Nella seconda parte della risposta di Eros Barone e
Mario Galati al mio testo su Macerata “Lo scontro delle secolarizzazioni”, sono trattati i temi: la violenza e le sue cause e
quindi la questione dello “scontro delle secolarizzazioni”; l’interpretazione
concettuale dei processi di astrazione del lavoro e della mobilità
interregionale; la riaffermazione dell’importanza dell’irrazionale dei riti e
del simbolico, con il riferimento alla ‘religione del capitalismo’ e la
‘questione della tecnica’. Nell’ambito di una divisione del lavoro concordata
tra di loro, Eros Barone aveva invece scelto di trattare i seguenti temi: della
mia accusa, a suo dire, di schematismo e tradizionalismo nei suoi confronti;
della dinamica di emigrazioni ed immigrazioni; della proposta di politica
economica alternativa e dell’interpretazione dell’ultimo Marx.
Si tratta quindi di un apprezzabile e raro dialogo nel
merito al quale non posso sottrarmi: al testo di Barone (“Fisica e metafisica dei fatti di Macerata”) ho quindi già risposto in “Eros Barone, circa ‘fisica e metafisica’:
internazionalismo, sinistra e immigrazione”,
a quello di Galati (“Ancora su ‘letture del dramma di Macerata’”) lo faccio ora.
Paul Klee, Angelus Novus |
Come già detto Si tratta di una sequenza di post che
su Sinistrainrete partiva
dalla pubblicazione di “Sui fatti di Macerata”, un dialogo con Roberto Buffagni, e che nelle sue
articolazioni ha avuto più o meno 3.000 letture.
Per venire al testo, Mario Galati muove da quella che
ritiene essere una citazione da un testo di Samir Amin (l’unico autore, tra
quelli citati, che i due amici reputano essere adeguatamente marxista).
In altre parole, se entro il modo di produzione capitalista,
fino a che si resta entro la sua logica, appare alla fine comunque razionale, e quindi invincibile, il calcolo
economico e la competizione, con essa diventano
anche inevitabili i rapporti sociali che esso determina (o meglio, che lo
fondano); con la sua logica viene anche una specifica forma di gerarchia
sociale. Comprendendo il capitalismo, invece, come figura storica (e non sopra-storica)
diventa possibile accedere ad un piano di critica più profondo. Il calcolo economico, indiscutibile sul
piano della valorizzazione del valore (e quindi della sua accumulazione, nel
contesto dei rapporti sociali dati), diventa irrazionale se si tiene al centro
il principio di una altra socialità: se la ricerca dell’autonomia porta a porre
al centro la natura e la società tutta. Il calcolo economico, come scrive nel
1973 Amin, diventa allora riconoscibile come “irrazionale dal punto di vista
sociale”.
Questa affermazione Galati la condivide, anche se, in
effetti non è una vera e propria citazione, ma più una riformulazione.
Conviene, però, riprenderne il contesto specifico: scrive Amin nel suo libro
più famoso del 1973, e lo riprende anche in quelli dei decenni successivi, che
contrariamente alla normale interpretazione marxista (o meglio,
volgarizzazione) la macchina produttiva che fa dell’uomo risorsa e della natura
supporto manipolabile è solo una
forma storica creatasi in un ambiente particolarmente violento e predatorio. Non
vede quindi un’unica e necessaria via allo sviluppo, passante per
l’industrializzazione pesante, poi per la fase monopolista per arrivare quindi alla
necessaria trasformazione dialettica nel socialismo per via di progressiva
razionalizzazione (termine che sarà ripreso dalla coppia di amici, influenzati
dal marxismo, Max Weber, in “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, 1904, e Werner Sombart “Il capitalismo moderno”, 1902). Una interpretazione del genere, anche se di
diversa tradizione, la dà del resto anche Diamond in “Armi, acciaio e malattie”.
Questa forma predatoria, che costringe la natura nella
forma del tempo lineare razionalizzato, misurabile, e produce alienazione, si è
estesa nel resto del mondo (grazie alle armi, alle vele ed alla forza
demografica) travolgendo ogni altra forma di organizzazione sociale, tra le
quali Amin individua le promettenti forme protocapitaliste orientali, che
sarebbero molto meno individualiste, ma per questo meno dinamiche e in qualche
modo più gradualiste, all’atto pratico non in grado di reggere lo scontro militare
(guerra dell’oppio). In “La
crisi”, ad esempio, l’economista egiziano ribadisce la necessità dello “sganciamento”
(il modello storico è l’associazione degli stati non allineati nella Conferenza di
Bandung) ed il diritto di ‘essere ciò
che si vuole e volere quel che si è’. Il diritto a cercare anche altre forme
di razionalità e di organizzazione sociale, di perseguirle, di difenderle.
La Cina, ad esempio, prima dell’occidente inizia a
superare la forma di produzione e riproduzione sociale ‘tributaria’ (secondo
stadio nel modello aminiano), grosso modo comparabile con lo stadio ‘feudale’ del
modelli a cinque stadi occidentale (comunismo primitivo, schiavismo, feudalità,
capitalismo, socialismo), ma questa possibilità di evoluzione autonoma è
spezzata con la forza. Il capitalismo storicamente affermatosi nella regione
mediterranea/europea costringe ad una polarizzazione violenta centro/periferia.
La differenza affonda le sue radici nella stabilità raggiunta dalla forma
tributaria in Cina, a fronte della endemica instabilità europea (che per
Diamond alla fine è curiosamente una delle ragioni del suo successo finale). Amin
evidenzia la solida integrazione del mondo contadino nella generale costruzione
del sistema e l’accesso alla terra oltre alla diffusione delle manifatture
nelle zone rurali che a lungo ha dato alla Cina un deciso vantaggio in tutti i
settori produttivi (è noto che dal tempo dell’impero romano, fino a quello
inglese, la Cina è autosufficiente e non desidera comprare in pratica nessun
prodotto occidentale, di fatto limitandosi a drenarne i metalli preziosi, problema
che la Compagnia delle Indie risolve con il ‘commercio triangolare’ imposto con
la forza). La Cina, però, in età preindustriale non è solo un modello
produttivo e di stabilità sociale, è anche un modello di organizzazione
amministrativa. Inventa il servizio pubblico indipendente da aristocrazie e
religione, reclutandolo per concorsi (in Europa solo dal 1800 a partire dalla Francia)
e impiega tecnologie avanzate e universalmente ammirate in pratica in tutti i
campi. Come dice Amin: “la Cina era dunque avviata sulla strada dell’invenzione
del capitalismo, in forme che sarebbero state molto diverse da quelle del
capitalismo/imperialismo di conquista” (p. 45). Parliamo di cinque secoli di
anticipo che però determinano anche una maggiore ‘lentezza’ che alla fine si è
risolta in svantaggio decisivo.
Viceversa il “capitalismo per esproprio” occidentale,
giustificato con la tesi che l’uomo sarebbe naturalmente lupo agli altri uomini
ed egoista, è naturalmente espansivo e imperialista, polarizzante per effetto
delle leggi interne che lo governano. È inseparabile dalla conquista del mondo
ed indissociabile dall’ideologia eurocentrica “una forma per definizione non
universale di civiltà” (p.54).
Lo sviluppo capitalista, insomma, secondo Amin non
sarebbe una necessità storica, tanto meno di una qualche ‘legge’ soprastorica, ma solo un accidente. Tuttavia, questa
tesi che Galati sembra al fine attribuirmi come si vede è di Amin; le
caratteristiche essenziali del modo di produzione capitalista occidentale (la
generalizzazione della “forma-merce”, l’assunzione di tale forma da parte della
“forza-lavoro”, quindi la reificazione
e la proletarizzazione dell’uomo fatto produttore di merci, la finalizzazione
ad essa delle attrezzature produttive tutte), si ritrova peraltro intatta anche
in molte forme di esperienza del socialismo reale, che è quindi proprio per l’autore
egiziano un “capitalismo senza capitalisti”. Una critica non certo nuova, né
trascurabile.
È da qui che si attaccava la citazione condivisa dal
nostro. Comprendere il capitalismo come forma storica è da intendere in questo senso. Il calcolo, onnipresente
ed indiscutibile entro il sistema di rapporti e priorità che la forma
occidentale del mondo ha inteso proiettare come universale, è invece relativo
ed anche “irrazionale dal punto di vista sociale” se si determina una diversa
priorità.
Ma quale è la contraddizione che Galati mi
attribuisce, nel dire ciò? “Sostenere il carattere storico-sociale delle
categorie di razionale e irrazionale” e sostenere, al contempo, “la persistenza
di forme irrazionali archetipiche”. Mi pare ci sia un equivoco, o una
proiezione di qualche altro avversario che non sono io: non sostengo affatto
che ci siano forme archetipiche dell’umano ed inclino anche io ad un
orientamento relativista circa le categorie di razionale-irrazionale. Peccato
che forse non lo faccia Galati, che sul punto mi appare ondeggiante; per lui contestare
una determinata razionalità (ma non sono tutte determinate?), storicamente
data, che può manifestarsi anche in aspetti apologetici e strumentali,
troverebbe il suo limite nella impossibilità di rinunciare “a spiegare
razionalmente, scientificamente (proprio così, con tutte le approssimazioni, la
parzialità, le distorsioni e i difetti possibili) i fenomeni umano-sociali”.
Fare ciò è direttamente e definitivamente qualificato come “irrazionalismo” e
quindi comporta il rifugiarsi nella trascendenza metafisica o nel naturalismo.
Vedremo nel seguito che questo fermare il carattere
trascendente dell’impresa scientifica, una sorta di realismo forte, mentre al
contempo si sostiene la dipendenza del razionale dal sociale, determina una
rigidità che fa precipitare il discorso del nostro, anche grazie alle fonti, in
un significativo schematismo non privo di interne contraddizioni.
Se davvero, cioè, “è cosa scontata che la razionalità
presentata dalla scienza economica borghese non è una razionalità assoluta” perché
vale solo per quella ‘economica’? E la razionalità dell’impresa scientifica in
generale (che si è sviluppata tra il millequattrocento ed il millesettecento,
nei luoghi commercialmente ed economicamente più dinamici, man mano che le
esigenze di tecnomacchine sociali sempre più sofisticate, e degli stati
assoluti in competizione che ne erano utenti e committenti, si sviluppavano)
non è anche essa interrogabile? O questa è invece una forma trascendente
dell’essere? Nell’epoca in cui si formano le discipline come noi le conosciamo,
si creano interi mondi e si consente anche di organizzare la discussione su di
essi, portando nello stesso gesto in
luce (per così dire) l’articolazione delle identità e degli interessi che si
propongono come cruciali. Ogni disciplina è dunque interamente politica, nel suo essere anche costrutto sociale di un
sottoinsieme degli attori rilevanti per l’azione. Purtroppo le discipline,
invece, si auto comprendono come “scientifiche” in senso di non-politiche; si
immaginano ancorate ad un metodo (che
qualificano come “scientifico”) che gli consente di elevarsi sopra lo spazio
del conflitto e “dire il Vero”.
L’economia, ad esempio, alla fine si riconduce al Vero
della maggiore ‘efficienza’ (a ben vedere il fondo anche della superiorità
attesa dal discorso marxiano). Dire qualsiasi altro esce dai limiti di
competenza; è ciò di cui non si può parlare, che non è annoverabile come “vero”
o “falso”, ma solo come “opinione”, o, peggio, è “irrazionale”.
Se per Galati fosse vero che “pertanto il discrimine
vero non è tra razionalità e irrazionalità, ma tra diverse razionalità determinate da diversi rapporti storico sociali
e contrastanti interessi” come si legherebbe questa affermazione di pura
marca relativista (glossata da “i quali si trovano intersecati nella medesima
società, come risultato della storia e dei rapporti di classe in essere”), con
la definizione della scienza, fornita più avanti, come “attività conoscitiva di
un oggetto reale”, ovvero come “attività veritativa”? Qualcosa che attiene al
rapporto soggetto-oggetto e che pretende una sua “validità”, e nel suo sviluppo
determina una sorta di progresso, quindi di universalità? Ovvero, come
conclude, che prevede “la validità universale e l’oggettività del progresso
scientifico”?
Sono questioni davvero difficili, sembra dire in
sostanza Galati che da una parte la razionalità è incorporata nei rapporti
storico sociali, e quindi in interessi contrastanti, mentre dall’altra che la
scienza è universale e oggettiva. Probabilmente la contraddizione si risolve
nell’ipotesi che quella economica è ideologia, mentre la sua matrice, la
scienza ‘dura’ è vero linguaggio della natura. Esisterebbe, cioè, una qualche
proprietà intrinsecamente conoscibile (avendo noi catturato “il linguaggio di
dio”, come disse Galilei) delle cose, indipendente da ogni contributo del
linguaggio e della mente (e dunque della società concreta, con il suo potere ed
i suoi interdetti). Un concetto problematico, già nella prima critica definito
“ding an sich” (vuoto) da Kant. Un concetto
che esclude il carattere politico di ogni disciplina e la sua stretta dipendenza
da una decisione di potere.
Ma nello svolgere questa critica non si tratta affatto
di “contrapporre ai comportamenti utilitari razionali borghesi” (tratteggiati
ad esempio nelle ricostruzioni di Sombart e Weber) ipotetici “comportamenti
irrazionali” trascendenti. Oppure, come sembra proporre Galati, di estendere la
nozione di “irrazionale” alle altre sfere umane, dissolvendo il confine con
“razionale”, radicalizzando il relativismo (con buona pace per le successive
affermazioni ambiziose) e perdendo ogni capacità di demarcazione. Ma si tratta
di affermare che il discorso scientifico è propriamente senza fondamenti. In altre parole, è umano.
Come avevo provato rischiosamente a scrivere nella
replica ad Eros Barone, la scienza non esprime mai formule finali, o
affermazioni sull’essere. Anzi, da Newton in poi essa si forma proprio a partire da questa partizione, la
particolare e contraddittoria metafisica della scienza (quando diventa
scientismo ed ideologia) è tutta in questa pretesa, di poter dire senza affermare la Verità. Di dire attraverso il mezzo
del ‘metodo’, ovvero attraverso numero e classificazione.
Per come la vede un grande epistemologo contemporaneo,
il recentemente scomparso Hilary Putnam,
la scienza è un potente distruttore di risposte
e credenze metafisiche, ma non ne crea. Non le può sostituire
realmente. Ogni fondamento che propone è allo stato fluido; essa “ci ha messo
nella condizione di vivere senza fondamenti” (“La sfida del realismo”, p.42). La verità è, in questo contesto,
solo una forma particolarmente stabile di validazione intersoggettiva che
evita, fino a prova contraria, “alienazione” e quindi “falsa coscienza” e
quindi, in altro linguaggio, rende e scaturisce da posizione “autonome” (in
senso kantiano).
Questa nozione di veridicità, in altre parole, non si lascia
tanto articolare sulla rubrica razionale/irrazionale, quanto su quella di emancipato/eteronomo. La verità è, così,
l’effetto di una interazione sociale nella quale sono state disinnescate sul
piano materiale, fisiologico e psicologico, le aspre forme di eteronomia, di
soggezione e di sottodeterminazione dell’individuo ed ha acquistato centralità
l’ideale di “pensare con la propria testa”
che è presente in rango centrale nella costruzione kantiana, in particolare in
“La religione nei limiti della semplice
ragione”. In questa particolare versione di una fondazione della verità
sull’autonomia (che è sia individuale sia intersoggettiva), il fatto che ogni
fondazione più forte sia indisponibile non è un disastro, è anzi un bene.
È la condizione stessa dell’autonomia. Una versione hegeliana di questa idea si
ritrova in Honneth (per certi versi in un altro interprete di Hegel come
Taylor).
Se, invece, si prova a definire “irrazionalismo”,
tutte quelle forme di conoscenza che “rinunciano a spiegare razionalmente,
scientificamente i fenomeni umani e sociali” si fa uso di una versione
eccessivamente metafisica del termine.
Non facendolo forse si eviterebbero gli equivoci che
seguono:
Se Visalli si fosse attenuto alla citazione riportata,
non avrebbe proceduto poi nel farsi sostenitore, sostanzialmente, della
separatezza tra un mondo calcolatore, dominato dalla tecnica, razionale,
capitalistico, e un mondo prigioniero della tradizione, dell’irrazionale o
diversamente razionale, contadino precapitalistico; i quali mondi, secondo i
suoi desideri, conservando ciascuno la sua “economia politica”, nonostante
siano ormai indissolubilmente intrecciati, possono e debbono entrare in
contatto, instaurando giusti rapporti, volontariamente e volontaristicamente su
iniziativa di un non meglio precisato “potere pubblico” occidentale, in un
processo che può essere ben ricondotto nello schema contrattualistico
illuministico-liberale, a dispetto della rivendicata estraneità.
Proprio perché si rifiuta l’ ”identitaria” dialettica
materialistica storica, sfugge che non di due economie politiche si tratta, ma
di una ormai, della quale le diverse realtà esaminate sono le facce.
Sono sorpreso: io non immagino alcuna separatezza,
almeno di natura ontologica, ma solo una differenza inframmezzata da tante
ibridazioni e crescenti. E quando parlo delle “due economie politiche” compio
una distinzione meramente analitica tra due circuiti intrecciati di creazione
di valore mobilitati dalle medesime
forze. È chiaro che si tratta di una
economia politica articolata in condizioni differenti e produttrice di effetti
differenti (ma altrettanto pericolosi). Completamente incomprensibile è poi il
richiamo al contrattualismo, qui si tratta meramente di conflitti.
Del resto di seguito, senza ripercorrere il meccanismo
che provo a descrivere, Galati si dichiara d’accordo con la caratterizzazione
dello sfruttamento ed il suo legame con la logica astratta della
valorizzazione. Giunge fino a considerare non da escludere l’ipotesi del legame
con ‘secolarizzazioni’ incomplete, ovvero la tesi forse centrale dell’articolo.
Di seguito tuttavia scivola in nuove domande
metafisiche che sarebbero per lui “il vero problema”, ma che sono estranee
all’impostazione del mio pezzo (che, casomai, si muove sul registro di un
discorso politico con alcune limitate affermazioni che pretendono di esser prese
per veridiche):
Il vero problema è: la dimensione tradizionale,
magico-religiosa, sacrale, irrazionale, è eterna, comunque latente e destinata
a riaffiorare carsicamente e fatalmente per il fatto di essere natura, o
impronta ancestrale, primordiale, o, a scelta, trascendenza spirituale? Oppure
questa è il portato della storia e di relazioni economico-sociali determinate
e, quindi, passibile di estinzione?
La strana domanda se la ritualità sia passibile di
estinzione, viene quindi articolata facendo uso di un sociologismo che la
riconduce semplicisticamente alla falsa coscienza derivante da insicurezza,
precarietà, incertezza, oppressione. Viene, cioè, in modo del tutto
tradizionale connessa con il bisecolare discorso sulla secolarizzazione, che ha
sempre inteso se stesso come alto e coraggioso e il reverso come arretrato,
oscuro, vile. Il progresso crea un uomo autonomo, “liberamente associato”, e
capace di autentico e cosciente controllo di sé (attraverso un piano), che sarà
capace di superare l’irrazionalismo infantile e arretrato.
Qui lavora una delle idee più potenti della tradizione
occidentale, forse una delle molle della sua distruttiva potenza: l’idea di progresso. Si tratta di una
delle più potenti costruzioni intellettuali che l’uomo abbia mai prodotto, in
un certo senso parte dell’autocomprensione della nostra stessa natura propria.
Nessuno agirebbe, oltre l’immediato e reattivo, se non si prefigurasse un
progetto che individua un “meglio” essenziale, una direzione nella quale si
avanzi. Avanzare è, del resto, una potente
metafora in quanto radicata nella stessa esperienza fisica dell’uomo, da quando
il neonato inizia ad esplorare il mondo.
Anche nelle versioni più sofisticate questa idea tende
a creare un punto di vista normativo, spesso implicito, immanente che esplica
una sorta di trascendenza dall’interno (termine proposto
da Amy Allen), spesso attraverso metafore basiche come ‘apprendimento’.
Provenendo da questa posizione morale, che ha grande
tradizione (chiaramente di derivazione illuminista), il desiderato
dissolvimento delle “forme irrazionalistiche” non deriva da un semplice
sviluppo della tecnica, ma più profondamente da uno sviluppo dei rapporti
sociali di produzione che per Galati sarà compiuto solo nel comunismo.
Questa posizione molto nota e tradizionale, quasi un
catechismo, giunge quindi a definire la “validità universale e l’oggettività
del progresso scientifico”, superando e disinnescando tacitamente anche i
precedenti filosofemi relativisti, attraverso la radice sociale e politica
delle affermazioni di verità. Ed il progresso nel contesto della “storia
universale” è ricondotto abbastanza banalmente al dispiegarsi della potenza
delle tecniche, con esempi da quelle meccaniche.
Per rimanere su un piano di concretezza, basso e
banale quanto si vuole, quando la scienza e la tecnica borghese arrivano a
costruire trattori e macchine agricole che aumentano la produzione e
scongiurano il pericolo per la comunità di soccombere per carestia, hai voglia
a parlare di tecnica borghese e di non neutralità della scienza che la
sottende. Su questa base l’organizzazione socialista dovrebbe rifiutare il
progresso tecnico conseguito dalla forma sociale precedente, il quale verrebbe
ridotto a mera ideologia. Stesso discorso vale per la cultura in generale,
sulla quale torna alla mente la critica leniniana del “Proletkult”.
Ma che si dice se l’esempio è più contemporaneo, e si
prende in esame ad esempio la tecnologia del cloud, con i suoi effetti sulla
concentrazione delle informazioni cruciali in server privati ad accesso
individuale? È neutra questa tecnica, può essere trasferita in rapporti sociali
meno individualisti e più comunitari? Immaginare che ‘tecnica’ e ‘ragione’ sia
sempre internamente connessa con potere e relazioni sociali non implica affatto
che non sia ‘ragione’, ma che in modo specifico non ci si può sottrarre alla
costante riflessione su premesse e modalità di affermazione (l’esempio, anche se
vecchio, di applicazione di questa strategia di critica è in questa ricerca
sulla costruzione della cartografia
scientifica).
Friedrich List |
Certo il comunismo è quasi per definizione lo sviluppo
più efficiente delle possibilità ‘liberate’ dalle tecniche. È in effetti la
liberazione di Prometeo (uno degli eroi di Marx), non è affatto il ritorno al
passato, e tanto meno alla povertà, ma è il superamento dialettico del presente
nello sviluppo delle forze produttive. Uno sviluppo che non ha a che fare con
l’azione intenzionale di soggetti pubblici più o meno statuali, ma con
l’automovimento intrinseco della storia e della classe. Insomma, qui siamo alla
polemica
tra Marx ventisettenne e List anziano, 1845 ad un anno dalla morte di
quest’ultimo: come noto Marx vide nella teoria “nazionalista” di List un
ostacolo che avrebbe rallentato l’estensione del dominio dei grandi capitali
industriali e con essa la riduzione dei prezzi, e dunque dei salari. Ciò, in
una perfetta logica politica del “tanto peggio, tanto meglio” avrebbe ridotto
l’antagonismo. Il libero scambio (diremmo la mondializzazione) “spinge
all’estremo l’antagonismo fra la borghesia e il proletariato… è solamente in
questo senso rivoluzionario, signori, che io voto in favore del libero scambio”
(K. Marx, “Discorso sulla questione del
libero scambio”, 1848)
Nel settembre 1888, la prefazione
di Engels al medesimo discorso di Marx di quaranta anni prima in occasione di
un convegno sul libero scambio a Bruxelles a due anni dalla abrogazione delle
leggi sul grano e quindi dall’offensiva dell’industria inglese, cade di nuovo
in occasione di un grande movimento strategico-commerciale: la riapertura del
mercato americano. Il grande rivoluzionario anche qui non nasconde affatto che
il libero scambio è sempre stato un’arma imperialista, non nega, insomma
l’argomento di List di quarantadue anni prima: è chiaramente una parola
d’ordine della grande industria ed una fede, un vangelo, che nasconde un
progetto imperiale. Ma ricorda Engels che Marx, “in ultima istanza” ed “in
linea di principio” si era egualmente pronunciato in suo favore; con le sue parole:
“poiché il libero scambio è l’atmosfera naturale e normale per questa
evoluzione storica, l’ambiente economico nel quale le condizioni di questa
inevitabile soluzione sorgono più rapidamente – per questo, e soltanto per questo – Marx si dichiarò a favore
del libero scambio”.
Alla fine quella di Galati è la stessa logica: in
fondo è un fatto che le economie piccole sono “attratte e dominate dalle
economie ricche. Un dato di fatto che nessuna lamentazione sentimentale può
evitare”; non è evitabile “la loro sottomissione e il loro sfruttamento”.
Questa è (ancora in riferimento al 1848) dunque una “necessità storica di
tendenze di sviluppo oggettivo”. Una strada che, pur duramente, va percorsa
come dice Luckacs, per acquisire le fondamentali condizioni materiali del suo
affrancamento reale e definitivo, cioè le condizioni del socialismo. Scrive ciò
il filosofo ungherese nel 1966, quando il modo di produzione fordista volge al
termine e con esso l’unità della classe agente per la rivoluzione.
Il libero scambio ha da allora fatto il suo duro
lavoro, esattamente come prevedevano Marx e Engels, ha abbassato salari e
prezzi, ha reso difficile la vita delle classi subalterne, ma questa volta, nel
contesto dell’ambiente tecnologico contemporaneo (con la cosiddetta
accumulazione flessibile e la rivoluzione ICT), non ha reso più forte la classe;
anzi l’ha dissolta.
Forse dunque oggi Marx valuterebbe diversamente, e, “in
ultima istanza”, per questo e solo per
questo, sarebbe contrario. Ma il nostro era capace di cambiare idea, lo
siamo anche noi?
Di seguito al testo e verso la fine ritrovo un richiamo
a Gramsci, che alla proposta di Labriola di fare schiavi i popoli bambini ed
arretrati, opponeva comunque il diritto dei popoli ad un grado superiore di civiltà (il proprio, naturalmente), di
educare i popoli arretrati (ad esempio indiani e cinesi), anche arruolandoli ed
istruendoli. Mi spiace, ma questa formulazione odora di implicito colonialismo
e di eurocentrismo, nulla di male in un uomo nato nel 1800, ma assai più
problematica dopo Bandung.
Del resto per Galati, in fondo “il potere pubblico è
un’entità vuota”, dunque tanto vale lasciar fare agli spiriti animali della
tecnica e alla dinamica dei poteri, che andranno automaticamente per il meglio
per effetto della fortunata provvidenza. Oppure bisogna comunque spingere ed
industrializzarsi, per resistere (con un certo grado di incoerenza con buona
parte del discorso è richiamato alla fine il maoista Losurdo nel suo ultimo
libro).
Questa affermazione del vuoto del potere pubblico, nel
momento in particolare in cui si cita con favore un libro come “Il
marxismo occidentale” di Losurdo, appare particolarmente singolare. L’opposizione
idealtipica tra le due forme di marxismo, avanzata da questi, si impernia
infatti proprio sul ruolo dello Stato. A suo parere questa opposizione si
incardina nella vicenda storica, più che in invarianti culturali:
-
Dove il marxismo
ha trionfato, sempre in paesi deboli e periferici rispetto al centro imperiale
del capitalismo occidentale, il tema che si è guadagnato la centralità è sempre
stato la sopravvivenza. Quindi l’indipendenza e la difesa dal colonialismo (vedi
Bandung, promosso da stati forti come quello cinese ed indiano), ferocemente
perseguito con assoluta determinazione dalle potenze occidentali.
-
Dove il marxismo,
invece, si è sviluppato come pensiero e prassi critica di opposizione, sbarrata
nell’accesso reale al potere, ovvero in occidente, il tema divenuto centrale è
stato l’antiautoritarismo in chiave di antinazionalismo e di attesa messianica
e millenarista di una finale dissoluzione dello Stato. Il marxismo
all’opposizione si è confrontato infatti con Stati forti e di successo, e nel
centro del potere imperialista, ma ha finito a volte a far sovrapporre un’inconsapevole
ripresa della tradizione religiosa occidentale (e prima della tradizione
cinica) alla concreta percezione delle forze in campo e delle priorità che una
lettura materialista di queste avrebbe consigliato.
In entrambi i casi, nelle diverse condizioni, la molla
dello sviluppo della costruzione ideologica è, hegelianamente, il
riconoscimento e quindi la reazione al disprezzo. Mentre in occidente il
patriottismo è letto con crescente sospetto, visto nelle condizioni del primo
novecento come sentimento connesso con le guerre interimperialiste e bandiera
della reazione contro il movimento internazionale dei lavoratori (anche, e
soprattutto, su due arene strategiche ed esemplari come la Germania e
l’Italia), in oriente al contrario è la bandiera che chiama alla riscossa; ne è
espressione, ad esempio, il primo Ho-Chi Minh.
È vero che quindi allo spirito utopico occidentale (fine
del denaro, del lavoro, etc.) il comunismo orientale oppone lo sviluppo delle
forze produttive, al prezzo di far diventare tutto una grande fabbrica anche
con elementi dispotici (creando il “capitalismo senza capitalisti”), come leva
indispensabile per difendere le conquiste sociali dalla concreta aggressione
economica e militare occidentale. Ovvero dal capitalismo di rapina occidentale.
È vero che Lenin nel 1923 nella famosissima “Lettera
al Congresso”, un Lenin ormai morente scrive:
“sarei pronto a dire che per noi il
centro di gravità si sposta sul lavoro culturale, se non fossimo impediti dai rapporti internazionali, dall’obbligo
di lottare per la nostra posizione su scala internazionale …davanti a noi si
pongono due compiti fondamentali, che
costituiscono un’epoca. Si tratta del compito di trasformare il nostro apparato
statale, che proprio non vale nulla e che abbiamo ereditato al completo
dall’epoca precedente”.
E prosegue:
“il nostro secondo compito consiste
nel lavoro culturale fra i contadini. E questo lavoro ha come scopo economico
appunto la cooperazione” (in questo riecheggiano i temi dell’ultimo
Marx stesso).
Ma, e questo è cruciale:
“questa rivoluzione culturale
comporta delle difficoltà incredibili, sia di carattere puramente culturale
(poiché siamo analfabeti) che di
carattere materiale (poiché per diventare colti è necessario un certo
sviluppo dei mezzi materiali di produzione, è
necessaria una certa base materiale”.
E’ vero anche però
che questo primo obiettivo (in termini di necessità) ha teso ad andare ad
ostacolare il secondo, sovrapponendosi all’obiettivo della cooperazione e
travolgendolo (una tesi del genere anche nell’ultimo
Trentin), estendendo la disciplina di fabbrica all’intera società.
Siamo al centro delle contraddizioni di cui è piena la
storia (anzi di cui è fatta).
Ma non si può neppure dimenticare, al converso, che nella feroce
critica al colonialismo inconsapevole, incorporato nella nozione di razionalizzazione
come progresso, della tradizione messianica occidentale, trasposta nel marxismo
nostrano, Losurdo arriva ad attaccare scivolamenti di Adorno come il seguente:
“Persino le invasioni dei
conquistatori dell’antico Messico e nel Perù, che là devono essere state viste
come invasioni da un altro pianeta, hanno contribuito sanguinosamente – in modo
irrazionale per gli Atzechi e gli Incas – alla diffusione della società
razionale in senso borghese fino ad arrivare alla concezione one
world, che inerisce
teleologicamente al principio di tale società” (A., 1966).
Il mondialismo sarebbe dunque, persino nella
distruzione (armi, acciaio e malattie) condotta spietatamente da Cortes a danni
di una grande e antica civilizzazione, un contributo alla razionalizzazione del
mondo? Hernàn Cortés Monroy, strumento della Ragione?
Occorre fare molta attenzione alla “ragione”, che ci
prende alle spalle.
Insomma, mi pare che il complesso sistema messo in
campo da Galati risenta di un certo schematismo tratto in sostanza dalle fonti,
in esse necessario in quanto si tratta in ultima analisi di un’arma. Un
pensiero in lotta che in molti punti cruciali piega la parsimonia necessaria
del discorso scientifico alle esigenze imperiose della fase. Un pensiero che
sotto questo profilo si fa confinare
nel suo tempo, alla metà dell’ottocento, età di sviluppo imperioso di tecniche
‘del braccio’ e dell’imperialismo conseguente, età di rapina.
Un pensiero che naturalmente risente anche dello
sviluppo spirituale e delle acquisizioni del suo tempo e la cui traduzione
nell’epoca dello sviluppo imperioso delle tecniche ‘della mente’ e del
conseguente imperialismo sfidato, nel suo costante, ma mutato, istinto di rapina,
è insieme difficile ed affascinante, ma va compiuta con attenzione.
Una traduzione che, a mio parere, richiederebbe meno
schematismo.
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