Il libro
di Branko Milanovic (questo il suo interessante blog) è stato a tutta evidenza chiuso nel 2016, tra lo shock
della Brexit e l’avvio delle primarie americane, di cui segnala i candidati ‘anomali’
(in primis Trump e Sanders) ma non ne intuisce l’esito. Si tratta di un testo
molto interessante, come tutti quelli dell’economista, ex Banca Mondiale, che è
probabilmente il più importante esperto di ineguaglianza internazionale (come Atkinson
lo era di quella occidentale). L’autore di “Mondi divisi”,
del 2005, e di “Chi ha e chi non ha”,
del 2011, continua anche qui il suo dialogo a distanza con Kuznets, cercando
ancora di spiegare il mistero (per la teoria neoclassica e la modellazione del grande
economista degli anni cinquanta) del crescere dell’ineguaglianza in tutto
l’occidente. Milanovic propone una soluzione semplice ed elegante:
l’ineguaglianza è determinata da un difficile equilibrio di forze contrapposte sulla
base di una sorta di modello malthusiano, e quindi oscilla tra un minimo ed un
massimo. Sale quando alcune di queste prevalgono fino a che arriva a livelli
talmente insostenibili da invertirsi e calare, o viceversa. Sono quelle che
chiama “le onde di Kuznets” (ma varrebbe
meglio chiamarle “onde di Milanovic”), diagnosticando in effetti l’essere il
mondo sul culmine di una di queste. Milanovic descrive alcune “onde” nella
lunga fase precapitalista, nella quale la disuguaglianza sale e scende in
economie stagnanti per effetto di quelle che sembrano cause esterne, e ne
descrive ancora due a seguito della rivoluzione industriale (alla quale fa
coincidere la fase capitalista): la prima ha una fase ascendente (della
ineguaglianza) che ha il suo vertice intorno agli anni trenta (più o meno 50
punti Gini) e poi cala fino alla seconda guerra mondiale e gli anni
sessanta-settanta, quando raggiunge i 35 punti Gini. La seconda ci vede ancora
dentro di essa, ed è stata in fase ascendente dal 1975 ad oggi.
Uno dei costrutti analitici del testo è il concetto di
“frontiera della disuguaglianza possibile”,
che è in sostanza l’area definita dalla quantità di risorse che il modo di
produzione mette a disposizione per la distribuzione sociale. Se questa è molto
vicina al limite di sussistenza (le risorse divisa la popolazione danno una
distribuzione media coincidente con la sussistenza) non c’è molto spazio teorico
per la disuguaglianza, la società sarà povera ed egualitaria, se, invece, la
“frontiera” si allontana dalla sussistenza cresce anche lo spazio per la
disuguaglianza. Il suo punto è molto semplice: se nella prima società ci fosse
ineguaglianza i depauperati cadrebbero sotto la soglia di sopravvivenza e
dunque ci sarebbe un riequilibrio malthusiano (carestie, guerre, pestilenze).
La rivoluzione industriale, quindi, determina
l’allargamento progressivo della frontiera della disuguaglianza possibile ed
innalza così la disuguaglianza registrata. Questo movimento che determina le
“onde di Kuznets”, è “modellato da questa interazione tra le forze economiche
apparentemente determinanti e le forze sociali e politiche dall’altra” (p.76).
La disuguaglianza, muovendosi in questo modo, è
determinata da tre forze concorrenti: technology,
openess, politics (“T.O.P.”). Ovvero dalla piattaforma tecnologica della
società, dal grado di apertura della economia e dalle politiche, ed è “quasi
per definizione, un esito di lotte sociali e politiche, anche violente” (p.88).
La diseguaglianza è però per Milanovic comunque un
male che pone sotto stress insopportabile la società quando arriva a livelli
tali da rendere inutile per troppi lottare per porvi rimedio (siamo oggi intorno
ai 70 punti nella scala di Gini)
e da concentrare inoltre il potere politico di influenza troppo vicino a chi
detiene anche il potere economico (quel che chiama “plutocrazia”).
Una delle caratteristiche più scandalose di Milanovic
è che non nasconde affatto che sia la
globalizzazione ad essere il motore di questa crescita della disuguaglianza.
O meglio, che questa sia uno dei fattori necessari, come lo è stato nella prima
fase ascendente (prima “onda”, dalla seconda metà degli anni settanta
dell’ottocento agli anni trenta del novecento). E non nasconde affatto che
questa determini vincitori e perdenti. O, come dirà al termine, che “i guadagni
della globalizzazione non saranno distribuiti equamente” (p.220).
Si tratta, proprio al termine, di una frase semplice e
drastica: in risposta alla domanda se il proseguire del processo di
globalizzazione determinerà alla fine la scomparsa della disuguaglianza. Ma una
frase, che Milanovic in modo molto significativo non commenta; presentandola
come un semplice fatto, in nessun caso la disuguaglianza sarà ridotta dalla
globalizzazione, come vedremo in seguito sarà solo ridefinita.
Questo è lo snodo
dell’intero libro, la costatazione
dalla quale poteva probabilmente partire un altro testo, che, invece, resta
inespresso; un libro dentro il libro. Perché la scelta del liberal Milanovic è
che allentare la globalizzazione è impensabile.
La profonda contraddizione alla quale le duecento
pagine del testo cercano di sfuggire, a mio parere tragicamente senza riuscire
(perché è impossibile) è che questo impensabile però resta necessario, e
proprio nei termini messi in luce nel testo: perché altrimenti la seconda
“onda” non si determinerà. Per piegare è necessario che la Politica faccia
ripiegare l’Apertura e la Tecnologia si adatti. In altre parole l’ineguaglianza
a settanta punti Gini è oggettivamente insostenibile e provocherà il mutamento
delle ‘politiche’, ma anche della ‘apertura’, e probabilmente sul medio termine
anche quella della ‘piattaforma tecnologica’ (ci sono indizi nei contrasti che
crescono verso Amazon, verso Facebook, verso le disruptive technologies). La
progressiva distruzione della classe media inferiore occidentale non potrà
restare senza vendetta (anche se questa per ora prende in prevalenza la faccia
di Trump, che reca in sé le contraddizioni di un compromesso impossibile tra
diverse plutocrazie ed una spinta dal basso colonizzata e deviata), proprio nei
termini dell’analisi dell’economista serbo-americano.
Nel testo Milanovic pronostica altri ‘decenni’ di stagnazione dei redditi
mentre lentamente migrazioni e innalzamento dei redditi medi delle ex periferie
(in primis Cina e India, ma anche le altre) si arrampicano verso i redditi medi
occidentali (essendo ora arrivati alle periferie dell’occidente). E pronostica,
proiettando uno sguardo ardito, un futuro remoto addirittura sul prossimo secolo
nel quale si tornerà ad avere la situazione del settecento; quando era più
rilevante ‘da chi’ si nasceva che non
‘dove’. Ovvero nella quale era
maggiore la distanza tra un nobile francese ed un suo concittadino nelle
campagne che non tra questi ed un nobile cinese (o tra un contadino francese ed
uno cinese). Una situazione nella quale, insomma, l’ineguaglianza mondiale
(questo costrutto analitico alquanto problematico, ma fondativo dell’approccio
numerico e economicista di Milanovic, che è pur sempre un ex capo del
dipartimento di ricerca della Banca Mondiale) sarà alla fine annullata, mentre
quella locale sarà massima. Naturalmente in un simile mondo la democrazia non
potrà avere uno spazio (è alla fine lo scenario della “plutocrazia”) e anche la
pluralità politica sarà ardua. Dovrà essere una sorta di impero nel quale il
‘premio di cittadinanza’ che ora ha enorme valore (nel testo è spiegato che
nascere in India o in Olanda comporta destini economici enormemente divergenti
non tanto per effetto della qualità e produttività individuale, astrattamente
intesa, quanto per effetto del sistema generale nel quale si è inseriti)
scomparirebbe in favore di un “premio di dotazione”.
Per non avere la plutocrazia, conservando la
globalizzazione (ovvero la mobilità di merci e capitali, oltre che di uomini,
che mettono in competizione i fattori deboli, ed in primis natura e lavoro,
rispetto al fattore forte che è il capitale mobile), sarà proposta una
soluzione, che assomiglia molto a quella di Piketty e ne ha anche i difetti.
Il ‘grande
schiacciamento’ che è in corso, per effetto di queste due forze
equalizzanti è la causa delle due dinamiche politiche che si combattono sulla
scena: la neutralizzazione della democrazia attraverso la sua trasformazione in
plutocrazia, che vede come tendenza
dominante in USA (nel 2016, quando tutti davano per scontata la vittoria della
Clinton); l’insorgere di un populismo
nativista in Europa (quando si era data la Brexit e incombeva l’ombra della
Le Pen). Si tratta di due reazioni che operano sulla terza dimensione dei
fattori determinanti le “onde”, le politics, reagendo alla stessa insostenibile
dimensione dell’ineguaglianza determinata sia dal primo, la technology sia e
soprattutto dal secondo, l’openess. Come dice:
-
“la plutocrazia
cerca di mantenere la globalizzazione sacrificando elementi fondanti la
democrazia” (un ottimo esempio, all’epoca non disponibile, è nel modo in cui la
struttura del Partito Democratico ha trattato Sanders nella fase finale delle
primarie);
-
mentre “il
populismo cerca di preservare il simulacro di democrazia riducendo però
l’esposizione alla globalizzazione” (p.195).
Dal punto di vista di Milanovic sono chiaramente due
mali (sul primo nel 2014, ad esempio, pronosticò
il caos in assenza di energiche politiche redistributive per effetto delle “due
P”), ma l’economista serbo crede in fondo che la meccanica della distruzione
del ‘reddito di cittadinanza’ e il conseguente schiacciamento delle classi
medie inferiori (quelle che hanno redditi intorni al 10.000,00 €/anno) sia
irresistibile e che l’alternativa sia peggiore.
Nel ‘primo libro’
Milanovic inclina quindi a considerarla alla fine non solo inevitabile, ma
necessaria e quindi in ultima analisi positiva (in quanto eticamente
difendibile sula base di una letteratura liberale che cita probabilmente senza
padroneggiarla fino in fondo).
Nel ‘secondo
libro’ (che è nascosto), mostra invece che questa soluzione non è
possibile.
Le soluzioni che allora propone, per ammortizzare
“diversi decenni” (p.16) di assenza di crescita per le classi medie
occidentali, mentre il più ricco 1% (o meno) si prende tutti i benefici, sono
di riuscire a distribuire i capitali, invece che i redditi (ipotesi Piketty in
“Il
capitale del XXI secolo”), e al contempo di accelerare la migrazione, anche
se al prezzo di un difficile compromesso.
Ma questa imposta sul capitale (una proposta che certo
fa parte di ogni cassetta degli attrezzi, inclusa quella di Atkinson, il quale
però spinge
ad intervenire sulle cause dello squilibrio di potere) presuppone di risolvere
l’equazione della sovranità economica che lo schema T.O.P. degli anni ottanta
ha messo in questione. Dunque presume di entrate in un altro schema T.O.P. che
è difficile, anzi contraddittorio, senza operare sulla componente Openess.
Secondo la stessa analisi di Milanovic, infatti, è “la rivoluzione delle
comunicazioni che consente alle aziende il trasferimento di loro fabbriche in
paesi distanti [e quindi prima dei capitali] dove poter sfruttare manodopera a
basso costo senza rinunciare al controllo” (p.19). Questa semplice ‘doppia
coincidenza’ determina una crescita che si distribuisce circa per un quinto sul
primo 1% (che guida il movimento dei capitali dalle “città
globali”, come tempestivamente segnala la Sassen), per un altro quinto sul
seguente 4% (redditi intorno ai 70.000 dollari annui) e per il 10-12% solo
sulle tanto sbandierate ‘classi medie emergenti’ (che alla fine hanno un
reddito inferiore ai 5.000 dollari PPA annuali). Le classi medie inferiori del
mondo ricco (redditi intorno ai 10.000 dollari annui) non hanno avuto vantaggi,
ed in alcuni casi (Giappone) sono anche calati.
Nell’analisi di Milanovic questa ineguaglianza, creata
da un insieme di tecnologie, apertura (ovvero mobilità e concorrenza) e
politiche (deregolatorie), può essere invertita da alcune dinamiche ‘benigne’
(come l’aumento relativo della manodopera istruita, dalla richiesta di
ridistribuzione che trova la via politica per farsi sentire, e dal rendimento
in calo dei capitali, per effetto della saturazione) ma anche da alcune
dinamiche ‘maligne’ (che sintetizza in “guerre e rivoluzioni”). Quale prevarrà
dipenderà dalle circostanze storiche, come è avvenuto in passato.
Prima della industrializzazione, ad esempio, in Spagna
si sono date tre fasi di inversione dell’”onda”: il 1350, a seguito della
peste; il 1570, a seguito delle guerre; il 1800, a seguito delle guerre
napoleoniche. In tutti i casi si può stilizzare la dinamica citando
l’improvviso scarseggiare della manodopera, che sposta i rapporti di forza con
il capitale, la distruzione del secondo, per effetto dei danni di guerra, e la
tassazione dei ricchi resa necessaria da circostanze di forza maggiore.
Quindi il motore, sia nella fase preindustriale sia nella
successiva, è stato sempre la sostituzione tra lavoratori e capitale ed il
trasferimento dei primi da un settore all’altro (nel primo schema T.O.P. tra
ottocento e novecento è stato lo spostamento dall’agricoltura, investita dalla
prima rivoluzione verde, e l’industria, mentre nel secondo, tra gli anni
ottanta ed oggi è stato lo spostamento da industria a servizi). Milanovic cita
“la
nuova rivoluzione delle macchine”, la fortunata formula di Erik
Brynjolfsson e Andrew McAfee, nel ricordare catene causali che vanno dal prezzo
più basso dei beni capitali, al progresso tecnologico orientato da questi, alla
sostituzione del lavoro umano (relativamente più caro) in particolare nei
deboli lavori di routine. Queste catene sono attivate specificamente nel T.O.P.
della fine novecento facendo leva sulla Openess, strettamente avviluppata con
la Technology (p.109).
Qui uno degli snodi teorici, perché per Milanovic,
come per Atkinson, il progresso tecnologico è da considerarsi endogeno alla
T.O.P. dominante, in quanto è orientato dalla redditività (ovvero dalla logica
capitalista) a sostituire i fattori costosi.
Ma ad un certo punto (qui sembra ripreso lo schema di Arrighi)
l’ineguaglianza provoca una stagnazione della domanda interna che determina
tensioni non più sostenibili, a questo punto la ‘sovraccumulazione’ in cerca
sempre più parossistica di rendimenti esaspera la competizione imperialista
(dove le conseguenti spese pubbliche sono di per sé una forma di impiego).
Questa, con le “guerre e rivoluzioni” che porta con sé è quindi da considerare
“integrata nelle condizioni economiche interne dell’epoca: una disuguaglianza
di reddito e di ricchezza molto elevata, nutrita dai risparmi delle classi più
alte, un’insufficiente domanda aggregata interna ai paesi, e la necessità da
parte dei capitalisti di trovare usi redditizi fuori al loro paese per
l’eccedenza di risparmi” (p.95). Nel contesto del primo T.O.P. questa esigenze
doveva tradursi nel controllo fisico di altri luoghi, come misero in evidenza
John Hobson (1902), Rosa Luxemburg (1913) e Vladimir Lenin (1916). Quindi, come
scrive Hobson, “non è il progresso industriale che richiede l’apertura di nuovi
mercati e di nuove aree di investimento, ma la cattiva distribuzione della
capacità di consumo che impedisce l’assorbimento di merci e capitali
all’interno del paese” (H. p.76).
Insomma, la questione è semplice, “la disuguaglianza è
il motore della guerra”.
È questa che mette in modo le forze distruttive che
alla fine ne avviano la decrescita. Ed oggi, come dice, “siamo in condizioni
simili” (p. 99).
Come si esce da questa condizione strutturale?
Milanovic cita un autore come Pritchett, che insegna
ad Harward e ha lavorato alla Banca Mondiale e che è un forte propagandista,
per ragioni morali fondate su un universalismo utilitarista di marca puramente
liberale, dell’espansione delle migrazioni come via per lo sviluppo e Hanson che parte dalla
considerazione della libertà di movimento come diritto umano fondamentale per
inquadrare la ragione economica, internamente fondata di nuovo su un’etica
utilitaria, di garantire gli spostamenti in quanto produttori di più ricchezza
aggregata. In particolare richiama l’argomento che invece di aumentare “i
salari degli individui in patria” (cioè migliorare l’equità interna) è più
efficace in termini aggregati spostare le persone, in modo che transitando da
un paese nel quale la composizione organica del capitale è inferiore ad uno in
cui è superiore aumentino la produttività (secondo Hanson di un fattore
quattro). In questo passaggio, cruciale, viene pienamente messo in luce il
conflitto distributivo politico tra le classi, in un modello semplificato a tre
classi, infatti, si avrebbe i seguenti equilibri possibili:
·
Le rispettive
classi alte distribuiscono i redditi con le rispettive classi medie sia nei
paesi sviluppati sia nei paesi periferici, ottenendo una maggiore eguaglianza
nazionale ma una permanente disuguaglianza tra nazioni. È necessario per
ottenere ciò che l’ineguaglianza interna non ottenga valvole di sfogo utili al
governo dei processi dalla dinamica emigrazione/immigrazione.
·
La classe alta occidentale
distribuisce i redditi con la classe media emergente in posizione subalterna, perché
costretta a emigrare o lavorare in subfornitura, e lascia indietro quella
nazionale locale, ottenendo alla fine di un lungo percorso una maggiore
eguaglianza tra nazioni ma una più pronunciata disuguaglianza entro queste.
Il punto di vista difeso dagli autori citati (contro
la posizione contrattualista avanzata da John Rawls in “Il diritto dei popoli”) prevede che il
sacrificio delle classi medie inferiori occidentali sarebbe più che compensato,
in una contabilità edonica implicita, dal vantaggio delle classi medie
emergenti che migrerebbero a servizio delle classi alte occidentali.
Minimizzando la redistribuzione, in sostanza, si avrebbe il maggiore saldo di
felicità (calcolato nella metrica del denaro erogato). Viene citato uno studio
della Banca Mondiale del 2006, ovvero precedente allo shock epistemologico del
2008, quando il Washington Consensus di cui la BM è stata tra i principali
propagandisti, si infrange sulla crisi finanziaria, nel quale si afferma essere
“documentato che una crescita dell’emigrazione contribuisce all’aumento del Pil
globale e dei redditi dei migranti” (p.143). In effetti una tesi sempre più
controversa e che uno studioso così attento delle ineguaglianze dovrebbe usare
con circospezione (se anche fosse vera contribuisce anche ad accumulare tutti i
benefici in poche mani).
La proposta arriva, ed esplicitamente, a considerare
il minore danno di ridurre i diritti dei migranti per rendere accettabile alle
classi danneggiate lo scambio. Cioè prevede la “soppressione di alcuni diritti
civili” dei migranti (p.144). Ovvero di permettere un maggiore livello di
migrazioni creando cittadini di serie A e B nel contesto di “un mondo di
migrazioni più ordinato e di quote, sia a livello di paesi di origine sia di
arrivo” (p.201).
Ma se questo avvenisse ci vorrebbero comunque decenni
per spostare significativamente gli equilibri dell’ineguaglianza mondiale,
dunque si arriva alla tesi della stagnazione dei cittadini di serie A quanto a
diritti, ma sfidati dai cittadini di serie B che, proprio per questo, sarebbero
interessati a lavorare per meno (a vantaggio loro, che prima guadagnavano
ancora meno e dei datori di lavoro che risparmiano).
Questa semplice logica è preferibile secondo Milanovic
all’alternativa, che è ovviamente la restrizione della globalizzazione, ovvero
la chiusura della Openess. Questa è, infatti, iniqua, come dirà da ultimo alla
fine del discorso, ma garantisce un maggiore reddito complessivo (al prezzo di
concentrarlo praticamente tutto nelle élite favorite) e si fonda sulla
divisione del lavoro (argomento di marca ricardiana). Ormai neppure questa
tesi, che è costruita tutta su letteratura datata o su affermazioni non
argomentate, appare vera: la ineguaglianza danneggia la crescita complessiva,
non solo quella dei paesi ricchi.
Dani Rodrik, ad esempio, nel paper
del gennaio 2017, di cui abbiamo parlato qui
afferma essere aumentata l’ineguaglianza sia nei paesi occidentali sia nei
paesi periferici (secondo il modello di Milanovic è aumentata la “frontiera
della disuguaglianza”) colpendo i lavoratori addetti alla produzione nelle
economie sviluppate come direbbe la teoria standard del commercio (ma senza le
ipocrite compensazioni che vi sono previste a parole). Si moltiplicano le
dimostrazioni, post 2006, che la cosa non è andata a vantaggio e non è stata riassorbita,
come prevedevano le ottimiste teorie di Pritchett citate da Milanovic. Lo
studioso di Harward introduce in questo contributo una idea che può somigliare:
introdurre lavoratori temporanei, per un massimo di cinque anni, con permessi
di lavoro coperti da tutte le relative garanzie, identiche a quelle degli
autoctoni, ma senza gli altri diritti di cittadinanza (sono in fondo cittadini
stranieri in permesso temporaneo) ed accantonando in un fondo di garanzia obbligatorio
una parte del salario a rilascio differito e condizionato al ritorno in patria.
Ma questa misura sostituisce l’openess, non lo integra. Ovvero sostituisce l’apertura
dei commerci e l’outsorcing delle imprese nei paesi di provenienza degli
immigrati. Si tratta di chiudere la “porta sul retro” che mina, con forme
diffuse di concorrenza sleale sulle norme sul lavoro, ambientali e distorce i
mercati.
Invece per Milanovic, che non vede arrivare alla fine
i modelli export-oriented (di cui in Europa abbiamo ottimi esempi)
se la globalizzazione si fermasse “ci sarebbe un significativo ribaltamento del
modello di crescita che ha caratterizzato gli ultimi trentacinque anni”
(p.159), non è detto che sia in sé un male per l'autore ma Milanovic nel 2016 ci crede poco, vedendo “inattaccabile l’egemonia
del capitalismo”. La tempesta perfetta del 2016 non si era ancora manifestata
in pieno (anche se in un passaggio a pag. 169 la evoca).
Il ‘primo libro’
termina qui, con la lettura illuminista e disciplinare (ovvero costruita da
dentro la disciplina economica) del “mondo nella sua interezza”, che prescinde
dagli Stati-Nazione realmente esistenti (con le loro culture, volontà,
interessi ed eserciti), in grado, come dice, di far “comparire i problemi sotto una luce più rivelatrice” (p.220). Per vederne i limiti potrebbe essere utile una passeggiata nel giardino eterogeneo di Pierluigi Fagan in questo post.
Il “secondo
libro” andrebbe scritto.
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