Si può partire da molte cose per spiegare la fragorosa
slavina di domenica che ha travolto tutta la sinistra italiana: in primis la sua
magna parte era da molto tempo più liberale che socialista, e parteggiava abbastanza
chiaramente per la metà tranquilla e garantita della società; la piccola quota
di LeU, fattasi ancora minore, è risultata essere in tutte le sue componenti
troppo indecisa e in alcune anche compromessa con la formazione di provenienza
per essere credibile per l’altra metà del cielo; del resto anche la
piccolissima, ai conti ancora più del previsto, PaP si è rivelata troppo
confusa e sotto troppi profili inadeguata per rappresentarla, ed anche questa
alla fine ha finito per guardare solo il proprio ombelico. In tutto non è
arrivata al 25% degli elettori, cioè a poco più del 15% degli elettori.
Uscendo da questa spiegazione politicista si può anche
partire da guardare al nesso tra movimenti sociali e culture politiche; cioè
tra quello scivolamento verso il basso almeno del 20% che non si percepisce più
classe media (per cui oggi possono sentirsi tranquilli solo il 40% ca, e invece
si sentono deboli almeno il 50% della popolazione). Dunque dalla molla che nel
silenzio si stava caricando, come dice
Bagnasco, e che alla fine è scattata.
Come sta avvenendo in tutto l’occidente, anche in
Italia continua insomma quella che Spannaus ha chiamato la rivolta degli elettori. Dal 2016 abbiamo
avuto prima la
brexit, poi l’elezione di Trump,
quindi il preavviso non ascoltato delle elezioni italiane del 2013 e
dell’esplosione del M5S, un evento che nel 2014 in “trovare
la forma” mi sembrava indicare, ‘come in uno specchio’ il sorgere di un
nuovo assetto, un nuovo equilibrio che sorgeva da qualche parte ed iniziava ad
aggregarsi. Poi abbiamo avuto il referendum
italiano che ha spezzato la traiettoria di Renzi; le elezioni francesi
nelle quali la Le Pen è stata fermata (ma solo al ballottaggio), ma al contempo
è emersa una sinistra nuovamente attenta alle ragioni del socialismo in Mélenchon
(come in Inghilterra in Corbyn
e in USA in Sanders),
separandosi chiaramente da un centro liberale ricostituito in Macron; persino
quelle tedesche, in cui le formazioni centrali sistemiche sono ulteriormente
arretrate.
Siamo quindi da qualche anno su quello che si potrebbe
chiamare “un crinale”, la pallina sta andando una volta di qua ed una volta di
là.
Elezioni 4 marzo: rapporto tra reddito pro capite e consenso al M5S |
Commentando questi eventi Carlo Formenti parla
dell’esplosione della rabbia delle ‘periferie’, cioè di classi subordinate
schiacciate dal riassetto sistemico in corso e incazzate in particolare con la
sinistra, “che le ha consegnate alla repressione del capitale globale
preoccupandosi solo di difendere i diritti civili di minoranze colte e
benestanti”. Le sinistre di tradizione socialista sono, insomma, diventate
esclusivamente liberali e ormai difendono ostinatamente un insediamento
sociale, erroneamente considerato maggioritario, riconducibile solo a classi
medie ‘riflessive’, urbane, sempre più anziane. Ne è chiara immagine il
multiculturalismo e la difesa della cosiddetta “società aperta” (e competitiva)
ed anche il cosmopolitismo di marca borghese spacciato per internazionalismo.
Del resto anche le sinistre più o meno ‘radicali’, come LeU
e soprattutto PaP
scontano un complessivo e radicale disorientamento strategico; l’incapacità di
individuare gli snodi essenziali della situazione e di impostare un discorso
politicamente e socialmente coerente. In queste condizioni il 15% del corpo
elettorale è una dimensione più che appropriata (ma può ancora scendere).
Lo sfondo è chiaro: la fase di rilancio
dell’accumulazione, attraverso la finanziarizzazione, l’interconnessione e
l’aumento della dipendenza, e l’estensione del dinamismo che si è avuta nel trentennio
dal 1980 al 2010 si è risolta in un 66% degli italiani che (indagine Demos,
2016) reputa “inutile fare progetti per il futuro”. La scheletrica ed
irresponsabile antropologia del pensiero liberista non ha capito che
l’incertezza ed il rischio non sono pungoli che rendono più attivo e produttivo
l’uomo; se superano una certa soglia si sopportabilità, al contrario, lo
spengono. Un “futuro incerto e carico di rischi”, come quello percepito
incombente e minaccioso da due nostri compatrioti su tre, induce infatti quello
che Mullainthan e Safir, in un bel libro del 2013 “Scarcity”, chiamano “effetto tunnel”. La scarsità percepita
“cattura la mente”, inducendola a concentrarsi solo sull'assoluto presente. Ma
non si tratta di ottimizzazione, come presume tanta letteratura scritta nel
chiuso dei propri dipartimenti da ricchi professori: è al contrario una “inibizione”. Gli psicologi chiamano con
questa parola (per questo tra virgolette) quella capacità della mente di
eliminare le possibilità alternative, rendendole invisibili. In altre parole,
concentrarsi su una cosa urgente e vitale (come affrontare un predatore, o
pagare la prossima bolletta della luce) “ci rende meno capaci di pensare ad
altre cose che contano”; è quella che si chiama “inibizione dell’obiettivo”.
Tutti i fini e le considerazioni che sarebbero altrimenti importanti
(migliorare la propria competenza con un corso professionale, fare
quell'investimento che pure indurrebbe grandi risparmi, curare le relazioni
sociali per aumentare le proprie opportunità, …) scompaiono dalla nostra stessa
vista. Mentre nei paper dei vari Lucas o quelli di
Prescott, si immagina che il consumatore definisca sempre ‘aspettative
razionali’ sul futuro, calcolando tutte le implicazioni di ogni politica e
anticipandole nella sua azione, la maggioranza di essi è invece concentrata sul
“tunnel”. La mente non è, cioè, occupata a fare complessi calcoli
costi-benefici ma dalle scadenze.
È questo che alla fine impedisce qualunque
progettualità, inclusa la ribellione, che spinge a vivere in un eterno attimo presente,
carico di angoscia e risentimento inespresso.
Ma improvvisamente
il 4 marzo, in fondo inaspettatamente, questo fondo magmatico si è espresso. L’umore nero del paese profondo, quello che la
sinistra neppure riesce ad immaginare e per il quale non ha proprio le parole
(risolvendosi a reiterare stanchi cliché come ‘razzismo’, ‘populismo’,
‘nazionalismo’, anche ‘fascismo’) si è improvvisamente addensato come una sorta
di nuovo popolo che si separa nel paese, mettendo a punto un linguaggio, dei
blocchi emotivi, nei bar, nelle strade, nei negozi, negli uffici, nelle piazze.
Un ‘popolo’ che si è identificato nei ‘non’, nelle differenze dal potere, dalla
politica, dalla finanza, dalla grande impresa, dalla globalizzazione, dalla
tecnologia industriale, dalle <caste>, dal denaro. Anche dai meridionali,
dagli immigrati, dagli altri ed estranei,
Chiaramente questa “cultura” appare agli occhi ed alle
orecchie di quelli che una volta sarebbero stati chiamati <gli
integrati>, cioè dei colti e formati, dei tranquilli, di chi non cambia
spesso lavoro, di chi ha l’orizzonte sereno di un percorso tracciato, o delle
risorse per farsi il futuro che si vuole, strana ed un poco aliena. Appare
sconnessa, contraddittoria, mal costruita, oscura e per certi versi temibile; sembra
pericolosa.
Questa reazione, di cui tutte le sinistre sono
espressione (anche quelle ‘radicali’) non capisce nulla e non si vede che in
questo c’è del nuovo. Rischia, più o meno tutta insieme, di fare la fine di De
Maistre con la Rivoluzione Francese, cioè slittamento per slittamento,
di trovarsi alla corte di Alessandro di Russia.
Questa reazione al plebeismo di questa ‘rivolta’ (che
non è ancora una ‘rivoluzione’, di qualunque segno, e forse mai lo sarà), per
ora identificabile come un ‘momento
Polanyi’ con singolari e rischiose analogie con gli anni trenta (quando
intellettuali allora di sinistra, come Sombart, indicarono la
svolta), porta in altre parole molti a cercare di arroccarsi entro il
sistema sfidato. La scelta di LeU, di utilizzare i profili istituzionali dei
Presidenti di Camera e Senato e di enfatizzare in ogni occasione la propria
‘responsabilità’ suona infatti a molte orecchie come chiara scelta del campo.
Un campo affollato e in via di restringimento, nel quale non c’è spazio e nel
quale il 3% raggiunto appare già come un risultato notevole.
Ma anche PaP, che ha inteso restarvi fuori, rigetta il
plebeismo. Invece di fare tesoro della ‘tecnica della spugna’ del M5S, della
capacità di addensare i sentimenti, le parole, le pulsioni e di solidificare i
vapori diffusi, ha ripetuto i suoi slogan identitari. Peraltro divergenti in
modo radicale gli uni dagli altri, a causa di un rassemblement costruito
necessariamente troppo in fretta e senza un vero centro.
Del resto se anche fosse vero, ma credo che questo sia
parte del problema, che come scrive
il mio amico Riccardo Achilli “ogni crisi e ogni fase di transizione generano,
nel nostro popolo, sottoprodotti di scarto, come il giustizialismo, il
plebeismo, il qualunquismo, l’avventurismo, l’anarco-individualismo”, bisogna comunque
chiedersi in modo più attento perché tutto questo si è risolto nel 55% dei
consensi alle forze antisistema rappresentate da M5S (32%), Lega di Salvini
(17%) e la più tradizionale Fratelli d’Italia (4,5%), il primo, terzo e quinto
partito, mentre le forze responsabili che hanno guidato la seconda repubblica
sono scese al 40%, con il PD (18%) e Forza Italia (14%), insieme all’appendice,
e considerata tale, di LeU (3%).
Ci sono naturalmente molte, diverse, spiegazioni, ma
torniamo agli “snodi della situazione”; in sostanza mi pare di poter dire che
la sinistra liberale (tra cui va annoverata anche LeU, che ne è solo la
propaggine più radical) fatica a confrontarsi con le conseguenze de:
-
la nuova ‘piattaforma
tecnologica del capitalismo’ e con le sue conseguenze sul mondo del lavoro
e la distribuzione,
-
l’accelerazione
dei processi di disarticolazione
che ne sono parte e dei fenomeni di mobilità, con le loro radicali e crescenti
conseguenze (qui viene rigettato, in nome di un cosmopolitismo verniciato di
internazionalismo il tema dirimente dell’immigrazione, su cui abbiamo di
recente letto
Sahra Wagenknecht),
-
l’Europa nel
contesto del processo di ricomposizione egemonica in corso (che avevamo
chiamato “la
grande partita”),
-
lo smottamento
della base sociale della democrazia e l’attacco al suo ‘carisma’.
Certo chiunque fatica a confrontarsi davvero con
queste forze. Tanto più quanto cerca di leggerle con gli occhiali costruiti per
altre ‘piattaforme tecnologiche’ (quella fordista in primis, ma anche quella
post-fordista che si sta radicalizzando andando oltre se stessa e revocando via
via anche i compromessi che la costituivano, come la flessibilità in cambio del
lavoro), per società ancora solide che si stanno rivelando stremate e per un
progetto internazionale che presumeva un’omogeneità politica e culturale
prospettica che si allontana verso modelli multipolari di difficile
interpretazione. Lo smottamento della base sociale della democrazia è solo il
necessario suggello a questa molteplice frana.
Dunque il 4 marzo è venuta giù la slavina che seguiva
al disgelo lento di forze accumulate nel lungo tempo degli ultimi trenta anni.
Il sud Italia si è unito, come mai si era visto in
precedenza, garantendo maggioranze che si possono definire ‘bulgare’ al M5S,
che in alcuni territori ha superato il 60% dei consensi. Il nord Italia ha
visto l’affermazione impetuosa della Lega, che è cresciuta di oltre quattro
volte, portandosi ad un’incollatura dal secondo partito, in caduta libera.
Quelle espresse dal M5S al sud e dalla Lega al nord sono,
a tutta evidenza, due diverse forme di politica ‘maggioritaria’ (secondo la
definizione che ne dà un manifesto della politica elitaria e tecnocratica come
“Lo
Stato regolatore” di Majone) e di ricerca di protezione, armate l’una contro l’altra.
Il miracolo del 4 marzo è cioè figlio dell’improvviso
manifestarsi, ad un livello qualitativamente superiore, di quella che Laclau
chiamerebbe due diverse “faglie di antagonismo”, entrambe originate dalla
sofferenza e dalla paura che la metà inferiore della piramide sociale vive. Quindi
da due diverse domande di protezione. Sinteticamente dalla protezione dal mercato,
da una parte, e dallo Stato tassatore (eventualmente anche europeo), dall’altra.
Il lavoro che il M5S, da una parte, e Salvini
dall’altra (gli indiscutibili vincitori), hanno fatto è per entrambi di
identificare, in qualche modo nominare, un obiettivo centrale per orientare le
energie disattivate dalla crisi. Questo ha consentito a molti di trovare la
ragione per oltrepassare l’inibizione che la pressione insopportabile dell’incertezza
e della scarsità porta con sé nell’identificazione chiara di un colpevole. Si tratta di un’operazione, non ha molta
importanza qui se cosciente o ‘trovata’ solidificando vapori diffusi,
propriamente politica (che anzi ne è il
proprio) di costruzione di egemonia. La creazione di un profilo individuale
nella rappresentazione politica.
La sfida che questo ‘doppio popolo’, manifestatosi
nelle urne, pone in primo luogo nella modalità della sua costruzione, alla
logica razionale del discorso liberale corrente è tutto in questo ‘eccesso’.
Majone ci insegna che la politica ‘madisoniana’ (per la cui radice storica
rimando a questo
testo di Alan Taylor) nella quale abbiamo vissuto in particolare gli ultimi
trenta anni è necessariamente parsimoniosa nella ricerca del consenso, anzi in sostanza ne fa a meno. Cerca di
legittimarsi da un’altra fonte (ed infatti proliferano i meccanismi per
ottenere la licenza d’uso a buon prezzo, con meno voti possibili, con i più
diversi trucchi ‘maggioritari’), come dice il politologo italoamericano nella credibilità dei risultati anziché
nella delega della maggioranza. La fonte della legittimità, per la
generazione di politici cresciuta negli ultimi decenni, non è davvero il consenso degli elettori, e la
responsabilità verso i Parlamenti, ma la
verità della tecnica ed i risultati, in ultima analisi il successo. Non è
affatto un caso che l’Unione Europea sia quello che è: di questa logica è il
distillato più puro al mondo. In essa si ha un netto e pulito rovesciamento,
perché a ben vedere sono i governi che controllano i Parlamenti attraverso gli
schermati organismi europei (come gli Eurogruppi o il Consiglio Europeo), cfr. Majone,
cit. p.168. E per farlo ricorrono anche a ‘fiduciari’ (dei mercati-sovrani, non
certo dei cittadini) che non sono legati da vincoli di mandato ma sono
“indipendenti”, il migliore esempio è la BCE (di cui presto avremo notizie). La
mossa vincente è disperdere il potere fra istituzioni differenti (una mossa
antica ed in effetti fondativa dell’assetto politico moderno, come si vede dal
libro di Taylor sulla democrazia americana delle origini) il più possibile al sicuro dall’opinione dei cittadini.
La questione non è astratta, perché c’è un nesso forte
e sistematico tra la possibilità di politiche redistributive (che necessitano
di uno Stato forte, ‘gestore’ come dice, e di politiche attive ed energiche) e
la loro legittimazione, che deve necessariamente passare per maggioranze
politiche altrettanto attive ed energiche. Indebolirle, frammentando il potere
e portandolo oltre le braccia degli elettori (cioè passare allo “Stato [solo]
regolatore”) implica una diversa fonte di legittimità, ancorata non al voto
della maggioranza ma all’efficacia credibilmente rivendicata, cioè al
sapere tecnico. Questi organismi sono quindi in effetti “creati deliberatamente in modo da non renderli direttamente
responsabili verso l’elettorato o i rappresentanti elettivi” (Majone, cit. p.169).
Allora quel che anche la liberale LeU non ha capito
davvero è che la questione del populismo
democratico non è aggirabile, in particolare se si vuole pensare a
politiche redistributive e di protezione. Nella logica corrente queste non sono
possibili, e per ragioni sistematiche che vanno anche oltre il mero economico.
Quando si conferma l’abbandono delle politiche
‘populiste’ (o ‘maggioritarie’, ovvero volte a ricercare il consenso delle
maggioranze, della plebe) è necessario restringere la politica in favore di un
potere amministrativo che trae altrove la sua legittimità (in una idea di
“ragione” posta prima del discorso stesso, in qualche modo nelle cose e nei
saperi tecnici che le rappresentano).
Se, invece, si corre il rischio dell’eccesso si può
ricostruire un politico. È quello che hanno fatto davanti ai nostri occhi
stupefatti sia il M5S sia Salvini.
Non c’è alcuna speranza per la sinistra se non supera
se stessa e impara.
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