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lunedì 26 marzo 2018

Gennaro Avallone, “Sfruttamento e resistenze”




In questo libro del 2017, un raro studio di caso sul campo delle nuove geografie di sfruttamento del lavoro, in questo caso immigrato, il sociologo salernitano Gennaro Avallone studia l’agricoltura della piana del Sele, terra a profonda vocazione agricola a sud di Salerno.

Il contesto è quello di una geografia dell’agricoltura italiana che vede il nord nel ruolo di detentore dei mezzi di produzione (in questo caso semi e mercati di sbocco, attraverso il controllo della distribuzione) e la periferia, rappresentata per lo più dalle terre del sud, vocate per ragioni geografiche e climatiche, che svolgono la funzione di produrre a basso costo, utilizzando naturalmente una forza lavoro a basso costo. La presenza e la costante attrazione di questa forza lavoro a costo decrescente è la principale leva competitiva che consente ai territori periferici, che non hanno controllo dei mezzi di produzione e accesso primario ai mercati, di restare in campo. E la principale strategia è di attrarre costante immigrazione che sostituisca quella che si sposta su segmenti di maggiore valore, attraverso un meccanismo specifico i cui agenti sono le imprese dominanti nel settore della distribuzione, spesso allungate verso il basso attraverso pratiche predatorie altamente finanziarizzate, ma anche le imprese piccole e medie in posizione subalterna, che reggono attraverso una selvaggia politica del personale ‘grigia’ più che ‘nera’, e le ‘diaspore’ altamente specializzate e consolidate nelle quali operano mediatori dei flussi e terminali delle rotte, connessi con zone di estrazione ben precise e delimitate. Si tratta dell’economia mondializzata che ha creato il mondo ipercompetitivo nel quale viviamo.

L’area di studio è un’ampia pianura lungo la linea di costa che accompagna per un’area di circa 500 kmq il corso del fiume Sele. Terreno malarico, poi bonificato dal fascismo e fino agli anni cinquanta è sede di produzioni ortofrutticole e florovivaistiche di eccellenza, con una notevole estensione di serre ed alcune centinaia di aziende attive. Altre attività dell’area sono le produzioni bufaline e quindi la mozzarella. In questa area, ricca sul piano agricolo, l’occupazione è permanente in aziende diverse, impegnate in diversi cicli produttivi, durante tutto l’anno.


Il fenomeno della presenza di migranti comincia ad essere consistente negli anni novanta, man mano che le aziende agricole locali, esposte ad una costante internazionalizzazione dei processi distributivi e produttivi agricoli, inizia a reggere con fatica la concorrenza se non scarica sul costo del lavoro i margini che scompaiono. Dal Sesto rapporto Ires sull’immigrazione, della Cgil di Salerno, apprendiamo che il primo insediamento è per lo più di marocchini dalla regione povera di Beni Mellal, dove le retribuzioni corrispondevano a 2-3 euro al giorno per 50-100 giornate all’anno, e viene intermediato da una prima generazione di arrivati che si propongono come ‘caporali’ nei confronti delle comunità di provenienza. Per lo più tale prima ondata insediativa si attesta nelle aziende medio-piccole che operano in una posizione subalterna nella catena del valore (dominata dall’accesso allo ‘scaffale’). Ma spesso viene anche stimolata da una nuova figura di imprenditore agricolo che si afferma negli anni novanta: “proprio in quel periodo, gran parte della proprietà agraria, stava cambiando mano, con la scomparsa dei grandi latifondi e dei conduttori di azienda classici, a favore di commercianti e figure legate alla grande distribuzione commerciale. Questi ultimi trovavano molto più conveniente affidare la gestione del mercato del lavoro ai caporali, che perdere tempo appresso ad assunzioni e gestione del personale”. Insomma, il ciclo produttivo si finanziarizza, cadendo nelle mani di coloro i quali hanno maggiore accesso al credito e si perde la relazione tradizionale tra la forza lavoro e l’impresa. Naturalmente questa trasformazione si accompagna allo smantellamento del collocamento pubblico in agricoltura ed agli istituti autorizzatori corrispondenti.

A partire da questi fenomeni, aggravati consistentemente dalla presenza della criminalità organizzata nel passaggio della regolarizzazione del 2002, che insieme ai caporali (della stessa etnia, normalmente) intasca lauti compensi per ogni nuovo arrivo e il 10% del magro compenso di lavoro che si aggira intorno ai 25 euro al giorno. Cosa che non si limita agli irregolari, ma anche a chi ha un permesso di soggiorno che, però, per essere rinnovato richiede la permanenza di un contratto (che, dunque, si è costretti ad elemosinare con le ovvie conseguenze). La Cgil stima nella filiera della produzione agricola propriamente detta la presenza di immigrati nell’ordine del 60% della forza lavoro totale.
Sempre nella Piana del Sele gli allevamenti, invece, sono interessati da un’analoga immigrazione a base etnica omogenea, ma questa volta costituita da indiani e pakistani, anche loro giunti negli anni novanta che hanno sostituito interamente la forza lavoro autoctona: “in tutti gli allevamenti dell'area la forza lavoro dipendente è ormai, da diversi anni, costituita esclusivamente da immigrati asiatici. Le modalità d'ingresso sono state e sono tutt'ora diverse e avvengono attraverso ‘la chiamata’ di amici e parenti già insediati”. E’ insomma la “diaspora” che attrae nuova immigrazione (sul meccanismo delle diaspore si veda Collier). In questo caso i salari sono di circa 1.000 euro ma gli accordi contrattuali sono al massimo semestrali.



Questo fenomeno è legato alla trasformazione che il mondo agricolo subisce a partire dagli anni ottanta, quando relazioni di tipo più marcatamente capitalistico hanno modificato insieme le modalità di produzione (nuove tecnologie, serre, fitosanitari, irrigazioni, semi) piante rivolte all’esportazione ed inserite direttamente nella grande distribuzione di lunga percorrenza (frutta, ortaggi di quarta gamma, fiori), colture permanenti spesso ad alta intensità di investimento. Si tratta di processi interconnessi di intensificazione, specializzazione, esternalizzazione affermatasi contemporaneamente a due fenomeni globali: l’aumento quantitativo e qualitativo dei flussi di capitali in cerca di rendimenti ‘alfa’ e connessi con prodotti finanziari di tipo parassicurativo che in agricoltura, peraltro, hanno lunga tradizione; la mobilizzazione di flussi sempre crescenti di lavoro a buon mercato, simmetricamente alla delocalizzazione di imprese nei luoghi dove contemporaneamente si davano le condizioni di lavoro debole ed interconnessione (parte del nord Africa, il sud Est Asiatico delle cosiddette “tigri”, etc.). Gli effetti combinati sono una violenta ‘repressione salariale’, la nascita di quella che Arrighi e Silver chiamano la “fabbrica globale”, e la crescita di aree di sottoconsumo sempre più elevate.
In sempre maggiori enclave agricole orientate alle esportazioni, dominate dalle grandi catene di distribuzione e dalla finanza connessa, ed orientate essenzialmente ad una crescente ‘classe media globale’ (cui fa da contraltare il declino di quella occidentale).

Parte di questa trasformazione, ed a essa del tutto funzionale, è l’estensione di rapporti salariati (non egemoni nell’economia contadina tradizionale) e la ricerca di flessibilità che attrae consistenti flussi migratori. Si è arrivati nel 2014 a registrare complessivamente una presenza di manodopera immigrata in Italia che è stimata nel 31% (oltre 250.000 addetti, mentre solo venti anni fa era del 3,5%), ma che nelle enclave di esportazione, come si è visto può crescere dal 60% in su. Del resto questo fenomeno avviene in molta parte del mondo, in enclave agricole di esportazione sempre più rilevanti, il Chiapas, per la canna da zucchero, Almerìa, Huelva, Murcia, Granada, Gioia Tauro, Manolada in Grecia, etc. In corrispondenza a questo fenomeno il lavoro salariato, spesso interessante immigrati, è cresciuto fino a diventare la metà dell’occupazione in Spagna, il 40% in Olanda, Germania, Italia e Francia.

Ma questa manodopera crescente, che sostituisce forme di occupazione precedenti, non riesce ad uscire da una condizione di sfruttamento e marginalizzazione a causa per Avallone di alcuni fattori intrecciati: il permanente ricorso al lavoro nero o grigio, l’etnicizzazione dei compiti lavorativi, le differenziazioni degli status (tra regolari e non), il difficile accesso all’abitazione (p.47).

Chiaramente questi fattori richiederebbero, per essere combattuti, una politica integrata che operi sull’intera filiera produttiva e che si coordini partendo dalle PAC Europee.



Nella Piana del Sele la trasformazione è giunta al punto che la proprietà dei terreni si è concentrata e ci sono ormai 4.500 ha di serre (un investimento stimabile in miliardi) che fanno capo a 2-3 compratori al massimo, dando atto ad una vera e propria colonizzazione tecnologica ed economica divisa per segmenti. Anni fa mi trovai a parlare con il proprietario di una delle più rilevanti aziende della piana, con centinaia di ettari di serre di proprietà e uno stabilimento di selezione ed imbustamento per quarta gamma interamente lavorato da donne probabilmente rumene. Questi aveva fatto un impressionante investimento industriale per estendere la gamma di prodotti alle conserve di pomodoro, un settore più che tradizionale nell’area, ma non riusciva ad “andare sullo scaffale” con il proprio marchio, pur essendo nella grande distribuzione per le vaschette di quarta gamma.
Il predominio della distribuzione sulla produzione non potrebbe essere più forte e capillare.

Le tre diaspore presenti nella piana del Sele, quella marocchina (dedita alla produzione agricola), quella rumena (alla trasformazione) e quella indiana (all’allevamento), sono confinate in specifiche aree produttive per effetto di un insieme di caratteristiche del reclutamento (ovvero di relazioni) e di pregiudizi autoconfermanti. Le persone sono viste quasi come utensili specializzati ed inserite come ingranaggi facilmente sostituibili in una macchina produttiva già formata nella quale fungono da relè/manutentori delle figure di confine che di fatto organizzano la ‘diaspora’ provvedendo al reclutamento di sempre nuovi migranti, a sfidare come dice l’autore “i dispositivi di confine”, per rinnovare l’esazione doganale (da 3 a 10.000 euro per inserimento), in connessione funzionale sia con le aree di provenienza (etnicamente ben definite, di volta in volta) sia con i canali di arrivo. Nel capitolo “il viaggio, il tempo”, l’autore sembra accusare, in linea con un sentimento diffuso, le frontiere, gli strumenti di controllo, che con riflesso foucoultiano diventano nella stessa frase “strumenti di assoggettamento e subordinazione” (p.90). La politica dei flussi, certo altamente imperfetta, viene vista come causa della strumentalità, capace di pensare le persone solo come forza lavoro. Si spendono frasi a grande effetto come “è la realtà della mobilità che cerca di forzare i vincoli dei confini” (p.94).


Naturalmente non è la politica dei flussi, che è un colabrodo, a creare rapporti strumentali, ma è il sistema sociale e produttivo che sta dietro le frontiere. Anzi, se i flussi aumentassero a dismisura, accogliendo tutti senza limiti e senza costi, come chiede l’autore, sarebbero principalmente gli attuali immigrati a vedere indebolita la loro posizione, esposti a maggiore concorrenza da parte di persone ancora più indebitate e disperate. Sarebbero invece le filiere industriali e finanziarizzate che hanno occupato la Piana a giovarsene; in quanto semplicemente il lavoro, reso indefinitamente abbondante, potrebbe calare senza alcun limite (in realtà il vincolo della ‘clausola di sopravvivenza’, per il quale non si può pagare meno di quanto serve a sopravvivere materialmente, pur essendo vero generalmente non lo è localmente, ed il capitalismo finanziario è bravissimo a rintracciare quelle nicchie dove, anche per poco, è sospesa). Inoltre gli agenti dell’immigrazione potrebbero manovrare più massa (anche se individualmente meno redditiva).
Per questo la Cgil nel documento citato propone di partire da dentro, regolarizzando i rapporti di lavoro e quindi interrompendo la ‘pompa’ che attrae sempre più lavoro debole. La qualifica “unica arma per tentare di arginare il lavoro nero e irregolare, mettere fine al mercato delle braccia”. Quindi “svincolare il permesso di soggiorno dal rapporto di lavoro e legarlo alla iscrizione agli elenchi anagrafici comunali degli operai agricoli, per mettere fine al mercato dei contratti fittizi. Introdurre una norma che renda penalmente perseguibile l'intermediazione di manodopera, per tentare di sconfiggere la piaga del caporalato. Ed infine avviare nei territori confronti-scontri con le istituzioni per avviare politiche vere di accoglienza”. 

In “lavorare per il nemico”, avevo proposto una logica diversa da quella generosamente proposta da chi vede come causa del danno il contenimento dei flussi:
·       Rallentare la sostituzione dei lavoratori,
·       Ostacolare lo sfruttamento del lavoro debole,
·       Integrare e quindi dissolvere le ‘diaspore’.

Ma in un certo senso ha ragione Avallone, come lo ha Eros Barone nel dialogo che ho sopra linkato: quello delle migrazioni è un mondo di strumentalità strettamente connesso con la logica dello sfruttamento capitalista. E la gestione amministrativa di questa tragedia rischia sempre di provocare infiniti effetti non voluti.

Ma anche se ciò è vero resta ineludibile il fatto che, come dice anche lui, “il principale dispositivo politico-economico di controllo e disciplinamento” è, come sempre, la semplice presenza ed anche la sola minaccia di qualcuno che è disposto a lavorare con meno. Questa minaccia è avanzata verso i lavoratori autoctoni (che sono stati per lo più espulsi, almeno dalle quote più deboli del lavoro), ma è identicamente agita verso i lavoratori immigrati. Spesso anzi sono questi ultimi, se hanno raggiunto una qualche stabilità, che sono i più ostili ad altri arrivi (a meno non siano nella stessa ‘diaspora’).


Avallone non indica soluzioni, ma la sua analisi della meccanica internazionale che alimenta e crea il meccanismo aspirativo, l’”economia politica dell’immigrazione”, fornisce un forte indizio su quale è la seconda parte del campo di battaglia che deve essere impegnato se si vuole ottenere qualche risultato:
·       Regolare il commercio in modo che dal “free trade”, si passi al “fair trade”, come propone Dani Rodrik in questo bell’articolo, nel quale chiarisce che il commercio internazionale non è un rapporto di mercato, ma una ‘istituzione globale’ che riconfigura i rapporti complessivi accordi incorporati negli assetti istituzionali e sociali.
·       Ostacolare la mobilità dei capitali, per ridurre brutalità e complessità delle catene produttive transnazionali che aspirano sempre più lavoro subalterno, come sottolinea Saskia Sassen, come effetto indiretto della loro costitutiva spinta agli “iperprofitti” (cioè a profitti a qualsiasi costo e senza freni, nel tempo corto o istantaneo, senza sostenibilità, della finanza e dei servizi ad essa funzionali) e della logica organizzativa che questa determina, inducendo una continua espansione del campo di ciò che può essere “finanziarizzato”, che di fatto smembrano la realtà sociale, promuovendo una estrema disuguaglianza.
·       Revocare le politiche predatorie ed imperiali, che supportano sistematicamente l’insediamento di catene lunghe di sfruttamento e la valorizzazione del capitale mobile.

Questa battaglia si combatte in tutti e due i campi; farlo è necessario per riguadagnare la forza di avere un mondo più umano.

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