incredulità. Da qui emerge una
sorta di esigenza morale rovesciata: quella di non credere.
Il passo successivo è l’espressionismo postromantico
di Schiller, Baudelaire, Schopenauer e Kierkegaard, ma anche Dostoevskij e
Nietzsche. E la ricerca di una via di uscita dal mondo meccanico in Husserl,
Heidegger, Adorno.
Il punto per Taylor, nel contesto non di una ricerca
storica ma di una rimemorazione delle radici dell’io (anche se la relazione
causale è incerta e la stessa composizione multiforme) è che “una società di persone tese [solo] all’autorealizzazione
e le cui affiliazioni vengono considerate sempre più come revocabili non può
sostenere quell’identificazione forte con la comunità politica che la libertà
pubblica richiede” (p.617).
Insomma, il punto è precisamente quello evocato nel
post “Ripensare
i fondamenti: ‘libertà’”: l’idea di libertà come egoismo non limitato,
spesso connessa internamente con lo scientismo, è strutturalmente e
geneticamente connessa con l’inibizione dell’azione collettiva e milita contro
quella che Taylor chiama la “libertà pubblica”. La “libertà privata” atomistica
impedisce l’affermazione della “libertà pubblica”, l’autorealizzazione
individualista con la lealtà collettiva.
La questione è dunque politica.
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