L’economista inglese, di lontana origine tedesca, Paul
Collier (famiglia Hellenschmidt) è un esperto di economie africane e direttore
di un centro studi di Oxford. Di scuola neoclassica, è stato per cinque anni
direttore del Centro di Ricerche della Banca
Mondiale, uno dei templi mainstream in anni certamente non particolarmente
critici (1998-2003), inoltre è stato consulente di Blair e da conservatore sostiene
in tutto il libro la semplicistica tesi che le carenze di sviluppo dipendono
essenzialmente da cattive istituzioni e culture non adeguate al livello della
tecnica (citando Acemoglu),
insieme al classico postulato marginalista per il quale ognuno riceve in ultima
analisi quel che produce. La straordinaria circostanza per la quale poche
famiglie hanno quasi la metà dei patrimoni del mondo deve quindi dipendere
dalla loro straordinaria produttività.
Ma il testo è interessante per la modellizzazione del
fenomeno dell’immigrazione e la sua posizione non convenzionale rispetto agli
opposti tabù che la riguardano. In particolare i tabù propri della posizione
progressista, secondo la quale non si può neppure immaginare un lato negativo, e
l’evidente avversione popolare ad essa è semplicemente segno di arretratezza
culturale. Del resto l’immigrazione deriva per lo più dal fenomeno della disparità
di reddito e ricchezza tra aree geografiche, e quindi tutte le passioni che
evoca sono abbastanza confusamente intrecciate con le nostre opinioni sulla
povertà, lo sviluppo, il nazionalismo ed il razzismo. Si mescola inesorabilmente
con i nostri sensi di colpa in merito.
L’attacco ai tabù inizia presto: nella prima parte del
libro Collier, facendo uso di una buona letteratura specialistica, ricorda come
il nazionalismo, se può essere connesso con la violenza, lo è sicuramente con
la coesione sociale. Sentirsi uniti da valori e storie comuni incrementa la
capacità di cooperare, e quella di venire in soccorso del vicino e simile.
Tenendo bene a mente questo fatto centrale, l’autore
prova a distinguere analiticamente tra gli impatti su tre diversi gruppi: i migranti, le popolazioni autoctone, le
persone che rimangono dei paesi di provenienza dei primi. I primi traggono
i migliori benefici, per le seconde l’effetto dipende essenzialmente dal
livello di reddito e stato nel mondo del lavoro, le terze sono le più probabili
danneggiate, almeno quando il fenomeno è rilevante ed in accelerazione ed il
paese di provenienza è piccolo. Ma in tutti i casi, ammette tranquillamente,
sono i fenomeni sociali a prevalere su quelli economici, e, anche sul piano
della coesione sociale e politica alla fine “è probabile che per le fasce meno
abbienti della popolazione gli effetti netti siano spesso negativi” (p.18).
Dunque bisogna ammettere che, come spesso accade (ad
esempio nel commercio
internazionale), esistono
effettivamente vincitori e vinti. Come per gli altri casi, dunque,
bisognerebbe risarcire i perdenti traendo fiscalmente risorse dai vincenti (ovvero,
semplicemente, aumentando la tassazione alle imprese che adoperano immigrati, e
abbassano gli stipendi, utilizzando i proventi per investire in formazione,
assistenza, incremento del welfare). Questo direbbe la teoria economica, (come dice
anche Stiglitz) come nel caso del commercio scrive con candidezza che sfiora lo
sfrontato Paul Krugman (uno specialista), con Obstfeld e Melitz in “Economia
Internazionale. Teoria e politica del commercio internazionale” dice: “il commercio beneficia il fattore che è specifico al settore
esportatore di ogni paese, ma danneggia il fattore specifico ai settori che
competono con le importazioni, con effetti ambigui sui fattori mobili” (p.86). Se i
guadagni superano le perdite, cioè se “i soggetti che ottengono vantaggi dal
commercio potrebbero compensare coloro che ne sono danneggiati e stare comunque
meglio”. Allora (e solo allora), cioè “se è così, allora il commercio
internazionale è potenzialmente una fonte di
guadagno per tutti” (corsivo nel testo).
Nello stesso modo nella teoria economica standard si
sostiene sfrontatamente che il saldo tra chi perde (i ceti popolari) e chi
vince (la classe media superiore e i possessori di capitale) è alla fine aritmeticamente
positivo e quindi la società nel suo complesso si arricchisce. Nel medio
periodo, si dice, qualcosa gocciolerà e quindi tutti staranno meglio. In
sostanza c’è una “utilità globale” nel fenomeno dell’immigrazione.
Ma cosa genera l’immigrazione? Essenzialmente per Collier è semplicemente il divario
di reddito in presenza dell’abbassamento delle barriere che i governi
occidentali, sotto la spinta delle lobbies industriali alla presa con gli alti
salari e la quasi piena occupazione (in conseguenza di organizzazioni dei
lavoratori potenti) del finale ‘trentennio glorioso’, praticarono nel tentativo,
come dice, di “arginare la militanza” (p.30). Ma emigrare costa, dunque il
meccanismo, detto in modo semplice, è alla fine determinato da una parte dalla
spinta generata dall’attesa di incrementare il proprio reddito per effetto dell’inserimento
in sistemi economici e sociali più produttivi (con una composizione organica
del capitale più favorevole), dall’altra ciò è contrastato dal costo,
economico, sociale e cognitivo di farlo. È in questa semplice meccanica che si
inseriscono quelle che per Collier sono le infrastrutture più importanti nel
determinare la dinamica del fenomeno: le
diaspore.
La presenza di una comunità locale strettamente coesa
di concittadini, culturalmente compatibili, determina infatti un enorme
abbattimento dei costi di emigrazione sopportati, ma, come vedremo, rischia di
ostacolare l’integrazione. Le diaspore, quindi, sono decisive nel far
accelerare il fenomeno e nell’allontanare il possibile punto di equilibrio e
stabilizzazione. Con le sue parole: “il tasso migratorio è determinato dall’ampiezza
del divario di reddito, dal livello di reddito nei paesi di origine e dalle
dimensioni della diaspora” (p.32).
Il flusso dell’immigrazione dipende dal divario di
reddito e dallo stock di migranti precedente che non si è integrato. In particolare
la dimensione dello stock non integrato (ovvero della ‘diaspora’) dipende dalla
trasmissione interpersonale della cultura e degli obblighi. Chiaramente il
perimetro delle diaspore è fluido e continuamente attraversato da persone che
arrivano e da persone che, integrandosi, ne escono.
Ci sono tre semplici conclusioni:
1-
La migrazione
dipende dalle dimensioni della diaspora (che, in sostanza, la attrae),
2-
La migrazione
alimenta la diaspora, mentre l’integrazione la diminuisce,
3-
L’indice di
integrazione (percentuale di chi esce dalla diaspora ogni anno) dipende dalla
dimensione, quanto più grande è la diaspora quanto più piccolo è l’indice.
Questo flusso migratorio, che è diverso da quello
episodico determinato da crisi esogene, guerre, calamità, può quindi stabilizzarsi
se il flusso che viene attirato dalla diaspora equilibra quello che se ne allontana
perché si integra. Può cessare solo se si annulla il divario di reddito che, dato
non dipende come nei casi sette-ottocenteschi a partire dai quali si è formata
la modellistica tradizionale dalla terra sovraffollata/occupata, non si può
stabilizzare semplicemente per saturazione (p.44). In conseguenza di per sé la
migrazione non potrà ridurre il divario, perché questo dipende dall’efficienza
complessiva del sistema economico e sociale.
Dunque tutto lascia pensare che i flussi non si
stabilizzeranno da soli, anzi, cresceranno in funzione degli enormi divari di
reddito tra le nazioni e in particolare dei divari tra i redditi medi percepiti
attraverso i canali (media, passaparola) internazionali e quelli percepiti, corpo
a corpo, nella realtà locale. Come dice Collier: “nel prossimo futuro, la
migrazione internazionale non raggiungerà il punto di equilibrio. Siamo alle
prime fasi di uno squilibrio di proporzioni epiche” (p. 45).
Questo squilibrio produrrà effetti crescenti e
differenziati. Nei paesi ospitanti le ricadute sociali sono come una sorta di U
rovesciata, ai bassi tassi di immigrazione ci sono effetti modesti e positivi,
ad alti ci sono perdite consistenti e molto differenziate tra le popolazioni
bersaglio. In particolare ciò che viene danneggiato, e ciò è più che evidente
ovunque, è la disponibilità all’altruismo ed alla mutua considerazione, la
fiducia che cala con l’aumento della diversità sociale (tesi abbastanza classica
degli studi economici neoclassici, ad esempio di Alesina). Ciò è tanto più vero
quanto più è diversa la cultura dei migranti.
Come sostiene Robert Putnam (che non è un autore
conservatore), l’immigrazione riduce il capitale sociale della popolazione
autoctona, la mutua considerazione e la propensione a tenere conto dell’equità.
Dunque in effetti, per una serie di ragioni tecniche e di psicologia sociale,
più sale la diversità, più peggiora l’erogazione dei beni pubblici (tesi di fondo
del famoso libro di Alesina e Glaeser, citato a pag. 79). E ciò tanto più quanto
più è grande la distanza culturale.
Contrariamente alla normale intuizione dunque: “dato
un certo divario di reddito tra i paesi di origine e il paese ospitante, più il
paese d’origine è culturalmente distante dal paese ospitante, più alto sarà il
tasso migratorio nel tempo” (p.85), quindi anche più alti i costi sociali connessi
alla perdita di fiducia.
Dunque l’assimilazione delle popolazioni non è solo
eticamente difendibile, ma anche praticamente utile a ridurre il flusso delle
migrazioni a livelli più sostenibili. Mentre la segregazione produce danni in
tutte le direzioni, anche perché le diaspore che diventano ghetti chiusi e difensivi
tendono a concentrarsi in alcune città e quindi a concentrare anche gli effetti.
Un multiculturalismo come differenza (apparentemente aperto e laico, in realtà
difensivo) può fare molto danno.
Tra gli effetti che possono crearsi crescentemente ci
sono quelli sui salari dei lavoratori. Si, perché anche per Collier, come dice
in effetti la scienza economica nei suoi modelli di base (concorrenza), ai
livelli più bassi l’effetto dell’accresciuta concorrenza da parte di forza
lavoro debole e ricattabile è di un abbassamento del reddito. Mentre ai livelli
dei lavoratori più protetti e più forti l’effetto registrato dagli studi è
opposto.
Anche da questo punto di vista c’è una chiara divisione
tra chi vince e chi perde. Colpisce che
la sinistra abbia scelto di fatto di sentire solo gli argomenti di chi in
effetti vince; di chi si mette la veste del giusto, e disapprova gli sporchi ed
ineleganti che si sentono minacciati, ma nelle sue case eleganti e dai piani
direzionali degli uffici non solo non è minacciato, ma è proprio favorito. Di chi
trova servizi a prezzi minori e per una varietà di motivi su cui il libro si
trattiene guadagna anche di più, il suo reddito sale. Non colpisce, invece, che
questa sinistra che radicaleggia solo sui temi innocui o su quelli che
avvantaggiano i già forti sia votata massicciamente nei quartieri bene centrali,
e prenda consensi da prefisso telefonico in quelli popolari. Non è questione di
incomprensione, è che proprio si capisce bene.
Altri effetti diretti si hanno sulle politiche
abitative, anche qui i ceti più bassi sono svantaggiati, sia per la maggiore
pressione su scuole e welfare, sia per l’aumento dei valori dei fitti delle
case nella fascia popolare (in Inghilterra è stato stimato nell’ordine del 10%).
Tra i presunti vantaggi che sono sempre sbandierati
(ad esempio da Boeri)
c’è l’effetto sull’invecchiamento della popolazione, che, però, è sovrastimato
in quanto si tratta di un effetto temporaneo. Solo una piccola parte degli
immigrati si integra a tal punto da restare per generazioni, normalmente
tornano dopo il ciclo lavorativo (e portandosi le pensioni che spenderanno a
casa).
Alla fine ciò che
fa la differenza è il ritmo: ad un ritmo
lento e graduale gli effetti possono essere piccoli e anche ragionevolmente
positivi, ma se questo diventa invece rapido e sostenuto allora il quadro cambia
e “gli effetti economici e quelli sociali sarebbero con ogni probabilità
entrambi negativi per la popolazione ospitante”. Inoltre in questo caso anche le
retribuzioni calerebbero ed il capitale pubblico dovrebbe essere condiviso da
un maggior numero di persone, senza che ci sia il tempo di ampliarlo. Dunque ciò
che va evitato è in sostanza l’accelerazione del fenomeno.
Per riuscirvi è necessaria una certa dose di
controlli, ma anche di integrazione.
Ma l’insieme di conseguenze dell’immigrazione non si
limita a ciò che accade nei paesi di destinazione: se il flusso è rilevante e
crescente ci sono conseguenze rilevanti anche nei paesi di provenienza, dai
quali se ne vanno per lo più le persone mediamente più istruite, creando un
indiretto disincentivo ad investire in istruzione (dato che il ritorno è
decrescente). In particolare questo succede ai paesi piccoli e deboli. Si riproduce
anche a questa scala quella che sembra essere un’invariante del fenomeno dell’immigrazione:
per i grandi e potenti è un dono, per i
piccoli e deboli una dannazione.
I piccoli stati, con poche risorse umane ed economiche,
e con livelli di reddito bassi, sono esposti in modo proporzionalmente maggiore
alla perdita delle loro migliori risorse umane per emigrazione, inoltre più
facilmente questi flussi, attratti da diaspore compatte e coerenti (rese più
forti dall’essere minoranze), diventano massicci in termini relativi e provocano
danni gravi. Anche le rimesse sono un sollievo solo fino ad un certo punto, perché
sono relative per lo più alla parte più recente del flusso di emigrazione, in
particolare quando i congiunti e la famiglia sono ancora separate (e spesso questa
ha dato origine all’emigrazione come investimento), ma man mano che i nuovi
arrivati si integrano nella diaspora, o quando ne fuoriescono assimilandosi
alla cultura locale di arrivo, le rimesse si rarefanno e poi cessano (p.208).
In conseguenza Collier (come del resto fa Sahra
Wagenkenecht dall’altra parte dello spettro politico) propone di aumentare
le politiche di controllo delle immigrazioni e insieme quelle rivolte all’integrazione
ed assimilazione delle diaspore. Cercare,
insomma, di rallentare l’accelerazione che rischia di essere progressiva.
Ad una accelerazione, a causa del meccanismo messo in
evidenza nel testo, per molto tempo potrebbe seguire una maggiore spinta e non
un progressivo equilibrio.
Sono necessarie quindi politiche rivolte a rendere più
costose le emigrazioni, contemporaneamente a favorire la diffusione e non la
concentrazione sul territorio. Selezionare,
limitare, integrare e regolarizzare sono parte dello stesso pacchetto di
politiche rivolte a trovare un compromesso con un fenomeno che segnerà il
nostro tempo fino a che gli squilibri globali di cui è immagine non saranno
stati curati (un tentativo di nominarli in questo contesto, ed a partire
proprio dai conflitti di integrazione che sono sia materiali sia culturali è nel
lungo dialogo a più voci sia sul blog come su Sinistrainrete e su Italiaeilmondo
con Roberto Buffagni, Mario Galati ed Eros Barone di cui questo
è un esempio).
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