Il libro di
Marta Fana è del 2017, ed è un duro ed informato atto di ricognizione ed accusa
delle condizioni nelle quali trenta e più anni di controriforme hanno condotto
il mondo del lavoro precipitando il mondo in occidente in una spirale
distruttiva ed autoalimentata di impoverimento prima di tutto umano. Alcuni fenomeni
emergono contemporaneamente per la buona ragione che sono tutti parte di un
nuovo modo di produzione e riproduzione che si afferma a partire dall’esito
della crisi terminale del modo di produzione che per semplicità chiameremo ‘keynesiano’:
un immane spostamento delle risorse dalla distribuzione via lavoro a quella via
rendite e profitti; la crescita della ineguaglianza e della concentrazione patrimoniale
in pochissime mani; la mutazione dei meccanismi di creazione di valore sempre
più dalla produzione materiale ai servizi, in particolare finanziari; la
frammentazione ed il coordinamento delle catene produttive lungo linee di
dispersione della prima e di concentrazione dei secondi, segmentati per valore
aggiunto; l’indebolimento, in corrispondenza alle trasformazioni sopra
indicate, della forza e della posizione del lavoro e dei lavoratori non
strategici.
Forniscono le gambe a tutto questo, costituendone
insieme un effetto ed una precondizione: una ‘piattaforma tecnologica’ fatta di
automazione flessibile; strutture di comunicazione contemporaneamente
ubiquitarie e monopolistiche; l’interconnessione centrata sui valori e gli interessi
di una ristretta èlite cosmopolita e delle sue aziende multinazionali.
Questa trasformazione va insieme ad una nuova visione
dell’uomo che si vede solo e costantemente sfidato, e che quindi rintraccia il
senso, unito ad un certo orgoglio, nel riuscire a prevalere con le proprie sole
forze e distinguersi. Questa antropologia è, in via definitoria, contraria alla
permanenza di una classe media e di ogni stabilità.
Marta Fana parte dalla tragica
lettera di un povero ragazzo suicida poco più di un anno fa, per formulare
il suo atto di accusa contro gli effetti di tutto questo. Gli effetti di una
risposta feroce che è stata messa a punto a forza di controriforme portate
avanti, dalla destra come dalla sinistra, per decenni a indebolire
costantemente il mondo del lavoro, renderlo flessibile e precario, apparentemente
allo scopo di combattere la disoccupazione, in realtà coltivandola.
Necessariamente, infatti, questo mondo si regge su una
costante e ben coltivata deflazione salariale e crescente disoccupazione
cosiddetta ‘strutturale’ (o ‘naturale’) che è la necessaria premessa per
concentrare il valore nei segmenti superiori della catena e in particolare
nelle mani di chi controlla i capitali.
L’inganno più atroce è che questa necessità di classe è
stata venduta per anni come una conquista di libertà, e spesso anche come espansione
dei diritti. Ma di una libertà e di diritti rigorosamente individuali e da
fruire da soli, mentre ogni autentica libertà presuppone non già l’assenza di impedimento, ma l’abilitazione nella costitutiva
connessione tra individuo e cornice normativa della società. Dunque nessuno è
libero da solo, crederlo è una forma estremamente grave di sociopatia di cui
soffre chi crede, normalmente a partire dai suoi privilegi erroneamente considerati
naturali, di essere al sicuro dalla necessità del sostegno e non riconosce che
questo gli viene in effetti solo dalla società nel suo complesso, che lo ha
concesso. Come avevano scritto in “Ripensare
i fondamenti: la libertà”, il vero scopo, per essere ‘liberi’, deve essere
di garantire che nella realtà sociale tutta, istituzioni incluse, sia possibile dispiegare delle socialità nelle quali
gli individui possano scegliere senza coazione e disponendo delle necessarie
risorse materiali. La libertà si deve dare, cioè, nella sfera dell’oggettività
o non essere. Questo era lo scopo del socialismo che abbiamo del tutto
dimenticato nel 1989: la libertà, insomma, è generata dalla cooperazione
sociale.
Averlo del tutto dimenticato, in primo luogo nel mondo
del lavoro e della produzione, ha portato a questa discesa agli inferi nella
quale i rapporti di forza, che sono la sostanza dei processi economici, sono
nascosti sotto una spessa coltre di inganni. In primo luogo, dunque, come
scrive Marta Fana bisogna ricostruire tutto l’immaginario del lavoro.
Ed a questo fine bisogna anche capire le manovre che
tendono a nascondere questi rapporti di forza, indicando nemici di comodo, come
il contrasto generazione, del tutto inconsistente (dove la direzione causale è rovesciata)
o l’immigrazione, notevolmente amplificato (dove lo sguardo è mal diretto). Bisogna
capire che il nemico dei lavoratori poveri e delle loro periferie non sono le
generazioni precedenti, che avrebbero accumulato il debito (quando a farlo,
casomai, sono stati i meccanismi messi in campo per danneggiare i lavoratori), né
i poveri che si affollano verso le poche risorse disponibili (quando sono invece
coloro i quali queste risorse rendono scarse).
Per mostrare la vera direzione della lotta Marta Fana
ricostruisce puntualmente l’evoluzione degli ultimi trenta anni, mostrando le
retoriche messe in campo (i “bamboccioni”, ad esempio) e il loro scopo, ma
anche i singoli meccanismi: il coworking (p.9), la chiamata a voucer introdotti
dalla riforma Biagi (p.16), il lavoro intermittente, consolidato dalla Fornero
(p.21), il Job Act (p.25).
E quindi le forme di fusione tra tecnologia
e debolezze normative che ricordano il lavoro senza diritti ottocentesco: le piattaforme
e la gig
economy che ricordano, con la logistica dell’ultimo metro sempre più
frenetica e pericolosa con l’algoritmo sulla piattaforma che registra ogni tuo
respiro, ogni momento di pausa, e definisce un rapporto di forza del tutto
impersonale capace di schiacciare completamente ogni singolo.
Ma anche la logistica, Amazon,
Dhl che si concentrano sempre più sulla digitalizzazione e la robotizzazione
nell’aspirare nei loro ‘spazi
digitali’ ogni frammento di valore catturabile. Tutto questo non deve
essere inteso come ‘modernità’ e sviluppo,
molto spesso si tratta solo di una vernice brillante su forme antiche: cottimi
e caporalati (p.46).
Né si tratta di tecnologia,
è più vero che la tecnologia segue e viene sviluppata in questa direzione
perché serve il totale controllo dei tempi per spostare i rapporti di potere di
fronte alla sfida che gli ultimi anni settanta, ovunque, avevano portato al
controllo capitalista, lo avevamo visto in “Le
lotte operaie alla Fiat negli anni settanta”, lo riguarderemo rileggendo il
libro di Bruno Trentin “Il sindacato dei
consigli”. Come scrive Marta Fana, “non si sta affermando che la
robotizzazione dei processi, la gestione e l’indirizzo politico del suo impatto
a livello sociale ed economico non siano un tema urgente bensì che la
svalutazione del lavoro precede questa trasformazione. Anzi in un certo senso
la frena dal momento che la mancata tensione indotta da un aumento del costo
del lavoro riduce l’incentivo delle imprese a investire in innovazioni tali da
risparmiare sul fattore lavoro” (p.55). Come controprova si potrà osservare l’effetto
più probabile degli investimenti rivolti a modernizzare ed efficientare le
industrie (ad esempio “industria
4.0”) negli effetti che produrrà almeno nel medio termine sull’occupazione.
I ‘sacrifici’ che da Lama
alla Fornero, sono stati imposti ad unica direzione sono, insomma, andati a
danno del sistema produttivo, che infatti è in costante degrado.
Ma lo sfruttamento e la precarietà non sono una
caratteristica solo del mondo delle imprese private, l’egemonia neoliberale e i
vincoli indotti sulla finanza pubblica hanno portato anche il settore pubblico
ad ampliare forme di sfruttamento e precarizzazione massive. Esternalizzando i
servizi, spesso con catene di subappalti in cui non di rado si arriva ad
erogare poche ore per lavoratore (spesso del tutto fittizie, in quanto la
prestazione va comunque garantita) per compensi totali qualificabili come
miseri sussidi (l’autore cita i servizi di pulizia in cui spesso si aggirano
ormai, nella catena dei subappalti, nell’ordine di 300,00 €/mese, p.62). Ma anche
generalizzando il metodo dei voucher o promuovendo forme di “lavoro gratuito”
(p.73), anche molto precoce attraverso la cosiddetta ‘alternanza scuola-lavoro’.
Si arriva all’assurdo di dichiarare di combattere la disoccupazione
lavorando gratis.
Allargando lo sguardo si tratta di riconoscere il
degrado del nostro sistema di istruzione e la relazione tra produttività e
sistema generale di innovazione ed efficienza del paese (non già del singolo
lavoratore e tanto meno funzione del suo costo per ora lavorata). È la
crescita, alla fine, a trainare la produttività, e non viceversa (p.140). Si tratta
di queste dimensioni che stanno rendendo il nostro paese tragicamente
subalterno; una coltivazione dei ‘camerieri d’Europa’ (p.117).
In conclusione Marta Fana ci propone una semplice
constatazione: è il potere sociale che
determina gli assetti economici e anche l’applicazione tecnologica. Invece di
“abituarsi
alla povertà”, come ebbe a dire il responsabile economico del PD renziano,
Taddei, bisogna abolire il lavoro povero per riconquistare la ricchezza.
Bisogna “ribaltare i rapporti di forza e sottrarre al
dominio dell’impresa le scelte strategiche su cosa, come e quanto produrre, e
di conseguenza anche quanto lavoro domandare e occupare”. Con questo programma
direttamente ripreso dalle bandiere cadute a terra negli anni settanta Fana sottolinea
che le relazioni con le quali abbiamo aperto sono strettamente connesse e
necessarie: la frammentazione del lavoro
segue la frammentazione dei processi produttivi. Per internalizzare il
lavoro e renderlo di nuovo forte bisogna, con opportune politiche industriali,
ridurre questa frammentazione, riorientare
la tecnologia, ridurre
gli orari e creare lavoro non
orientato al mercato.
In
particolare, la decisione di ridurre l’orario medio, pur scaturendo anche da
valutazioni di tendenza, deve essere politica. Deve imporre un
calendario ex ante, ovvero deve essere lo scopo che la società si
dà, ed alla quale il sistema si deve adeguare nel tempo definito. In effetti tutte
le forme di regolazione (ad esempio ambientali, sociali, di sicurezza, etc.),
che articolano le nostre libertà, sono state introdotte così.
Uno
degli effetti, su cui André Gorz rifletteva, è che nella microgestione
necessaria di questo nuovo pacchetto di ‘diritti sociali’ che si possono godere
solo insieme (al tempo liberato flessibile), si svilupperebbe anche quella
attenzione sociale, quelle azioni collettive (ad esempio sindacali), ed
iniziative popolari che si metterebbe in continuità con la tradizione
mobilitazione per le ferie pagate, i permessi, i congedi di maternità,
l’erogazione di servizi, la formazione, che vivificherebbero le capacità di
riflessione, autoorganizzazione a livello delle imprese, la capacità di
proposta e di creatività.
Porrebbe,
in sostanza il grande tema, lasciato cadere, dell’organizzazione del tempo e
della produzione entro i luoghi di lavoro produttivi. Come abbiamo già detto, il tema del potere, che
è necessariamente connesso con quello del lavoro e della sua dignità.
È un vasto e lungo programma, ma è del tutto
necessario.
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