Gianpasquale Santomassimo, recentemente, ha scritto
nel tempio della sinistra-sinistra mainstream, Il Manifesto, che dopo questa sconfitta epocale “senza ripensare tutto sarà impossibile ripartire”.
Come scrive
Fabrizio Marchi su l’Interferenza, ha
proprio ragione.
Ma ripensare tutto, che significa?
Bisognerebbe intanto capire meglio che cosa designiamo
con ‘sinistra’, perché in essa convergono tradizioni e culture non sempre
compatibili, ed in particolare bisognerebbe riguardare alla storica opposizione
tra ‘liberalismo’ e ‘socialismo’ ed alle loro reciproche ragioni; da questo angolo
ripensare alla differenza tra ‘cosmopolitismo’
e alle ragioni, non tutte innocue, per le quali alcuni socialismi e pressocché
tutte le sinistre oggi lo sposano (anche se a volte sotto l’etichetta di ‘internazionalismo’,
che a guardare l’etimo ha la potenzialità di avere diverso
significato). Su questo sentiero si incontra da una faccia diversa lo
stesso europeismo, progetto
storicamente essenzialmente liberale, e spesso della versione di destra di
questo. E si incontra anche l’universalismo:
specificamente quella versione intrecciata all’utilitarismo che sta alla radice,
non vista, della presunzione di beneficio globale da attribuire alla libertà di
movimento, dunque alle immigrazioni/emigrazioni
senza limiti.
Su questa strada, un aspro sentiero di montagna, si
incontrano, insomma, molti interdetti.
Molte linee di scontro con il ‘politicamente
corretto’ che un buon uomo/donna di sinistra, educato e pacifico, non
omette mai di rispettare.
Una persona di sinistra, in questo secolo, è, insomma:
politicamente sempre corretta e ben educata, cosmopolita, universalista ed
europeista, favorevole alle emigrazioni illimitate.
Basterebbe questo a chiarire il risultato elettorale e
l’insediamento sociale ormai limitato.
Un osservatore al di sopra di ogni sospetto come Nadia
Urbinati, uno dei prototipi stessi di intellettuale di sinistra, liberale e
cosmopolita, evidentemente toccata profondamente dall’esito del voto, denuncia
in un suo recente
intervento la necessità di protezione a fronte, per troppi, del rischio di
abbassamento del livello della propria vita e lavoro. E quindi il successo di
partiti che si propongono come ‘contenitori dell’ira’ (come i vecchi partiti di
massa del novecento che credevamo scomparsi) mentre in una mutazione genetica,
che è evidentemente completa mutazione dell’insediamento sociale, la sinistra si
è spostata nei quartieri borghesi, dove guadagna i suoi voti. In questi difende,
ma chi già sta bene.
Questa sinistra promuove la libertà, certamente, ma
fondamentalmente la libertà di stare da soli, godendosi la tranquillità
conquistata.
Come dice la Urbinati, che non ha mancato di
guadagnare qualche scomunica per questo, “da un partito che aveva un progetto
di emancipazione per tutti a un partito che è diventato un progetto di
conservazione di chi sta bene... È diventata (e considerata) a tutti gli
effetti il partito delle classi medie e medio-alte ben integrate, non in tensione
verso l’emancipazione (a parte i diritti civili), ma attenta a conservare il
proprio status”.
Esiste una ben studiata relazione tra mutua
considerazione, capacità di cooperazione e fiducia reciproca, ed omogeneità
sociale messa in questione dall’universalismo cosmopolita. Dagli studi di
Robert Putnam, a innumerevoli di marca liberale (es. il classico libro di Alesina
e Glaeser, “Un mondo di differenze”,
2004, nel quale la disuguaglianza maggiore negli USA è messa in relazione con l’assetto
istituzionale, l’omogeneità sociale inferiore e la diversa cultura) la
correlazione va dalla maggiore omogeneità sociale e culturale, che favorisce le
politiche redistributive in quanto le dota della necessaria empatia e fiducia,
al maggiore multiculturalismo che riduce la dotazione di altruismo socialmente
disponibile e favorisce politiche dell’egoismo. Del resto questa è precisamente
la tesi sullo sfondo della proposta di Friedrich Hayek e Lionel Robbins, una
figura poco nota ma cruciale, di promuovere l’unione europea in chiave
antisocialista, precisamente valorizzando la psicologia sociale alla base di questo
meccanismo. In “Le
condizioni economiche del federalismo tra stati”, nel 1939, l’economista
liberale sosteneva l’esistenza di nessi sistematici tra un approccio
sovranazionale, da lui promosso, e federalista, e l’inibizione della capacità d’azione
dello Stato nazionale che rischiava di promuovere il socialismo. Ciò che era da
rimuovere, per ripristinare le desiderate condizioni della prima parte dell’ottocento
(Laissez faire e totale assenza di organizzazioni influenti dei lavoratori) era
la sovranità degli stati, influenzabili dalla dinamica politica e dalle forze
sociali organizzate perché internamente solidali. Robbins è più netto: “se non
distruggiamo lo Stato sovrano, lo Stato sovrano distruggerà noi”, dove il “noi” sono
i liberali cui appartiene (l’economista inglese fu dall’inizio un fiero avversario
di Keynes). La federazione, sostituto funzionale dell’impero venuto
meno, avrebbe garantito, per il suo cosmopolitismo e mancanza di solidarietà
con i vicini, che le forze della competizione impediscano le forme invasive di
regolamentazione, di gestione e di tassazione. È la presenza della
competizione, in uno con l’assenza di solidarietà a causa della eterogeneità
eccessiva, a rendere per Hayek impossibile favorire un territorio verso un
altro, un gruppo rispetto ad un altro e quindi avrebbe lasciate libere di
funzionare le forze del mercato. In quello che sembra esattamente il programma
della Unione Europea scaturita da Maastricht (non a caso figlio della sconfitta
epocale del socialismo), Hayek dice che la federazione, a causa di questa
necessaria struttura, dovrebbe “avere il potere negativo di impedire ai singoli Stati certe
interferenze con l’attività economica, sebbene essa possa non avere il potere
positivo di agire in loro vece” (p.77). La politica economica residua si limiterà quindi a
“fornire un quadro razionale permanente
all’interno del quale l’iniziativa individuale avrà il più ampio spazio
possibile e le si permetterà di operare nel modo più benefico possibile”.
Dovrà essere chiaramente una politica “di lungo termine”, proprio perché
essendo tutti in tale termine morti (come disse Keynes) non sarà a favore o
contro qualcuno di attualmente presente.
Sconfitta nel 1989 e davanti allo spettacolo del
capitalismo liberale trionfante, la sinistra di tradizione socialista ha
ripiegato su queste idee, senza avvedersi fino in fondo della loro logica
interna. L’abitudine a considerare la Storia come progresso lineare verso un
fine, dialetticamente scaturente dalla dinamica delle forze, e di questo come
pieno dispiegarsi nella forma di ‘leggi’ delle forze produttive dell’umanità ha
portato quindi a spostare il focus sulla retorica wilsoniana riproposta dal
mondo anglosassone con gli scopi di sempre (imperiali). La ‘fine della storia’
era arrivata nella forma dell’universalismo liberale, cosmopolita e
antistatalista, ordinato nella competizione tra privati ma non tra stati, antiegualitario
se non sulla rubrica dei diritti civili, mondiale.
Ogni universalismo parla di comunità, ma questa è
disincarnata (usando una parola spesso citata da Sandel), vuota, di fatto
impossibile. Ogni universalismo parla, in realtà, di potere di un centro verso
periferie che sono delegittimate, disprezzate, rese invisibili.
La mutazione genetica della sinistra parte anche da
questi spostamenti.
Ci sarebbero molti e diversi cantieri da aprire per
ripensare questo assetto così coerente, ma anche così potente nell’inibire l’azione
sociale e nell’allontanare dal comune sentire della parte meno protetta.
Uno di questi è l’idea che abbiamo di ‘libertà’. Quale ‘libertà’ nomina in
effetti la sinistra? Di chi è diventata l’erede intellettuale? E di chi è il
figlio?
E, credo proprio di poter dire, anche dopo aver letto il
programma e osservato il percorso di Potere
al Popolo (come, del resto, quello di
Liberi e Uguali), anche la sinistra radicale, oltre il disorientamento
strategico che la porta a sommare rivendicazioni senza collante, sembra
ispirarsi ad una versione anarcoide della stessa ispirazione: la libertà come assenza di impedimento e
capacità di eseguire la propria volontà ed il proprio ingegno. Ovvero, come
scrisse Hobbes: l’uomo libero in quanto “non è impedito di fare ciò che ha
volontà di fare”.
Sembra abbastanza ovvio: essere liberi significa non
essere impediti nel perseguire i propri scopi. E sembra ovvio che ne debba
scaturire un’agenda tutta concentrata sui diritti civili (che dagli anni ottanta
del secolo scorso è quasi l’unica accezione possibile di progressismo per molti).
Ma Hobbes aveva uno scopo politico specifico, e non
era proprio la rivoluzione (semmai il consolidamento della monarchia), e altri
scopi avevano gli altri eroi liberali che portano avanti questa idea: John
Locke, John Stuart Mill, di recente Robert Nozick. Si trattava sempre di
proteggere il singolo, normalmente borghese ed abbiente, nei suoi ‘liberi’
comportamenti egocentrici e idiosincratici dalla pressione che gli potrebbe
venire da concrete società. Ovvero proteggere il singolo dagli obblighi
sociali.
Seguire questa idea, spesso inarticolata e solo
assorbita dall’aria, significa credere in fondo che è ‘naturale’ l’uomo sia
solo, e che sia naturalmente egoista e anche, alla fine, aggressivo e pericoloso.
L’egoista naturale quindi calcola, è ‘razionale’, non ha obblighi costitutivi
antecedenti e non si impegna se non sul piano di un contratto.
Questa libertà
come egoismo non limitato è sempre stata il bersaglio specifico del
socialismo. Anzi, lo è stato anche di tutti i movimenti di protesta ed
opposizione che hanno cercato di mettersi dalla parte del popolo, a partire da
Mazzini (si veda “Pensieri
sulla democrazia” e “Dei
doveri dell’uomo”).
Si può, all’altezza di questa grande tradizione,
ripensare alla ‘libertà’ come effetto di conflitti specifici non tra individui isolati
ed atomistici, in reciproca competizione, ma scaturenti da concrete fatticità e
storicità socialmente costituite. Non è del resto possibile, senza ricadere in
forme patologiche dell’io, sfuggire alla costituzione di ciascuno entro un
ordine sociale nel quale trovare senso. Una libertà così definita fonda nell’articolazione
della connessione costitutiva tra individuo e cornice normativa della società
stessa, e della cornice con tutte le sue fratture e conflitti. Ma ciò non
implica che l’individuo non possa autodeterminarsi, è il contrario esatto: l’individuo
si autodetermina solo se sceglie liberamente, e lo può fare solo se viene
abilitato da un ordine sociale ‘giusto’. Nessuno può essere davvero ‘libero’ da
solo. È libero, da solo, esclusivamente chi gode di una posizione di privilegio
che lo mette al sicuro dall’aver bisogno del sostegno degli altri, e che anzi
può usare tutti gli altri come mezzi per il suo sostegno. È libero, da solo,
esclusivamente chi ha potere e non riconosce che questo gli viene dalla società
che lo ha concesso. In altre parole, essere liberi, da soli, implica una
sociopatia.
Allora il vero scopo, per essere ‘liberi’, deve
essere di garantire che nella realtà sociale tutta, istituzioni incluse, sia
possibile dispiegare delle socialità
nelle quali gli individui possano scegliere senza coazione e disponendo delle
necessarie risorse materiali. La libertà si deve dare, cioè, nella sfera dell’oggettività
o non essere. Questo era lo scopo del socialismo che abbiamo del tutto
dimenticato nel 1989.
Nella tradizione hegeliana questa forma si chiama “libertà sociale”, e si oppone,
completandola, a quella “negativa” di Hobbes, ma anche a quella “riflessiva” di
Kant (e Rousseau) e implica che la condizione ed il modello della libertà sia generata dalla cooperazione sociale.
Ovvero, e questo molta sinistra ha teso a
dimenticarlo, concentrandosi in un governismo di orientamento interclassista, o
in un ribellismo di fatto ripiegato nelle proprie nicchie, ma sempre di marca
individualista, si è davvero ‘liberi’ solo se si parte da specifici gruppi
sociali, capaci di portare se stessi in campo, impegnando le proprie visioni,
esigenze e storie. Il che oggi di fatto significa anche che si può solo se si
rischia la connessione con il discorso populista.
L’unico progresso possibile, dunque anche l’unica
forma di progressismo che non suoni falsa (che non odori di falsa coscienza e
ideologismo), è nella disimplicazione delle strutture di capacitazione e delle
risorse anche materiali per divenirlo; nell’inclusione abilitante che muove
dall’interno di socialità e le fa libere.
In altre parole, nessuno può essere libero se è solo, abbandonato a ‘lavoretti’
in un ambiente sempre più aggressivo e competitivo, e manca di qualsiasi
relazione sociale di sostegno.
Se la sinistra, recuperando la sua differenza dal
liberalismo, vuole fare davvero un discorso di libertà è da qui che deve
partire: dal ‘noi’ e non dall’ ‘io’.
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