Sono
andato a vedere “La forma dell’acqua”,
di Guillermo del Toro, il remake di “Il mostro
della laguna nera” del 1954. L’anno arriva dopo la morte dei protagonisti
della seconda guerra mondiale, Truman nel 1952 e Stalin nel 1953, e dopo la
repressione della rivolta di Berlino Est. Il 1953 e 1954 sono anni di altissima
tensione prima della relativa distensione del 1955 e della crisi di Suez (1956)
in cui USA e URSS operano di conserva per rimettere al loro posto francesi ed
inglesi (del resto la dinamica della guerra fredda è una diarchia che non
accetta di essere sfidata). Il 1956 è anche l’anno della destalinizzazione ad
opera di Krusciov, e della rivoluzione ungherese.
Tutto
questo ha una relazione con il film originario, nel quale un mostro anfibio in
una laguna brasiliana attacca un gruppo di scienziati e rapisce una donna,
venendo alla fine ucciso, e che risente del clima propagandistico dell’epoca: bisogna scovare e distruggere i mostri primitivi
che si annidano sotto l’acqua e minacciano il nostro solare stile di vita e
piacere. Come ne ha con King Kong, dove tra la bella e la bestia si crea
una complicità, e la natura assume un ruolo più complesso.
Da
qui in avanti spoiler. E, ovviamente, non critica cinematografica (casomai qui
e qui),
dato che fa ampio uso di elementi esterni.
Ma
il remake sposta in modo significativo questa opposizione bene/male verso una
torsione molto significativa, attenuando anche (nell’esplicitarla, tuttavia) la
carica erotica da consumismo ascendente che riempiva il film originario: il male è diventato il potere, rappresentato
equamente dal generale americano e dal sovrintendente sovietico, con i loro
tirapiedi, ed il bene le minoranze oppresse. I protagonisti sono neri (la
brava Octavia Spencer),
oppure gay (Richard
Jenkins), portatori di handicap (come la muta protagonista, Sally Hawkins), e,
ovviamente, altre specie (l’uomo anfibio, Doug Jones); cioè sono
tutti espressione di minoranze e schiacciati dalla macchina oppressiva del potere
maschio, bianco, adulto.
Insomma,
io ho visto nel film, che è ben fatto, la metafora di una nuova guerra fredda,
che deve essere combattuta questa volta tra le macchine oppressive del potere
statuale, che non riconosce alcuna dignità a chi non serve (bello il dialogo
finale tra Michael
Shannon e il generale impersonato da Nick Searcy), e getta via
chi può essere diventato pericoloso e comunque forse infedele (la spia russa Michael Stuhlbarg),
e la forza della vita, includendo la sua sensualità, che irrompe irresistibile
attraversando le frontiere e connettendo i diversi (per cui la nera è amica
della bianca debole, alla fine rischiando per essere fedele a questa amicizia,
e il gay lo è con la stessa, ma, soprattutto, si crea un legame con “il mostro”,
che si rivela essere un sensibile ed intelligente taumaturgo).
Una
favola, insomma, ed a lieto fine, come del resto l’originale, ma rispetto a
questo rovesciato: questa volta vincono i
deboli ed i diversi, vince il “mostro”.
Mi
pare che questa conclusione sia molto in linea con un certo spirito del tempo,
con il tardo liberalesimo che prosegue nella sua secolare opera di dissoluzione,
reinterpretazione, delle gerarchie sociali in favore di una sorta di vitalismo individuale
elevato ad obiettivo di liberazione. Tutti i protagonisti sono, e si sentono,
soli. Tutti sono veri, autentici, e in qualche modo profondi e capaci di
colore, mentre gli altri sono cliché, sono semplici stampi. La famiglia del
colonnello, nel quale lui sta in modo autistico, sempre altrove, è una sorta di
cartolina anni cinquanta di una pubblicità. Mentre i colleghi dell’inserviente
di colore sono schiacciati nei loro ruoli, fanno tappezzeria, la società, il barista
che vende le torte, respinge tutte le diversità appena le vede. Tutti gli altri
sono pezzi di un ingranaggio amministrativo o di una macchina di produzione, lo
è anche la spia russa, che alla fine si ribellerà, pagandone il prezzo. Solo allora
sarà un “brav’uomo”.
Il
film di Del Toro merita probabilmente di avere tutte queste nomination, perché ci mostra che la guerra fredda non è
mai finita, sta solo cambiando oggetto. Dal 1989 (anno simbolo della sua
conclusione) continua, anzi accelerando, ed andando a dissolvere le polarità
sociali in favore di una libertà che è sostanzialmente concepita come diritto
di essere solitariamente se stessi. Secondo l’idea che l’essere umani, e anche
oltre-umani, sia fare a meno della
società (che è vista come uniformante e compressiva), del potere (brutale e
traditore), di ogni autorità. Quindi fare a meno anche della tradizione, della
politica, per definirsi nelle proprie volizioni, i propri piaceri vitali, i rapporti
individuali.
Il
fascino del film è probabilmente, con tanto di catarsi finale nel quale chi
deve essere punito lo è, in questo accarezzare il senso di essere soli, di non
trovare soddisfazione al proprio desiderio, che tanti condividono. Nel beatificare
l’uomo isolato e indipendente.
Taylor
parla in proposito di “io schermato” della modernità, disponibile a vivere
senza fini collettivi e ultimi, fosse anche il fine simmetrico delle due
megaorganizzazioni in guerra reciproca, che trascendano la semplice e diretta prosperità.
L’idea che il film traduce in immagini, e nel racconto, è che l’ideale più alto
e motivante sia vivere la ‘propria’ vita indipendentemente dagli altri,
scegliendola. Un ideale che ci costituisce ed è contemporaneamente un inganno e
finzione.
Si
può dire che il film è quindi una fiaba morale, nella quale i progetti
collettivi contrapposti vengono sconfitti, entrambi, dalla forza della vita. Dalla
forza della natura e della rivendicazione dei diritti dei deboli ed offesi,
delle minoranze. LGBT e altre minoranze.
Un
discorso molto politicamente corretto,
certamente.
Qualcosa
di connesso con l’idea (che il socialismo condivide con il liberalesimo) della
“autonomia del sociale”. Cioè dell’idea, depositatasi nel corso della
secolarizzazione, che alla fine sia la tecnica che libererà gli umani dal
potere, dalla tradizione, e li condurrà verso quel sostituto della salvezza
escatologica che è il progresso.
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