Devo ringraziare lo sforzo di Eros Barone e di Mario
Galati che si sono divisi il lavoro nel rispondere con grande attenzione e
qualità argomentativa al mio testo su Macerata (qui
nel mio blog e qui
in Sinistrainrete). Nella risposta di
Eros Barone “Fisica
e metafisica dei fatti di Macerata”, a sua espressa indicazione, vengono
trattati i temi: della mia accusa, a suo dire, di schematismo e tradizionalismo
nei suoi confronti, avanzata nella mia replica (che quindi rovescia); della
dinamica di emigrazioni ed immigrazioni; della proposta di politica economica
alternativa e dell’interpretazione dell’ultimo Marx. Mentre nella risposta di
Mario Galati “Ancora
su ‘letture del dramma di Macerata’”, che leggeremo dopo, sarebbero trattati
gli altri temi che i due individuano nel mio testo, ovvero: la violenza e le
sue cause e quindi la questione dello “scontro delle secolarizzazioni”;
l’interpretazione concettuale dei processi di astrazione del lavoro e della
mobilità interregionale; la riaffermazione dell’importanza dell’irrazionale dei
riti e del simbolico, con il riferimento alla ‘religione del capitalismo’ e la
‘questione della tecnica’. Si tratta di una sequenza di post che su Sinistrainrete partiva dalla
pubblicazione di “Sui
fatti di Macerata”, un dialogo con Roberto Buffagni, e che nelle sue
articolazioni ha avuto più o meno 3.000 letture.
I due amici si sforzano nelle loro repliche di
correggere i miei molti errori in termini di ortodossia marxista, e di questo
li posso solo ringraziare. In particolare, Eros mi accusa di essere ‘borghese’
(diciamo come i padri fondatori) e mi pare di poterlo concedere, anche se di
minore rango. Nella mia risposta a caldo, infatti, ho scritto:
Ringrazio, in tutta sincerità Eros Barone per il
grande impegno con il quale cerca di correggere i miei molti errori. Ovviamente
confermo di buon grado la sua ortodossia e confesso, il capo cosparso di
cenere, la mia cultura borghese. Ciò detto, amico mio e compagno (scusa), credo
anche io che il socialismo sia la soluzione. E che altre strade non esistano.
Credo anche che alcune sottovalutazioni ed alcuni atteggiamenti lo allontanino,
ed altri possano essere utili. Mi spiace di non avere le tue certezze sulla
scienza, la direzione, i gusti gastronomici (beccato! ho letto i francofortesi,
e non beccato! Huntington non proprio il mio amico, casomai il termine lo uso
al modo di Charles Taylor). Riguardo alla causa della emigrazione non è solo la
guerra, ma questo lo sai e passiamo... Sulla tua interpretazione di crisi
economica di sovrapproduzione di capitale negli anni settanta si potrebbe
ragionare (la sovrapproduzione di capitale non è un effetto, anziché causa,
della sovrapproduzione produttiva determinata dalla competizione, ovvero dalla
perdita di centralità USA? Il meccanismo che indichi non mi è chiarissimo,
quale è la fonte di questa interpretazione? Poi però passi alle parole
d'ordine, le condivido tutte, nessuna esclusa. Ovviamente per poterle attuare,
o avvicinarsi, bisogna recuperare capacità di determinazione politica, ovvero
fare i conti con la mobilità dei capitali e con quella delle merci (free
trade). Come ci arriviamo? Certo, se dobbiamo partire dalla tua notevolissima
frase: ‘se nel cuore del modo di
produzione capitalistico non vi fosse una contraddizione in grado di farlo
saltare, tutti i nostri sforzi in questo senso sarebbero semplicemente
donchisciotteschi’, dovrei capire che la domanda non ha senso. Ci si arriva
direttamente, per forza, da solo. Vedo bene la fonte, ma anche la struttura, se non vi fosse... noi non serviremmo. Se non c'è semplicemente il mondo è aperto, non
è determinato. Cosa c'è di orrendo, qual senso di perita di orientamento, di
limiti e centro (come disse Keplero) ti fa retrocedere in questo modo davanti
alla possibilità che liberare Marx dal determinismo implichi ‘l'indeterminismo’?
Saltando oltre, mi sarò spiegato male su vera Zasulic, del resto sono testi
brevi, ma capisco bene che quello è l'argomento di Marx, è il grado di sviluppo
delle forze produttive che rende immaginabile (non necessariamente possibile)
evolvere verso il socialismo senza passare per lo strazio della
proletarizzazione. Non penso a salti senza vincoli, e non so cosa significhi ‘via
di sviluppo strettamente localista e nazionale’, mai una nazione è strettamente
sola. E mi spiace per la tua proiezione (scrivo di getto e quindi salto qui e
lì) ma non idealizzo affatto il passato, tanto meno precapitalista. Io sono
figlio di un metalmeccanico (ancorché quadro e poi dirigente), e nipote di
artigiano industriale, per risalire ad un contadino devo andare al 1800. Poi,
va beh, se tutto si riduce a revisionismo-ortodossia, confesso tranquillamente
di non essere mai stato ortodosso di nulla. Scusa.
Stabilito dunque che io sono eterodosso (ma non
revisionista), temo di doverti confermare, caro Eros, che pur dispiaciuto non
credo che nel ‘cuore’ del ‘modo di produzione’ capitalistico c’è (nel senso
dell’essere) una contraddizione in grado di farlo necessariamente ‘saltare’,
pur sapendo che era l’ìdea sulla quale il vecchio Marx (ma partendo dal
giovane) aveva costruito la sua proposta politica.
Sottolineo “politica” perché questa è la parte non scientifica della sua
teoria, a mio parere. La scienza non esprime mai formule finali, affermazioni
sull’essere. Anzi, da Newton in poi essa si forma proprio a partire da questa partizione, la particolare e contraddittoria
metafisica della scienza (quando diventa scientismo ed ideologia) è tutta in
questa pretesa, di poter dire senza
affermare la Verità. Di dire attraverso il mezzo del ‘metodo’, ovvero attraverso
numero e classificazione.
Quando Marx compie questa affermazione (via via con
maggiore circospezione) in lui, politico, filosofo e scienziato, sono i primi
due termini a prevalere.
Stiamo tuttavia, mi pare, facendo una sorta di gioco:
quello di rinfacciarci vicendevolmente l’accusa di irrazionalismo, anche se
appare soprattutto da una parte, è per me irrazionale il culto del progresso
(ed è, appunto, cultuale) ed è per voi irrazionale ogni richiamo che sospenda
il riferimento al vero del discorso scientifico (con diverse accentuazioni), ed
in particolare di quello cristallizzato nella tradizione marxista. Ma nel fare
questo gioco, io credo, proiettiamo vicendevolmente i nostri fantasmi.
Nel rispondervi, dunque, cercherò di sospendere il
gioco (magari non ci riesco).
Il programma di lavoro condiviso dei due compagni che
mi replicano è piuttosto interessante: Galati si troverà a dire in sostanza che
l’ipotesi interpretativa della violenza scatenata (una semplice congettura) è
plausibile, ma attaccherà con vigore una metafisica che vi intravede circa la
‘natura umana’, opponendovi l’ipotesi che l’uomo, al di là di quel che la scienza
riesce a inquadrare come biologia, biochimica, fisiologia e neurologia (per
fare esempi), sia determinato dai rapporti sociali di produzione e
riproduzione; schematismo e tradizionalismo saranno rovesciati da Barone, che
accusa ogni posizione non conforme al discorso scientifico cristallizzato in
Marx di essere reazionario e quindi ‘tradizionalista’; attacca, come del resto
Galati, la mia ipotesi (che, però, non è ripresa dal neo-zapatista Marcos, ma
molto più dal marxista Amin, di cui ho fatto lettura sistematica di quasi tutti
i libri) sulla ‘disconnessione’ difensiva dalla macchina valorizzante del
capitalismo mondializzato e rallentamento/deviazione della trasformazione in
corso; Galati glossa la mia interpretazione ‘concettuale’ (per lo più derivata
dalla scuola ‘Crisis’) dei processi di astrazione del lavoro, ma mi pare lo
faccia poco; quindi attacca con grande vigore, e notevole proiezione, la
“riaffermazione dell’importanza del carattere irrazionale dei riti e del
simbolico” (che ho sottolineato nel documento facendo uso di uno dei più
razionalisti filosofi occidentali, che probabilmente non
ha letto, come Habermas nei suoi ultimi scritti) e quindi la ripresa del
discorso sulla Obscina come reazionario e populista; da ultimo Barone si
riserva di discutere la proposta finale e la chiusa sulla lettera a Vera
Zasulic.
Una replica che aggira in sostanza tutti i punti
fattuali e le proposte interpretative dei meccanismi concreti economico-sociali
(ovvero quelli che si chiamano “modi di produzione”) per concentrarsi,
evidentemente perché giudicati prioritari, sulla supposta interpretazione
culturalista-reazionaria del mio dire.
Intanto partiamo da Barone, come ho detto mi spiace ma
non mi riferisco affatto a Samuel Huntington quando uso il termine
‘secolarizzazione’, ed il contesto di critica della razionalità avrebbe dovuto
renderlo chiaro. Mentre il politologo americano usa il termine nel quadro della
geopolitica e molto chiaramente in una chiave di affermazione dell’imperialismo
anglosassone (in perfetta continuità storica con il colonialismo), il dialogo
originale dovrebbe rendere ovvio che qui si tratta di una critica inserita nel
contesto verticale storico (e non orizzontale geografico). La secolarizzazione
è incorporata nella intera struttura dei rapporti sociali, produttivi e nelle
tecniche che ne sono coproduttori, non in supposte e isolate “identità
culturali e religiose” che vivano nel vuoto. Questo attacco di Eros è
propriamente una proiezione, nessuno usa una categoria, tanto più che ha
diverso significato, “in senso esplicativo o addirittura in senso antropopaico,
predittivo”. Possiamo benissimo usare il termine familiare di “conflittualità
imperialistica”, ma in questo secondo decennio del terzo millennio avremmo
l’onere di spiegarlo a chi non ha letto cinquanta libri di Marx, o di Lenin.
Dopo di che, voler richiamare ai fattori economici, di
cui in effetti mi sembra di dare più estesa spiegazione nel mio pezzo che nella
replica di Eros, mi pare giusto. Ma nessuno, e tanto meno io che avrò scritto
cinquecento post di argomento economico, pensa che si possa ragionare del
culturale come ‘sfera autonoma’. Anzi, io
penso che non si possa ragionare di nulla sull’uomo come ‘sfera autonoma’.
La proiezione, dopo l’equivoco sulle fonti, arriva a
dire semplicemente che la mia impostazione sarebbe “culturalistica e orientata
ad una populistica nostalgia per il mondo precapitalistico” (che, come è ovvio,
non ho mai conosciuto, io, abitante sempre in città oltre il milione di
abitanti), e quindi nel replicare alla sua osservazione, in “Lo
scontro delle secolarizzazioni”, passerei con non pochi “sussulti
regressivi” dalla metafisica alla fisica.
Ora, ‘metafisica’ è termine piuttosto facilmente
rovesciabile su ogni affermazione di Verità (di cui è letteralmente intessuto
il testo di Eros), e quindi corriamo avanti, ed anche l’accusa di gastronomia,
a fronte dell’ortodossia a pasto unico del nostro. Ma il passo citato, fa
riferimento ad un meccanismo concreto (l’influenza
del microcredito nell’espellere persone da economie demonetizzate), non
certo ad un filosofema, o ad una posizione teorica. Insomma, qui non sto sul
registro filosofico, né su quello politico, ma più su quello ‘scientifico’.
Scrivevo: “…le persone che sono ‘aspirate’ in
occidente dalla domanda di lavoro debole alimentano anche il trasferimento di
poveri surplus monetari che insieme alla trasformazione dei pochi settori
produttivi in industria da esportazione estranea al tessuto locale e dipendente
dai capitali esteri, attraggono e corrompono, disgregandole, aree ancora
relativamente esterne al circuito della valorizzazione, contribuendo a
'monetizzarle', ovvero a ricondurle entro il circuito astratto e impersonale
del capitale e della sua logica”;
L’obiezione di Barone, imperniata in una famosissima
lettera di Marx, non è chiara; è ovvio, e lo ho scritto molte volte (ad esempio
qui,
in cui citavo la medesima lettera), che la lotta di classe ha anche a che fare
con la lotta tra i poveri, in quanto questa è un’arma nelle mani del capitale.
Ma una parte della cultura comunista ne conclude che se è un’arma del capitale allora
è falsa: la politica qui prevale sulla scienza. In altre parole, se forze di destra e populiste la usano allora bisogna negare che il fenomeno
(che Marx descrive) esista. Che, se
qualcuno tenta di far concentrare l’attenzione sugli immediati concorrenti,
anziché sulle cause strutturali, allora
solo l’interruzione dell’imperialismo, il ritiro di tutte le forze armate di
occupazione (pudicamente chiamate in altro modo), si deve attuare. E allora altre strade non esistono,
rispetto alla piena e universale affermazione del socialismo. Più precisamente:
“…la soluzione di questo problema esiste: ritirare
tutti i reparti militari presenti in tutti i paesi, smascherare le operazioni
di “peacekeeping”, fermare le guerre, le occupazioni militari ed ogni ingerenza
in quei paesi. In poche parole: uscire dalla NATO. Insieme con l’interruzione
delle azioni militari, occorre poi sopprimere il rapporto di dominio economico
con quei paesi e, di conseguenza, smettere di sottrarre ad essi risorse e materie
prime, sfruttando in modo disumano la loro manodopera, come è prassi comune di
tutte le imprese multinazionali. Solo ripristinando con quelle nazioni rapporti
di cooperazione e non di rapina, si può regolamentare in modo risolutivo il
fenomeno dell’immigrazione. Se questa politica fosse applicata nell’arco di un
ventennio, il numero degli immigrati comincerebbe a diminuire fino a livelli
normali. Ma ovviamente nessuna politica di questo genere può essere applicata
in un sistema che è fondato sul potere dei grandi monopoli, in un sistema che
vede gli Stati interamente asserviti ai loro interessi. Il socialismo è l’unica
soluzione giusta e razionale di questo problema, poiché, come sarà dimostrato
in un prossimo paragrafo, permette di realizzare con i paesi del Terzo Mondo
una politica di cooperazione, non di rapina. Altre strade non esistono”. (Eros
Barone)
Bene, qui la ‘sinistra’ buonista, cosmopolita e
filo-imperialista finisce, nella pratica e soprattutto nella percezione di chi
non è avvezzo a così sottili distinzioni, ad andare curiosamente a braccetto con
la ‘vera sinistra’ socialista e comunista, internazionalista e
anti-imperialista: i fratelli immigrati
devono essere accolti.
Certo, magari nella ‘vera sinistra’ questa posizione è
intrecciata con un riverbero, un’eco o un fantasma, del teorema marxiano
(formatosi precocemente già nella sua polemica con List del 1845, aveva ventisette
anni, e in favore della teoria cosmopolita di Adam Smith) secondo il quale,
nelle condizioni di sviluppo della tecnica della metà dell’ottocento, lo
sviluppo capitalista preparava la sua distruzione in quanto sottraendo agli uomini
le proprie basi di esistenza e concentrandoli nelle grandi fabbriche urbane in
condizioni di crescente pauperizzazione, coltivava le condizioni della rivolta
della ‘grande maggioranza’. I semi della dissoluzione nascono da questo ‘mettere
con le spalle al muro’ la grande maggioranza e sradicarla (sottraendola al
controllo delle ideologie, del prete come delle clientele agrarie). In questo,
ben chiaro e ben comprensibile (anche geniale nel suo tempo) teorema poggia la
logica politica dell’applicazione filosofica dell’hegelismo che Marx
oppone efficacemente ai concorrenti ideologici del suo tempo (che sono Mazzini,
Proudhon, Blanc, Bakunin).
Scriverà Marx nella sua critica a List:
“The nationality
of the worker is neither French, nor English, nor German, it is labour, free
slavery, self-huckstering. His government is neither French, nor English, nor
German, it is capital. His native air is neither French, nor German, nor
English, it is factory air”
“La nazionalità del lavoratore non è né francese, né inglese,
né tedesco, essa è lavoro, schiavitù libera, auto-sbandamento. Il suo governo
non è né francese, né inglese, né tedesco, è il capitale. La sua aria nativa
non è né francese, né tedesca, né inglese, è l’aria della fabbrica”.
E’ in questo
senso, nel 1845, che l’idea di nazione, difesa dall’economista tedesco in vista
di uno sviluppo autocentrato e corrispondente alla propria identità (una idea
con riverberi romantici, ma non antidemocratica), è aberrazione e falsa
coscienza. La difesa della propria nazione dalla forza aggressiva del
capitalismo internazionale, anche quando
nasconde l’imperialismo, rallenta lo sviluppo delle forze della rivoluzione che
crescono necessariamente e dialetticamente in seno a questa.
Il problema è quindi per Barone, “uno di quei nodi
inestricabili del sistema borghese che possono essere sciolti solo con il
totale ribaltamento di prospettiva realizzato dalla società socialista”, oppure
si potrebbe scrivere diversamente: “il problema dell’immigrazione nei paesi
occidentali è un nodo che può essere sciolto solo con il totale ribaltamento di
prospettiva realizzato dalla società mondiale universale democratizzata” (questo
lo direbbe un ‘buonista’, o un redivivo Adam Smith). Nella spiegazione
macroeconomica, piuttosto abbozzata, che segue Eros Barone fa ampio uso infatti
di termini come “irrisolvibile”, “mutamenti di carattere epocale”, “non possono
non”, e di un modello ‘idraulico’ di travaso dei capitali (come fossero cose)
che meriterebbe maggiore riflessione e maggiori letture economiche,
probabilmente. Certo, alcune di queste sono non marxiste…
Di seguito comunque si riprende l’argomento
di Boeri (senza avvedersi della sua struttura neoclassica e del carattere
statico dell’analisi) secondo il quale sarebbe la carenza di italiani a
determinare la presenza degli stranieri, che porterebbero più ricchezza. Ma poi
si ammette, al converso, che la loro presenza riduce la forza negoziale dei
lavoratori italiani (i quali, direi, per
questo decrescono). E si conclude che “tra Scilla e Cariddi” resta solo di
uscire dal capitalismo. Boeri è in questo più coerente: questo è il migliore
dei mondi possibili e nessuno sfrutta nessuno.
Insomma, anche se da posizioni opposte, se “uscire dal
capitalismo” o promuovere la “società democratica mondiale”, alla fine la
soluzione è solo accelerare e correre avanti. Ciò anche se oggi la piattaforma
tecnologica del capitalismo sparpaglia invece di concentrare, divide e
controlla, invece di uniformare (ma qui dovrei rimandare a troppi post).
Magari ora sto proiettando io, e dunque me ne scuso,
ma non vedo molta coerenza con le parole d’ordine che seguono, per la “fase di
transizione”:
“…nella fase intermedia occorre individuare le giuste
rivendicazioni della lotta popolare, che saranno tali solo se soddisferanno tre
fondamentali requisiti: aumentare il benessere dei lavoratori, modificare a
favore del proletariato i rapporti di forza tra questo e la borghesia, elevare
la coscienza di classe del proletariato svelando a tutto il popolo l’insanabile
contraddizione tra il sistema capitalistico e gli interessi materiali e morali
dei lavoratori. Queste sono dunque le giuste parole d’ordine: no alla ‘guerra tra i poveri’; non sono
i proletari immigrati a rubare il lavoro ai proletari autoctoni, ma è il
capitalista che lo ruba quando delocalizza la produzione: nazionalizzare le aziende che delocalizzano la produzione; non sono
i proletari immigrati a fare concorrenza a quelli autoctoni e ad abbassare il
loro salario, ma è il capitalista che scatena la concorrenza per abbassare i
salari: salario minimo per tutti
fissato per legge; non sono i proletari immigrati a fare la guerra, ma sono i
capitalisti imperialisti che portano la guerra e la distruzione ai popoli del
resto del mondo: fuori l’Italia dalla
NATO e fine della partecipazione dell’Italia a tutte le guerre
imperialiste; non sono i proletari immigrati a restringere le possibilità di
sostegno al lavoro e ai servizi pubblici, ma i trattati europei che strangolano
i popoli d’Europa: fuori l’Italia
dall’Unione Europea e dall’euro”.
Accettiamo anche queste parole d’ordine, ma nella transizione della transizione?
Lasciamo entrare tutti indifferentemente e poi fidiamo nel salario minimo e
nella struttura repressiva necessaria per farlo applicare universalmente la
loro espulsione dal mondo del lavoro? Perché, spero che il filosofo Barone se
ne renda conto, in una economia capitalista competitiva a parità di salario si
sceglie il più produttivo, e non può essere un immigrato da poco tempo e ancora
poco integrato. E quindi che facciamo? Lo integriamo con risorse pubbliche
estendendo a loro il “lavoro
di ultima istanza” che sarebbe una soluzione più idonea sotto diversi
profili? Nell’ambito di quali rapporti di forza?
È del tutto vero che “non sono i proletari immigrati a
fare concorrenza a quelli autoctoni e ad abbassare il loro salario, ma è il
capitalista che scatena la concorrenza per abbassare i salari”, ma questo è il meccanismo di base della
valorizzazione capitalista e della stessa esistenza del lavoro astratto perché
riducibile a metrica comune (Lohoff, che è marxista). Dunque è vero, ma dirlo non serve a nulla fino a che non si interrompe del tutto (del
tutto) la logica del valore.
Di seguito Barone riprende ancora argomenti “borghesi”,
come la rilevanza del flusso economico di ritorno nel favorire lo sviluppo dei
paesi del terzo mondo. Confesso un particolare: nei miei post attacco questo
argomento (anche se in parte è corretto) proprio perché alcuni amici del PD,
anche noti e ben informati, in chat si rifugiano sempre in esso quando sono
alle corde. E’, insomma, il tema-rifugio della società mondiale ‘piatta’ che è
espressamente richiamato dagli economisti liberisti (es, Thomas Friedman, o
Spence): l’emigrazione come Re Mida.
E la soluzione quale è? Un “immigrazione bilaterale,
concordata e programmata [immagino dagli Stati], di masse, meno imponenti di
capitale umano qualificato dai paesi avanzati verso i paesi poveri, e
parallelamente di investimenti nei sistemi di ‘welfare’ locali”. Insomma, è
proprio il mondo piatto e uniforme sognato dai liberali: Marx alla fine si
ritrova proprio con Adam Smith.
I sogni dei liberali e dei comunisti si assomigliano,
direi (con la differenza che quelli dei secondi sono più ‘statalisti’).
Da ultimo la questione Vera Zasulic-Marx.
Barone legge la cosa come “liberare Marx dalla camicia
di forza del determinismo e di dare spazio all’indeterminismo”, quando si
tratta, casomai, di leggere Marx come quello che voleva essere: un osservatore del mondo sistematico e di
impostazione scientifica (ma non scientista) politicamente orientato. Uno
che quando osservava un fatto nuovo non lo piegava ad una spiegazione apriori,
ma ne ricercava il senso. Marx, insomma, cambiava idea.
Non era, né poteva essere, un nietzschiano (anche
perché era morto), ma non per questo era sempre uguale al se stesso alle prese
con i moti del 1848.
Questa trasformazione di un uomo in una sorta di
oracolo e semi-dio mi ha sempre colpito di una parte dell’esegesi. Anche io
sono affezionato al Moro, ma non lo leggo con lo spirito con il quale alcuni
leggono la Bibbia, e spero che il buon Eros non lo faccia. Dunque ai miei
orecchi alcuni argomenti sollevati non sono conclusivi.
La cosiddetta “unità oggettiva del mercato
capitalistico mondiale”, nella quale si fondono le acque opposte, mi pare che
sia invece una potente proiezione sul pensiero di un uomo che ha inteso sempre
confrontarsi con il proprio tempo (nel quale gli Stati realmente esistenti
avevano un certo e ben chiaro carattere) e che era molto sensibile alle
fratture, alle crisi, alle lotte che questo “mercato mondiale” manifestava. È
“oggettiva”, questa “unità”, solo dall’alto (o dal basso) di una potente
astrazione, che capisco ed alla quale a volte faccio riferimento, ma che va
compresa come tale.
Viceversa le vie sono sempre anche presenti in essere,
qui ed ora. Non “localistiche” o “strettamente nazionali” (non so bene che cosa
significhi), ma neppure astrattamente universaliste e piattamente mondialiste.
Infine l’ultimo punto di Eros Barone, il massimo grado
di proiezione su di me:
Da quel che si è finora argomentato si deduce che
Visalli appartiene per sensibilità, formazione e orientamento, ad una corrente
ideologica che ha dietro di sé un grande passato e senza dubbio anche un certo
presente e un certo avvenire. In questo passato ‘radicale’ si colloca il
populismo russo e la sua tendenza a idealizzare
i rapporti di produzione precapitalistici, dimenticando che si tratta anche
di rapporti di sfruttamento. Nello stesso ‘presente’, ma in un senso per nulla
radicale, si trova il revisionismo
moderno che parimenti crede (anche se non l’ammette) nell’‘imborghesimento’
del proletariato. Questo ‘imborghesimento’, che corrisponde a una tendenza
ideologica, vale a dire a un effetto del predominio dell’ideologia borghese,
risulta d’altra parte rafforzato proprio dal revisionismo moderno. Orbene, la
caratteristica fondamentale di questa corrente ideologica consiste
nell’ignorare esplicitamente o implicitamente il fatto che nei paesi
capitalistici avanzati il proletariato è
in modo sempre più determinante il principale produttore di ricchezze.
Ancora più in generale, risultano in tal modo ‘ignorate’, da una parte, la
contraddizione fondamentale del livello della lotta di classe e, dall’altra, la
contraddizione fondamentale delle formazioni sociali, la contraddizione tra le
forze produttive e i rapporti di produzione. Di qui deriva l’incapacità, per
coloro che appartengono a questa corrente ideologica, di comprendere gli effetti
materiali e sociali dell’accumulazione del capitale e, in particolare, il
rapporto tra lo sviluppo della forza produttiva del lavoro e l’aumento del
plusvalore relativo.
Non so di chi parla, ma non mi ci riconosco. Contestare
i rapporti sociali e il modo di produzione, inclusa la forma di razionalità
parziale e violenta che lo connota, occidentale, rintracciandone la radice più
in profondità del capitalismo sette-ottocentesco, non implica affatto (se non
in un pensiero schematico che non mi appartiene) dover concludere che il mondo
premoderno sia ideale. Che il mondo schiavista, o quello servile, con l’immane
sofferenza e violenza, la sistematica rapina e l’opprimente potere che lo
contraddistingueva, sia il buono. Non implica dimenticare nulla.
Non so, del resto, in che accezione Barone usa il
termine assai impreciso di “ricchezza”, e quindi in che senso oggi, non nel
1870, il proletariato sia “in modo sempre più determinante il principale
produttore di ricchezze”, quando se si parla di valore astratto (ovvero di
capitale e valore nominale) è evidente il contrario. Dato che si tratta di
proiezione non ha bisogno di fare lo sforzo di confrontarsi con i testi, e
quindi lo risparmio, ma protesto solo che ho fatto negli anni qualche sforzo
per non fare questo errore. Almeno questo.
Certo, la soluzione che alla fine emerge sia in
Barone, sia in Galati, è semplice: andare avanti e industrializzarsi. Superare
il capitalismo facendo sì che tutto lo diventi, e che il socialismo renda il
mondo uniforme e pacifico (tutti allo stesso livello di sviluppo delle forze
produttive, quindi di potenza, e tutti dediti allo sviluppo umano).
Naturalmente in coda al suo testo c’è uno scritto di
Marx che rende inutile tutto il dibattito del secolo successivo sulla tecnica.
Ma magari su questo torniamo con l’aiuto di Galati.
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