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martedì 20 marzo 2018

Paul Collier, “Exodus”



L’economista inglese, di lontana origine tedesca, Paul Collier (famiglia Hellenschmidt) è un esperto di economie africane e direttore di un centro studi di Oxford. Di scuola neoclassica, è stato per cinque anni direttore del Centro di Ricerche della Banca Mondiale, uno dei templi mainstream in anni certamente non particolarmente critici (1998-2003), inoltre è stato consulente di Blair e da conservatore sostiene in tutto il libro la semplicistica tesi che le carenze di sviluppo dipendono essenzialmente da cattive istituzioni e culture non adeguate al livello della tecnica (citando Acemoglu), insieme al classico postulato marginalista per il quale ognuno riceve in ultima analisi quel che produce. La straordinaria circostanza per la quale poche famiglie hanno quasi la metà dei patrimoni del mondo deve quindi dipendere dalla loro straordinaria produttività.



Ma il testo è interessante per la modellizzazione del fenomeno dell’immigrazione e la sua posizione non convenzionale rispetto agli opposti tabù che la riguardano. In particolare i tabù propri della posizione progressista, secondo la quale non si può neppure immaginare un lato negativo, e l’evidente avversione popolare ad essa è semplicemente segno di arretratezza culturale. Del resto l’immigrazione deriva per lo più dal fenomeno della disparità di reddito e ricchezza tra aree geografiche, e quindi tutte le passioni che evoca sono abbastanza confusamente intrecciate con le nostre opinioni sulla povertà, lo sviluppo, il nazionalismo ed il razzismo. Si mescola inesorabilmente con i nostri sensi di colpa in merito.

L’attacco ai tabù inizia presto: nella prima parte del libro Collier, facendo uso di una buona letteratura specialistica, ricorda come il nazionalismo, se può essere connesso con la violenza, lo è sicuramente con la coesione sociale. Sentirsi uniti da valori e storie comuni incrementa la capacità di cooperare, e quella di venire in soccorso del vicino e simile.
Tenendo bene a mente questo fatto centrale, l’autore prova a distinguere analiticamente tra gli impatti su tre diversi gruppi: i migranti, le popolazioni autoctone, le persone che rimangono dei paesi di provenienza dei primi. I primi traggono i migliori benefici, per le seconde l’effetto dipende essenzialmente dal livello di reddito e stato nel mondo del lavoro, le terze sono le più probabili danneggiate, almeno quando il fenomeno è rilevante ed in accelerazione ed il paese di provenienza è piccolo. Ma in tutti i casi, ammette tranquillamente, sono i fenomeni sociali a prevalere su quelli economici, e, anche sul piano della coesione sociale e politica alla fine “è probabile che per le fasce meno abbienti della popolazione gli effetti netti siano spesso negativi” (p.18).

Dunque bisogna ammettere che, come spesso accade (ad esempio nel commercio internazionale), esistono effettivamente vincitori e vinti. Come per gli altri casi, dunque, bisognerebbe risarcire i perdenti traendo fiscalmente risorse dai vincenti (ovvero, semplicemente, aumentando la tassazione alle imprese che adoperano immigrati, e abbassano gli stipendi, utilizzando i proventi per investire in formazione, assistenza, incremento del welfare). Questo direbbe la teoria economica, (come dice anche Stiglitz) come nel caso del commercio scrive con candidezza che sfiora lo sfrontato Paul Krugman (uno specialista), con Obstfeld e Melitz in “Economia Internazionale. Teoria e politica del commercio internazionale” dice: “il commercio beneficia il fattore che è specifico al settore esportatore di ogni paese, ma danneggia il fattore specifico ai settori che competono con le importazioni, con effetti ambigui sui fattori mobili” (p.86). Se i guadagni superano le perdite, cioè se “i soggetti che ottengono vantaggi dal commercio potrebbero compensare coloro che ne sono danneggiati e stare comunque meglio”. Allora (e solo allora), cioè “se è così, allora il commercio internazionale è potenzialmente una fonte di guadagno per tutti” (corsivo nel testo).

Nello stesso modo nella teoria economica standard si sostiene sfrontatamente che il saldo tra chi perde (i ceti popolari) e chi vince (la classe media superiore e i possessori di capitale) è alla fine aritmeticamente positivo e quindi la società nel suo complesso si arricchisce. Nel medio periodo, si dice, qualcosa gocciolerà e quindi tutti staranno meglio. In sostanza c’è una “utilità globale” nel fenomeno dell’immigrazione.

Ma cosa genera l’immigrazione? Essenzialmente per Collier è semplicemente il divario di reddito in presenza dell’abbassamento delle barriere che i governi occidentali, sotto la spinta delle lobbies industriali alla presa con gli alti salari e la quasi piena occupazione (in conseguenza di organizzazioni dei lavoratori potenti) del finale ‘trentennio glorioso’, praticarono nel tentativo, come dice, di “arginare la militanza” (p.30). Ma emigrare costa, dunque il meccanismo, detto in modo semplice, è alla fine determinato da una parte dalla spinta generata dall’attesa di incrementare il proprio reddito per effetto dell’inserimento in sistemi economici e sociali più produttivi (con una composizione organica del capitale più favorevole), dall’altra ciò è contrastato dal costo, economico, sociale e cognitivo di farlo. È in questa semplice meccanica che si inseriscono quelle che per Collier sono le infrastrutture più importanti nel determinare la dinamica del fenomeno: le diaspore.
La presenza di una comunità locale strettamente coesa di concittadini, culturalmente compatibili, determina infatti un enorme abbattimento dei costi di emigrazione sopportati, ma, come vedremo, rischia di ostacolare l’integrazione. Le diaspore, quindi, sono decisive nel far accelerare il fenomeno e nell’allontanare il possibile punto di equilibrio e stabilizzazione. Con le sue parole: “il tasso migratorio è determinato dall’ampiezza del divario di reddito, dal livello di reddito nei paesi di origine e dalle dimensioni della diaspora” (p.32).

Il flusso dell’immigrazione dipende dal divario di reddito e dallo stock di migranti precedente che non si è integrato. In particolare la dimensione dello stock non integrato (ovvero della ‘diaspora’) dipende dalla trasmissione interpersonale della cultura e degli obblighi. Chiaramente il perimetro delle diaspore è fluido e continuamente attraversato da persone che arrivano e da persone che, integrandosi, ne escono.
Ci sono tre semplici conclusioni:
1-     La migrazione dipende dalle dimensioni della diaspora (che, in sostanza, la attrae),
2-     La migrazione alimenta la diaspora, mentre l’integrazione la diminuisce,
3-     L’indice di integrazione (percentuale di chi esce dalla diaspora ogni anno) dipende dalla dimensione, quanto più grande è la diaspora quanto più piccolo è l’indice.

Questo flusso migratorio, che è diverso da quello episodico determinato da crisi esogene, guerre, calamità, può quindi stabilizzarsi se il flusso che viene attirato dalla diaspora equilibra quello che se ne allontana perché si integra. Può cessare solo se si annulla il divario di reddito che, dato non dipende come nei casi sette-ottocenteschi a partire dai quali si è formata la modellistica tradizionale dalla terra sovraffollata/occupata, non si può stabilizzare semplicemente per saturazione (p.44). In conseguenza di per sé la migrazione non potrà ridurre il divario, perché questo dipende dall’efficienza complessiva del sistema economico e sociale.
Dunque tutto lascia pensare che i flussi non si stabilizzeranno da soli, anzi, cresceranno in funzione degli enormi divari di reddito tra le nazioni e in particolare dei divari tra i redditi medi percepiti attraverso i canali (media, passaparola) internazionali e quelli percepiti, corpo a corpo, nella realtà locale. Come dice Collier: “nel prossimo futuro, la migrazione internazionale non raggiungerà il punto di equilibrio. Siamo alle prime fasi di uno squilibrio di proporzioni epiche” (p. 45).

Questo squilibrio produrrà effetti crescenti e differenziati. Nei paesi ospitanti le ricadute sociali sono come una sorta di U rovesciata, ai bassi tassi di immigrazione ci sono effetti modesti e positivi, ad alti ci sono perdite consistenti e molto differenziate tra le popolazioni bersaglio. In particolare ciò che viene danneggiato, e ciò è più che evidente ovunque, è la disponibilità all’altruismo ed alla mutua considerazione, la fiducia che cala con l’aumento della diversità sociale (tesi abbastanza classica degli studi economici neoclassici, ad esempio di Alesina). Ciò è tanto più vero quanto più è diversa la cultura dei migranti.
Come sostiene Robert Putnam (che non è un autore conservatore), l’immigrazione riduce il capitale sociale della popolazione autoctona, la mutua considerazione e la propensione a tenere conto dell’equità. Dunque in effetti, per una serie di ragioni tecniche e di psicologia sociale, più sale la diversità, più peggiora l’erogazione dei beni pubblici (tesi di fondo del famoso libro di Alesina e Glaeser, citato a pag. 79). E ciò tanto più quanto più è grande la distanza culturale.
Contrariamente alla normale intuizione dunque: “dato un certo divario di reddito tra i paesi di origine e il paese ospitante, più il paese d’origine è culturalmente distante dal paese ospitante, più alto sarà il tasso migratorio nel tempo” (p.85), quindi anche più alti i costi sociali connessi alla perdita di fiducia.

Dunque l’assimilazione delle popolazioni non è solo eticamente difendibile, ma anche praticamente utile a ridurre il flusso delle migrazioni a livelli più sostenibili. Mentre la segregazione produce danni in tutte le direzioni, anche perché le diaspore che diventano ghetti chiusi e difensivi tendono a concentrarsi in alcune città e quindi a concentrare anche gli effetti. Un multiculturalismo come differenza (apparentemente aperto e laico, in realtà difensivo) può fare molto danno.
Tra gli effetti che possono crearsi crescentemente ci sono quelli sui salari dei lavoratori. Si, perché anche per Collier, come dice in effetti la scienza economica nei suoi modelli di base (concorrenza), ai livelli più bassi l’effetto dell’accresciuta concorrenza da parte di forza lavoro debole e ricattabile è di un abbassamento del reddito. Mentre ai livelli dei lavoratori più protetti e più forti l’effetto registrato dagli studi è opposto.
Anche da questo punto di vista c’è una chiara divisione tra chi vince e chi perde. Colpisce che la sinistra abbia scelto di fatto di sentire solo gli argomenti di chi in effetti vince; di chi si mette la veste del giusto, e disapprova gli sporchi ed ineleganti che si sentono minacciati, ma nelle sue case eleganti e dai piani direzionali degli uffici non solo non è minacciato, ma è proprio favorito. Di chi trova servizi a prezzi minori e per una varietà di motivi su cui il libro si trattiene guadagna anche di più, il suo reddito sale. Non colpisce, invece, che questa sinistra che radicaleggia solo sui temi innocui o su quelli che avvantaggiano i già forti sia votata massicciamente nei quartieri bene centrali, e prenda consensi da prefisso telefonico in quelli popolari. Non è questione di incomprensione, è che proprio si capisce bene.

Altri effetti diretti si hanno sulle politiche abitative, anche qui i ceti più bassi sono svantaggiati, sia per la maggiore pressione su scuole e welfare, sia per l’aumento dei valori dei fitti delle case nella fascia popolare (in Inghilterra è stato stimato nell’ordine del 10%).

Tra i presunti vantaggi che sono sempre sbandierati (ad esempio da Boeri) c’è l’effetto sull’invecchiamento della popolazione, che, però, è sovrastimato in quanto si tratta di un effetto temporaneo. Solo una piccola parte degli immigrati si integra a tal punto da restare per generazioni, normalmente tornano dopo il ciclo lavorativo (e portandosi le pensioni che spenderanno a casa).

Alla fine ciò che fa la differenza è il ritmo: ad un ritmo lento e graduale gli effetti possono essere piccoli e anche ragionevolmente positivi, ma se questo diventa invece rapido e sostenuto allora il quadro cambia e “gli effetti economici e quelli sociali sarebbero con ogni probabilità entrambi negativi per la popolazione ospitante”. Inoltre in questo caso anche le retribuzioni calerebbero ed il capitale pubblico dovrebbe essere condiviso da un maggior numero di persone, senza che ci sia il tempo di ampliarlo. Dunque ciò che va evitato è in sostanza l’accelerazione del fenomeno.

Per riuscirvi è necessaria una certa dose di controlli, ma anche di integrazione.

Ma l’insieme di conseguenze dell’immigrazione non si limita a ciò che accade nei paesi di destinazione: se il flusso è rilevante e crescente ci sono conseguenze rilevanti anche nei paesi di provenienza, dai quali se ne vanno per lo più le persone mediamente più istruite, creando un indiretto disincentivo ad investire in istruzione (dato che il ritorno è decrescente). In particolare questo succede ai paesi piccoli e deboli. Si riproduce anche a questa scala quella che sembra essere un’invariante del fenomeno dell’immigrazione: per i grandi e potenti è un dono, per i piccoli e deboli una dannazione.

I piccoli stati, con poche risorse umane ed economiche, e con livelli di reddito bassi, sono esposti in modo proporzionalmente maggiore alla perdita delle loro migliori risorse umane per emigrazione, inoltre più facilmente questi flussi, attratti da diaspore compatte e coerenti (rese più forti dall’essere minoranze), diventano massicci in termini relativi e provocano danni gravi. Anche le rimesse sono un sollievo solo fino ad un certo punto, perché sono relative per lo più alla parte più recente del flusso di emigrazione, in particolare quando i congiunti e la famiglia sono ancora separate (e spesso questa ha dato origine all’emigrazione come investimento), ma man mano che i nuovi arrivati si integrano nella diaspora, o quando ne fuoriescono assimilandosi alla cultura locale di arrivo, le rimesse si rarefanno e poi cessano (p.208).

In conseguenza Collier (come del resto fa Sahra Wagenkenecht dall’altra parte dello spettro politico) propone di aumentare le politiche di controllo delle immigrazioni e insieme quelle rivolte all’integrazione ed assimilazione delle diaspore. Cercare, insomma, di rallentare l’accelerazione che rischia di essere progressiva.

Ad una accelerazione, a causa del meccanismo messo in evidenza nel testo, per molto tempo potrebbe seguire una maggiore spinta e non un progressivo equilibrio.
Sono necessarie quindi politiche rivolte a rendere più costose le emigrazioni, contemporaneamente a favorire la diffusione e non la concentrazione sul territorio. Selezionare, limitare, integrare e regolarizzare sono parte dello stesso pacchetto di politiche rivolte a trovare un compromesso con un fenomeno che segnerà il nostro tempo fino a che gli squilibri globali di cui è immagine non saranno stati curati (un tentativo di nominarli in questo contesto, ed a partire proprio dai conflitti di integrazione che sono sia materiali sia culturali è nel lungo dialogo a più voci sia sul blog come su Sinistrainrete e su Italiaeilmondo con Roberto Buffagni, Mario Galati ed Eros Barone di cui questo è un esempio).

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