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giovedì 5 aprile 2018

Branko Milanovic, “Ingiustizia globale”



Il libro di Branko Milanovic (questo il suo interessante blog) è stato a tutta evidenza chiuso nel 2016, tra lo shock della Brexit e l’avvio delle primarie americane, di cui segnala i candidati ‘anomali’ (in primis Trump e Sanders) ma non ne intuisce l’esito. Si tratta di un testo molto interessante, come tutti quelli dell’economista, ex Banca Mondiale, che è probabilmente il più importante esperto di ineguaglianza internazionale (come Atkinson lo era di quella occidentale). L’autore di “Mondi divisi”, del 2005, e di “Chi ha e chi non ha”, del 2011, continua anche qui il suo dialogo a distanza con Kuznets, cercando ancora di spiegare il mistero (per la teoria neoclassica e la modellazione del grande economista degli anni cinquanta) del crescere dell’ineguaglianza in tutto l’occidente. Milanovic propone una soluzione semplice ed elegante: l’ineguaglianza è determinata da un difficile equilibrio di forze contrapposte sulla base di una sorta di modello malthusiano, e quindi oscilla tra un minimo ed un massimo. Sale quando alcune di queste prevalgono fino a che arriva a livelli talmente insostenibili da invertirsi e calare, o viceversa. Sono quelle che chiama “le onde di Kuznets” (ma varrebbe meglio chiamarle “onde di Milanovic”), diagnosticando in effetti l’essere il mondo sul culmine di una di queste. Milanovic descrive alcune “onde” nella lunga fase precapitalista, nella quale la disuguaglianza sale e scende in economie stagnanti per effetto di quelle che sembrano cause esterne, e ne descrive ancora due a seguito della rivoluzione industriale (alla quale fa coincidere la fase capitalista): la prima ha una fase ascendente (della ineguaglianza) che ha il suo vertice intorno agli anni trenta (più o meno 50 punti Gini) e poi cala fino alla seconda guerra mondiale e gli anni sessanta-settanta, quando raggiunge i 35 punti Gini. La seconda ci vede ancora dentro di essa, ed è stata in fase ascendente dal 1975 ad oggi.

Uno dei costrutti analitici del testo è il concetto di “frontiera della disuguaglianza possibile”, che è in sostanza l’area definita dalla quantità di risorse che il modo di produzione mette a disposizione per la distribuzione sociale. Se questa è molto vicina al limite di sussistenza (le risorse divisa la popolazione danno una distribuzione media coincidente con la sussistenza) non c’è molto spazio teorico per la disuguaglianza, la società sarà povera ed egualitaria, se, invece, la “frontiera” si allontana dalla sussistenza cresce anche lo spazio per la disuguaglianza. Il suo punto è molto semplice: se nella prima società ci fosse ineguaglianza i depauperati cadrebbero sotto la soglia di sopravvivenza e dunque ci sarebbe un riequilibrio malthusiano (carestie, guerre, pestilenze).
La rivoluzione industriale, quindi, determina l’allargamento progressivo della frontiera della disuguaglianza possibile ed innalza così la disuguaglianza registrata. Questo movimento che determina le “onde di Kuznets”, è “modellato da questa interazione tra le forze economiche apparentemente determinanti e le forze sociali e politiche dall’altra” (p.76).
La disuguaglianza, muovendosi in questo modo, è determinata da tre forze concorrenti: technology, openess, politics (“T.O.P.”). Ovvero dalla piattaforma tecnologica della società, dal grado di apertura della economia e dalle politiche, ed è “quasi per definizione, un esito di lotte sociali e politiche, anche violente” (p.88).

La diseguaglianza è però per Milanovic comunque un male che pone sotto stress insopportabile la società quando arriva a livelli tali da rendere inutile per troppi lottare per porvi rimedio (siamo oggi intorno ai 70 punti nella scala di Gini) e da concentrare inoltre il potere politico di influenza troppo vicino a chi detiene anche il potere economico (quel che chiama “plutocrazia”).



Una delle caratteristiche più scandalose di Milanovic è che non nasconde affatto che sia la globalizzazione ad essere il motore di questa crescita della disuguaglianza. O meglio, che questa sia uno dei fattori necessari, come lo è stato nella prima fase ascendente (prima “onda”, dalla seconda metà degli anni settanta dell’ottocento agli anni trenta del novecento). E non nasconde affatto che questa determini vincitori e perdenti. O, come dirà al termine, che “i guadagni della globalizzazione non saranno distribuiti equamente” (p.220).
Si tratta, proprio al termine, di una frase semplice e drastica: in risposta alla domanda se il proseguire del processo di globalizzazione determinerà alla fine la scomparsa della disuguaglianza. Ma una frase, che Milanovic in modo molto significativo non commenta; presentandola come un semplice fatto, in nessun caso la disuguaglianza sarà ridotta dalla globalizzazione, come vedremo in seguito sarà solo ridefinita.



Questo è lo snodo dell’intero libro, la costatazione dalla quale poteva probabilmente partire un altro testo, che, invece, resta inespresso; un libro dentro il libro. Perché la scelta del liberal Milanovic è che allentare la globalizzazione è impensabile.


La profonda contraddizione alla quale le duecento pagine del testo cercano di sfuggire, a mio parere tragicamente senza riuscire (perché è impossibile) è che questo impensabile però resta necessario, e proprio nei termini messi in luce nel testo: perché altrimenti la seconda “onda” non si determinerà. Per piegare è necessario che la Politica faccia ripiegare l’Apertura e la Tecnologia si adatti. In altre parole l’ineguaglianza a settanta punti Gini è oggettivamente insostenibile e provocherà il mutamento delle ‘politiche’, ma anche della ‘apertura’, e probabilmente sul medio termine anche quella della ‘piattaforma tecnologica’ (ci sono indizi nei contrasti che crescono verso Amazon, verso Facebook, verso le disruptive technologies). La progressiva distruzione della classe media inferiore occidentale non potrà restare senza vendetta (anche se questa per ora prende in prevalenza la faccia di Trump, che reca in sé le contraddizioni di un compromesso impossibile tra diverse plutocrazie ed una spinta dal basso colonizzata e deviata), proprio nei termini dell’analisi dell’economista serbo-americano.

Nel testo Milanovic pronostica altri ‘decenni’ di stagnazione dei redditi mentre lentamente migrazioni e innalzamento dei redditi medi delle ex periferie (in primis Cina e India, ma anche le altre) si arrampicano verso i redditi medi occidentali (essendo ora arrivati alle periferie dell’occidente). E pronostica, proiettando uno sguardo ardito, un futuro remoto addirittura sul prossimo secolo nel quale si tornerà ad avere la situazione del settecento; quando era più rilevante ‘da chi’ si nasceva che non ‘dove’. Ovvero nella quale era maggiore la distanza tra un nobile francese ed un suo concittadino nelle campagne che non tra questi ed un nobile cinese (o tra un contadino francese ed uno cinese). Una situazione nella quale, insomma, l’ineguaglianza mondiale (questo costrutto analitico alquanto problematico, ma fondativo dell’approccio numerico e economicista di Milanovic, che è pur sempre un ex capo del dipartimento di ricerca della Banca Mondiale) sarà alla fine annullata, mentre quella locale sarà massima. Naturalmente in un simile mondo la democrazia non potrà avere uno spazio (è alla fine lo scenario della “plutocrazia”) e anche la pluralità politica sarà ardua. Dovrà essere una sorta di impero nel quale il ‘premio di cittadinanza’ che ora ha enorme valore (nel testo è spiegato che nascere in India o in Olanda comporta destini economici enormemente divergenti non tanto per effetto della qualità e produttività individuale, astrattamente intesa, quanto per effetto del sistema generale nel quale si è inseriti) scomparirebbe in favore di un “premio di dotazione”.
Per non avere la plutocrazia, conservando la globalizzazione (ovvero la mobilità di merci e capitali, oltre che di uomini, che mettono in competizione i fattori deboli, ed in primis natura e lavoro, rispetto al fattore forte che è il capitale mobile), sarà proposta una soluzione, che assomiglia molto a quella di Piketty e ne ha anche i difetti.



Il ‘grande schiacciamento’ che è in corso, per effetto di queste due forze equalizzanti è la causa delle due dinamiche politiche che si combattono sulla scena: la neutralizzazione della democrazia attraverso la sua trasformazione in plutocrazia, che vede come tendenza dominante in USA (nel 2016, quando tutti davano per scontata la vittoria della Clinton); l’insorgere di un populismo nativista in Europa (quando si era data la Brexit e incombeva l’ombra della Le Pen). Si tratta di due reazioni che operano sulla terza dimensione dei fattori determinanti le “onde”, le politics, reagendo alla stessa insostenibile dimensione dell’ineguaglianza determinata sia dal primo, la technology sia e soprattutto dal secondo, l’openess. Come dice:
-        “la plutocrazia cerca di mantenere la globalizzazione sacrificando elementi fondanti la democrazia” (un ottimo esempio, all’epoca non disponibile, è nel modo in cui la struttura del Partito Democratico ha trattato Sanders nella fase finale delle primarie);
-        mentre “il populismo cerca di preservare il simulacro di democrazia riducendo però l’esposizione alla globalizzazione” (p.195).

Dal punto di vista di Milanovic sono chiaramente due mali (sul primo nel 2014, ad esempio, pronosticò il caos in assenza di energiche politiche redistributive per effetto delle “due P”), ma l’economista serbo crede in fondo che la meccanica della distruzione del ‘reddito di cittadinanza’ e il conseguente schiacciamento delle classi medie inferiori (quelle che hanno redditi intorni al 10.000,00 €/anno) sia irresistibile e che l’alternativa sia peggiore.

Nel ‘primo libro’ Milanovic inclina quindi a considerarla alla fine non solo inevitabile, ma necessaria e quindi in ultima analisi positiva (in quanto eticamente difendibile sula base di una letteratura liberale che cita probabilmente senza padroneggiarla fino in fondo).

Nel ‘secondo libro’ (che è nascosto), mostra invece che questa soluzione non è possibile.

Le soluzioni che allora propone, per ammortizzare “diversi decenni” (p.16) di assenza di crescita per le classi medie occidentali, mentre il più ricco 1% (o meno) si prende tutti i benefici, sono di riuscire a distribuire i capitali, invece che i redditi (ipotesi Piketty in “Il capitale del XXI secolo”), e al contempo di accelerare la migrazione, anche se al prezzo di un difficile compromesso.
Ma questa imposta sul capitale (una proposta che certo fa parte di ogni cassetta degli attrezzi, inclusa quella di Atkinson, il quale però spinge ad intervenire sulle cause dello squilibrio di potere) presuppone di risolvere l’equazione della sovranità economica che lo schema T.O.P. degli anni ottanta ha messo in questione. Dunque presume di entrate in un altro schema T.O.P. che è difficile, anzi contraddittorio, senza operare sulla componente Openess. Secondo la stessa analisi di Milanovic, infatti, è “la rivoluzione delle comunicazioni che consente alle aziende il trasferimento di loro fabbriche in paesi distanti [e quindi prima dei capitali] dove poter sfruttare manodopera a basso costo senza rinunciare al controllo” (p.19). Questa semplice ‘doppia coincidenza’ determina una crescita che si distribuisce circa per un quinto sul primo 1% (che guida il movimento dei capitali dalle “città globali”, come tempestivamente segnala la Sassen), per un altro quinto sul seguente 4% (redditi intorno ai 70.000 dollari annui) e per il 10-12% solo sulle tanto sbandierate ‘classi medie emergenti’ (che alla fine hanno un reddito inferiore ai 5.000 dollari PPA annuali). Le classi medie inferiori del mondo ricco (redditi intorno ai 10.000 dollari annui) non hanno avuto vantaggi, ed in alcuni casi (Giappone) sono anche calati.

Nell’analisi di Milanovic questa ineguaglianza, creata da un insieme di tecnologie, apertura (ovvero mobilità e concorrenza) e politiche (deregolatorie), può essere invertita da alcune dinamiche ‘benigne’ (come l’aumento relativo della manodopera istruita, dalla richiesta di ridistribuzione che trova la via politica per farsi sentire, e dal rendimento in calo dei capitali, per effetto della saturazione) ma anche da alcune dinamiche ‘maligne’ (che sintetizza in “guerre e rivoluzioni”). Quale prevarrà dipenderà dalle circostanze storiche, come è avvenuto in passato.
Prima della industrializzazione, ad esempio, in Spagna si sono date tre fasi di inversione dell’”onda”: il 1350, a seguito della peste; il 1570, a seguito delle guerre; il 1800, a seguito delle guerre napoleoniche. In tutti i casi si può stilizzare la dinamica citando l’improvviso scarseggiare della manodopera, che sposta i rapporti di forza con il capitale, la distruzione del secondo, per effetto dei danni di guerra, e la tassazione dei ricchi resa necessaria da circostanze di forza maggiore.
Quindi il motore, sia nella fase preindustriale sia nella successiva, è stato sempre la sostituzione tra lavoratori e capitale ed il trasferimento dei primi da un settore all’altro (nel primo schema T.O.P. tra ottocento e novecento è stato lo spostamento dall’agricoltura, investita dalla prima rivoluzione verde, e l’industria, mentre nel secondo, tra gli anni ottanta ed oggi è stato lo spostamento da industria a servizi). Milanovic cita “la nuova rivoluzione delle macchine”, la fortunata formula di Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, nel ricordare catene causali che vanno dal prezzo più basso dei beni capitali, al progresso tecnologico orientato da questi, alla sostituzione del lavoro umano (relativamente più caro) in particolare nei deboli lavori di routine. Queste catene sono attivate specificamente nel T.O.P. della fine novecento facendo leva sulla Openess, strettamente avviluppata con la Technology (p.109).

Qui uno degli snodi teorici, perché per Milanovic, come per Atkinson, il progresso tecnologico è da considerarsi endogeno alla T.O.P. dominante, in quanto è orientato dalla redditività (ovvero dalla logica capitalista) a sostituire i fattori costosi.



Ma ad un certo punto (qui sembra ripreso lo schema di Arrighi) l’ineguaglianza provoca una stagnazione della domanda interna che determina tensioni non più sostenibili, a questo punto la ‘sovraccumulazione’ in cerca sempre più parossistica di rendimenti esaspera la competizione imperialista (dove le conseguenti spese pubbliche sono di per sé una forma di impiego). Questa, con le “guerre e rivoluzioni” che porta con sé è quindi da considerare “integrata nelle condizioni economiche interne dell’epoca: una disuguaglianza di reddito e di ricchezza molto elevata, nutrita dai risparmi delle classi più alte, un’insufficiente domanda aggregata interna ai paesi, e la necessità da parte dei capitalisti di trovare usi redditizi fuori al loro paese per l’eccedenza di risparmi” (p.95). Nel contesto del primo T.O.P. questa esigenze doveva tradursi nel controllo fisico di altri luoghi, come misero in evidenza John Hobson (1902), Rosa Luxemburg (1913) e Vladimir Lenin (1916). Quindi, come scrive Hobson, “non è il progresso industriale che richiede l’apertura di nuovi mercati e di nuove aree di investimento, ma la cattiva distribuzione della capacità di consumo che impedisce l’assorbimento di merci e capitali all’interno del paese” (H. p.76).

Insomma, la questione è semplice, “la disuguaglianza è il motore della guerra”.

È questa che mette in modo le forze distruttive che alla fine ne avviano la decrescita. Ed oggi, come dice, “siamo in condizioni simili” (p. 99).

Come si esce da questa condizione strutturale? Milanovic cita un autore come Pritchett, che insegna ad Harward e ha lavorato alla Banca Mondiale e che è un forte propagandista, per ragioni morali fondate su un universalismo utilitarista di marca puramente liberale, dell’espansione delle migrazioni come via per lo sviluppo e Hanson che parte dalla considerazione della libertà di movimento come diritto umano fondamentale per inquadrare la ragione economica, internamente fondata di nuovo su un’etica utilitaria, di garantire gli spostamenti in quanto produttori di più ricchezza aggregata. In particolare richiama l’argomento che invece di aumentare “i salari degli individui in patria” (cioè migliorare l’equità interna) è più efficace in termini aggregati spostare le persone, in modo che transitando da un paese nel quale la composizione organica del capitale è inferiore ad uno in cui è superiore aumentino la produttività (secondo Hanson di un fattore quattro). In questo passaggio, cruciale, viene pienamente messo in luce il conflitto distributivo politico tra le classi, in un modello semplificato a tre classi, infatti, si avrebbe i seguenti equilibri possibili:
·       Le rispettive classi alte distribuiscono i redditi con le rispettive classi medie sia nei paesi sviluppati sia nei paesi periferici, ottenendo una maggiore eguaglianza nazionale ma una permanente disuguaglianza tra nazioni. È necessario per ottenere ciò che l’ineguaglianza interna non ottenga valvole di sfogo utili al governo dei processi dalla dinamica emigrazione/immigrazione.

·       La classe alta occidentale distribuisce i redditi con la classe media emergente in posizione subalterna, perché costretta a emigrare o lavorare in subfornitura, e lascia indietro quella nazionale locale, ottenendo alla fine di un lungo percorso una maggiore eguaglianza tra nazioni ma una più pronunciata disuguaglianza entro queste.


Il punto di vista difeso dagli autori citati (contro la posizione contrattualista avanzata da John Rawls in “Il diritto dei popoli”) prevede che il sacrificio delle classi medie inferiori occidentali sarebbe più che compensato, in una contabilità edonica implicita, dal vantaggio delle classi medie emergenti che migrerebbero a servizio delle classi alte occidentali. Minimizzando la redistribuzione, in sostanza, si avrebbe il maggiore saldo di felicità (calcolato nella metrica del denaro erogato). Viene citato uno studio della Banca Mondiale del 2006, ovvero precedente allo shock epistemologico del 2008, quando il Washington Consensus di cui la BM è stata tra i principali propagandisti, si infrange sulla crisi finanziaria, nel quale si afferma essere “documentato che una crescita dell’emigrazione contribuisce all’aumento del Pil globale e dei redditi dei migranti” (p.143). In effetti una tesi sempre più controversa e che uno studioso così attento delle ineguaglianze dovrebbe usare con circospezione (se anche fosse vera contribuisce anche ad accumulare tutti i benefici in poche mani).



La proposta arriva, ed esplicitamente, a considerare il minore danno di ridurre i diritti dei migranti per rendere accettabile alle classi danneggiate lo scambio. Cioè prevede la “soppressione di alcuni diritti civili” dei migranti (p.144). Ovvero di permettere un maggiore livello di migrazioni creando cittadini di serie A e B nel contesto di “un mondo di migrazioni più ordinato e di quote, sia a livello di paesi di origine sia di arrivo” (p.201).


Ma se questo avvenisse ci vorrebbero comunque decenni per spostare significativamente gli equilibri dell’ineguaglianza mondiale, dunque si arriva alla tesi della stagnazione dei cittadini di serie A quanto a diritti, ma sfidati dai cittadini di serie B che, proprio per questo, sarebbero interessati a lavorare per meno (a vantaggio loro, che prima guadagnavano ancora meno e dei datori di lavoro che risparmiano).
Questa semplice logica è preferibile secondo Milanovic all’alternativa, che è ovviamente la restrizione della globalizzazione, ovvero la chiusura della Openess. Questa è, infatti, iniqua, come dirà da ultimo alla fine del discorso, ma garantisce un maggiore reddito complessivo (al prezzo di concentrarlo praticamente tutto nelle élite favorite) e si fonda sulla divisione del lavoro (argomento di marca ricardiana). Ormai neppure questa tesi, che è costruita tutta su letteratura datata o su affermazioni non argomentate, appare vera: la ineguaglianza danneggia la crescita complessiva, non solo quella dei paesi ricchi.

Dani Rodrik, ad esempio, nel paper del gennaio 2017, di cui abbiamo parlato qui afferma essere aumentata l’ineguaglianza sia nei paesi occidentali sia nei paesi periferici (secondo il modello di Milanovic è aumentata la “frontiera della disuguaglianza”) colpendo i lavoratori addetti alla produzione nelle economie sviluppate come direbbe la teoria standard del commercio (ma senza le ipocrite compensazioni che vi sono previste a parole). Si moltiplicano le dimostrazioni, post 2006, che la cosa non è andata a vantaggio e non è stata riassorbita, come prevedevano le ottimiste teorie di Pritchett citate da Milanovic. Lo studioso di Harward introduce in questo contributo una idea che può somigliare: introdurre lavoratori temporanei, per un massimo di cinque anni, con permessi di lavoro coperti da tutte le relative garanzie, identiche a quelle degli autoctoni, ma senza gli altri diritti di cittadinanza (sono in fondo cittadini stranieri in permesso temporaneo) ed accantonando in un fondo di garanzia obbligatorio una parte del salario a rilascio differito e condizionato al ritorno in patria. Ma questa misura sostituisce l’openess, non lo integra. Ovvero sostituisce l’apertura dei commerci e l’outsorcing delle imprese nei paesi di provenienza degli immigrati. Si tratta di chiudere la “porta sul retro” che mina, con forme diffuse di concorrenza sleale sulle norme sul lavoro, ambientali e distorce i mercati.

Invece per Milanovic, che non vede arrivare alla fine i modelli export-oriented (di cui in Europa abbiamo ottimi esempi) se la globalizzazione si fermasse “ci sarebbe un significativo ribaltamento del modello di crescita che ha caratterizzato gli ultimi trentacinque anni” (p.159), non è detto che sia in sé un male per l'autore ma Milanovic nel 2016 ci crede poco, vedendo “inattaccabile l’egemonia del capitalismo”. La tempesta perfetta del 2016 non si era ancora manifestata in pieno (anche se in un passaggio a pag. 169 la evoca).


Il ‘primo libro’ termina qui, con la lettura illuminista e disciplinare (ovvero costruita da dentro la disciplina economica) del “mondo nella sua interezza”, che prescinde dagli Stati-Nazione realmente esistenti (con le loro culture, volontà, interessi ed eserciti), in grado, come dice, di far “comparire i problemi sotto una luce più rivelatrice” (p.220). Per vederne i limiti potrebbe essere utile una passeggiata nel giardino eterogeneo di Pierluigi Fagan in questo post.

Il “secondo libro” andrebbe scritto.



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