In questo libro
del 2017, un raro studio di caso sul campo delle nuove geografie di
sfruttamento del lavoro, in questo caso immigrato, il sociologo salernitano
Gennaro Avallone studia l’agricoltura della piana del Sele, terra a profonda
vocazione agricola a sud di Salerno.
Il contesto è quello di una geografia dell’agricoltura
italiana che vede il nord nel ruolo di detentore dei mezzi di produzione (in
questo caso semi e mercati di sbocco, attraverso il controllo della
distribuzione) e la periferia, rappresentata per lo più dalle terre del sud,
vocate per ragioni geografiche e climatiche, che svolgono la funzione di
produrre a basso costo, utilizzando naturalmente una forza lavoro a basso
costo. La presenza e la costante attrazione di questa forza lavoro a costo
decrescente è la principale leva competitiva che consente ai territori
periferici, che non hanno controllo dei mezzi di produzione e accesso primario
ai mercati, di restare in campo. E la principale strategia è di attrarre
costante immigrazione che sostituisca quella che si sposta su segmenti di
maggiore valore, attraverso un meccanismo specifico i cui agenti sono le
imprese dominanti nel settore della distribuzione, spesso allungate verso il basso
attraverso pratiche predatorie altamente finanziarizzate, ma anche le imprese
piccole e medie in posizione subalterna, che reggono attraverso una selvaggia
politica del personale ‘grigia’ più che ‘nera’, e le ‘diaspore’ altamente
specializzate e consolidate nelle quali operano mediatori dei flussi e
terminali delle rotte, connessi con zone di estrazione ben precise e
delimitate. Si tratta dell’economia mondializzata che ha creato il mondo ipercompetitivo
nel quale viviamo.
L’area di studio è un’ampia pianura lungo la linea di
costa che accompagna per un’area di circa 500 kmq il corso del fiume Sele. Terreno
malarico, poi bonificato dal fascismo e fino agli anni cinquanta è sede di
produzioni ortofrutticole e florovivaistiche di eccellenza, con una notevole
estensione di serre ed alcune centinaia di aziende attive. Altre attività dell’area
sono le produzioni bufaline e quindi la mozzarella. In questa area, ricca sul piano
agricolo, l’occupazione è permanente in aziende diverse, impegnate in diversi
cicli produttivi, durante tutto l’anno.
Il fenomeno della presenza di migranti comincia ad
essere consistente negli anni novanta, man mano che le aziende agricole locali,
esposte ad una costante internazionalizzazione dei processi distributivi e
produttivi agricoli, inizia a reggere con fatica la concorrenza se non scarica
sul costo del lavoro i margini che scompaiono. Dal Sesto
rapporto Ires sull’immigrazione, della Cgil di Salerno, apprendiamo che il
primo insediamento è per lo più di marocchini dalla regione povera di Beni
Mellal, dove le retribuzioni corrispondevano a 2-3 euro al giorno per 50-100
giornate all’anno, e viene intermediato da una prima generazione di arrivati
che si propongono come ‘caporali’ nei confronti delle comunità di provenienza. Per
lo più tale prima ondata insediativa si attesta nelle aziende medio-piccole che
operano in una posizione subalterna nella catena del valore (dominata dall’accesso
allo ‘scaffale’). Ma spesso viene anche stimolata da una nuova figura di
imprenditore agricolo che si afferma negli anni novanta: “proprio in quel
periodo, gran parte della proprietà agraria, stava cambiando mano, con la
scomparsa dei grandi latifondi e dei conduttori di azienda classici, a favore
di commercianti e figure legate alla grande distribuzione commerciale. Questi
ultimi trovavano molto più conveniente affidare la gestione del mercato del
lavoro ai caporali, che perdere tempo appresso ad assunzioni e gestione del
personale”. Insomma, il ciclo produttivo si finanziarizza, cadendo nelle mani
di coloro i quali hanno maggiore accesso al credito e si perde la relazione
tradizionale tra la forza lavoro e l’impresa. Naturalmente questa trasformazione
si accompagna allo smantellamento del collocamento pubblico in agricoltura ed agli
istituti autorizzatori corrispondenti.
A partire da questi fenomeni, aggravati
consistentemente dalla presenza della criminalità organizzata nel passaggio
della regolarizzazione del 2002, che insieme ai caporali (della stessa etnia,
normalmente) intasca lauti compensi per ogni nuovo arrivo e il 10% del magro
compenso di lavoro che si aggira intorno ai 25 euro al giorno. Cosa che non si
limita agli irregolari, ma anche a chi ha un permesso di soggiorno che, però,
per essere rinnovato richiede la permanenza di un contratto (che, dunque, si è
costretti ad elemosinare con le ovvie conseguenze). La Cgil stima nella filiera
della produzione agricola propriamente detta la presenza di immigrati nell’ordine
del 60% della forza lavoro totale.
Sempre nella Piana del Sele gli allevamenti, invece,
sono interessati da un’analoga immigrazione a base etnica omogenea, ma questa
volta costituita da indiani e pakistani, anche loro giunti negli anni novanta che
hanno sostituito interamente la forza lavoro autoctona: “in tutti gli
allevamenti dell'area la forza lavoro dipendente è ormai, da diversi anni,
costituita esclusivamente da immigrati asiatici. Le modalità d'ingresso sono
state e sono tutt'ora diverse e avvengono attraverso ‘la chiamata’ di amici e
parenti già insediati”. E’ insomma la “diaspora” che attrae nuova immigrazione
(sul meccanismo delle diaspore si
veda Collier). In questo caso i salari sono di circa 1.000 euro ma gli
accordi contrattuali sono al massimo semestrali.
Questo fenomeno è legato alla trasformazione che il
mondo agricolo subisce a partire dagli anni ottanta, quando relazioni di tipo
più marcatamente capitalistico hanno modificato insieme le modalità di
produzione (nuove tecnologie, serre, fitosanitari, irrigazioni, semi) piante rivolte
all’esportazione ed inserite direttamente nella grande distribuzione di lunga
percorrenza (frutta, ortaggi di quarta gamma, fiori), colture permanenti spesso
ad alta intensità di investimento. Si tratta di processi interconnessi di
intensificazione, specializzazione, esternalizzazione affermatasi contemporaneamente
a due fenomeni globali: l’aumento quantitativo e qualitativo dei flussi di
capitali in cerca di rendimenti ‘alfa’ e connessi con prodotti finanziari di
tipo parassicurativo che in agricoltura, peraltro, hanno lunga tradizione; la
mobilizzazione di flussi sempre crescenti di lavoro a buon mercato,
simmetricamente alla delocalizzazione di imprese nei luoghi dove
contemporaneamente si davano le condizioni di lavoro debole ed interconnessione
(parte del nord Africa, il sud Est Asiatico delle cosiddette “tigri”, etc.). Gli
effetti combinati sono una violenta ‘repressione salariale’, la nascita di
quella che Arrighi
e Silver chiamano la “fabbrica globale”, e la crescita di aree di
sottoconsumo sempre più elevate.
In sempre maggiori enclave agricole orientate alle
esportazioni, dominate dalle grandi catene di distribuzione e dalla finanza
connessa, ed orientate essenzialmente ad una crescente ‘classe media globale’
(cui fa da contraltare il declino di quella occidentale).
Parte di questa trasformazione, ed a essa del tutto
funzionale, è l’estensione di rapporti salariati (non egemoni nell’economia
contadina tradizionale) e la ricerca di flessibilità che attrae consistenti
flussi migratori. Si è arrivati nel 2014 a registrare complessivamente una
presenza di manodopera immigrata in Italia che è stimata nel 31% (oltre 250.000
addetti, mentre solo venti anni fa era del 3,5%), ma che nelle enclave di esportazione,
come si è visto può crescere dal 60% in su. Del resto questo fenomeno avviene
in molta parte del mondo, in enclave agricole di esportazione sempre più
rilevanti, il Chiapas, per la canna da zucchero, Almerìa, Huelva, Murcia, Granada,
Gioia Tauro, Manolada in Grecia, etc. In corrispondenza a questo fenomeno il
lavoro salariato, spesso interessante immigrati, è cresciuto fino a diventare
la metà dell’occupazione in Spagna, il 40% in Olanda, Germania, Italia e
Francia.
Ma questa manodopera crescente, che sostituisce forme
di occupazione precedenti, non riesce ad uscire da una condizione di
sfruttamento e marginalizzazione a causa per Avallone di alcuni fattori
intrecciati: il permanente ricorso al lavoro nero o grigio, l’etnicizzazione
dei compiti lavorativi, le differenziazioni degli status (tra regolari e non),
il difficile accesso all’abitazione (p.47).
Chiaramente questi fattori richiederebbero, per essere
combattuti, una politica integrata che operi sull’intera filiera produttiva e
che si coordini partendo dalle PAC Europee.
Nella Piana del Sele la trasformazione è giunta al
punto che la proprietà dei terreni si è concentrata e ci sono ormai 4.500 ha di
serre (un investimento stimabile in miliardi) che fanno capo a 2-3 compratori
al massimo, dando atto ad una vera e propria colonizzazione tecnologica ed
economica divisa per segmenti. Anni fa mi trovai a parlare con il proprietario
di una delle più rilevanti aziende della piana, con centinaia di ettari di
serre di proprietà e uno stabilimento di selezione ed imbustamento per quarta
gamma interamente lavorato da donne probabilmente rumene. Questi aveva fatto un
impressionante investimento industriale per estendere la gamma di prodotti alle
conserve di pomodoro, un settore più che tradizionale nell’area, ma non riusciva
ad “andare sullo scaffale” con il proprio marchio, pur essendo nella grande
distribuzione per le vaschette di quarta gamma.
Il predominio della distribuzione sulla produzione non
potrebbe essere più forte e capillare.
Le tre diaspore presenti nella piana del Sele, quella
marocchina (dedita alla produzione agricola), quella rumena (alla
trasformazione) e quella indiana (all’allevamento), sono confinate in specifiche
aree produttive per effetto di un insieme di caratteristiche del reclutamento
(ovvero di relazioni) e di pregiudizi autoconfermanti. Le persone sono viste
quasi come utensili specializzati ed inserite come ingranaggi facilmente
sostituibili in una macchina produttiva già formata nella quale fungono da relè/manutentori
delle figure di confine che di fatto organizzano la ‘diaspora’ provvedendo al reclutamento
di sempre nuovi migranti, a sfidare come dice l’autore “i dispositivi di
confine”, per rinnovare l’esazione doganale (da 3 a 10.000 euro per
inserimento), in connessione funzionale sia con le aree di provenienza
(etnicamente ben definite, di volta in volta) sia con i canali di arrivo. Nel capitolo
“il viaggio, il tempo”, l’autore
sembra accusare, in linea con un sentimento diffuso, le frontiere, gli strumenti
di controllo, che con riflesso foucoultiano diventano nella stessa frase “strumenti
di assoggettamento e subordinazione” (p.90). La politica dei flussi, certo
altamente imperfetta, viene vista come causa della strumentalità, capace di
pensare le persone solo come forza lavoro. Si spendono frasi a grande effetto
come “è la realtà della mobilità che cerca di forzare i vincoli dei confini”
(p.94).
Naturalmente non è la politica dei flussi, che è un
colabrodo, a creare rapporti strumentali, ma è il sistema sociale e produttivo che
sta dietro le frontiere. Anzi, se i
flussi aumentassero a dismisura, accogliendo tutti senza limiti e senza costi,
come chiede l’autore, sarebbero principalmente gli attuali immigrati a vedere
indebolita la loro posizione, esposti a maggiore concorrenza da parte di
persone ancora più indebitate e disperate. Sarebbero invece le filiere
industriali e finanziarizzate che hanno occupato la Piana a giovarsene; in
quanto semplicemente il lavoro, reso indefinitamente abbondante, potrebbe
calare senza alcun limite (in realtà il vincolo della ‘clausola di
sopravvivenza’, per il quale non si può pagare meno di quanto serve a
sopravvivere materialmente, pur essendo vero generalmente non lo è localmente,
ed il capitalismo finanziario è bravissimo a rintracciare quelle nicchie dove,
anche per poco, è sospesa). Inoltre gli agenti dell’immigrazione potrebbero
manovrare più massa (anche se individualmente meno redditiva).
Per questo la Cgil nel documento citato propone di partire
da dentro, regolarizzando i rapporti di lavoro e quindi interrompendo la ‘pompa’
che attrae sempre più lavoro debole. La qualifica “unica arma per tentare di
arginare il lavoro nero e irregolare, mettere fine al mercato delle braccia”. Quindi
“svincolare il permesso di soggiorno dal rapporto di lavoro e legarlo alla
iscrizione agli elenchi anagrafici comunali degli operai agricoli, per mettere
fine al mercato dei contratti fittizi. Introdurre una norma che renda
penalmente perseguibile l'intermediazione di manodopera, per tentare di
sconfiggere la piaga del caporalato. Ed infine avviare nei territori
confronti-scontri con le istituzioni per avviare politiche vere di accoglienza”.
In “lavorare
per il nemico”, avevo proposto una logica diversa da quella generosamente proposta
da chi vede come causa del danno il contenimento dei flussi:
·
Rallentare
la sostituzione dei lavoratori,
·
Ostacolare lo
sfruttamento del lavoro debole,
·
Integrare e
quindi dissolvere le ‘diaspore’.
Ma in un certo senso ha ragione Avallone, come lo ha Eros
Barone nel dialogo che ho sopra linkato: quello delle migrazioni è un mondo di
strumentalità strettamente connesso con la logica dello sfruttamento
capitalista. E la gestione amministrativa di questa tragedia rischia sempre di
provocare infiniti effetti non voluti.
Ma anche se ciò è vero resta ineludibile il fatto che,
come dice anche lui, “il principale dispositivo politico-economico di controllo
e disciplinamento” è, come sempre, la semplice presenza ed anche la sola
minaccia di qualcuno che è disposto a lavorare con meno. Questa minaccia è
avanzata verso i lavoratori autoctoni (che sono stati per lo più espulsi,
almeno dalle quote più deboli del lavoro), ma è identicamente agita verso i
lavoratori immigrati. Spesso anzi sono questi ultimi, se hanno raggiunto una
qualche stabilità, che sono i più ostili ad altri arrivi (a meno non siano
nella stessa ‘diaspora’).
Avallone non indica soluzioni, ma la sua analisi della
meccanica internazionale che alimenta e crea il meccanismo aspirativo, l’”economia politica dell’immigrazione”, fornisce
un forte indizio su quale è la seconda parte del campo di battaglia che deve
essere impegnato se si vuole ottenere qualche risultato:
·
Regolare il commercio in modo che dal “free trade”, si passi al “fair trade”,
come propone Dani Rodrik in questo bell’articolo,
nel quale chiarisce che il commercio internazionale non è un rapporto di
mercato, ma una ‘istituzione globale’ che riconfigura i rapporti complessivi
accordi incorporati negli assetti istituzionali e sociali.
·
Ostacolare la mobilità dei capitali, per ridurre brutalità e complessità delle catene
produttive transnazionali che aspirano sempre più lavoro subalterno, come sottolinea
Saskia Sassen, come effetto indiretto della loro costitutiva spinta agli
“iperprofitti” (cioè a profitti a qualsiasi costo e senza freni, nel tempo
corto o istantaneo, senza sostenibilità, della finanza e dei servizi ad essa
funzionali) e della logica organizzativa che questa determina, inducendo
una continua espansione del campo di ciò che può essere “finanziarizzato”, che di fatto
smembrano la realtà sociale, promuovendo una estrema disuguaglianza.
·
Revocare le politiche predatorie ed imperiali, che supportano sistematicamente l’insediamento di
catene lunghe di sfruttamento e la valorizzazione del capitale mobile.
Questa battaglia si combatte in tutti e due i campi; farlo è necessario per riguadagnare la forza di
avere un mondo più umano.
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