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sabato 24 marzo 2018

Lavorare per il nemico: logica del ‘benaltrismo’



Una aggressiva replica di Eros Barone, nel merito della quale per ora preferisco non entrare (non mi appassiona moltissimo una disputa sull’ortodossia), si chiude con un bellissimo esempio di intrappolamento logico. Sostiene Barone che:

… Il compito dei comunisti è dunque, oltre alla critica e alla condanna di ogni forma di chiusura delle frontiere con muri e filo spinato - chiusura non solo disumana, ma anche assolutamente inadeguata a risolvere il problema -, la denuncia sistematica dell’inganno che si cela dietro la libera circolazione transnazionale, che non è affatto la premessa delle libertà, ma lo strumento più vantaggioso che possa adoperare, nelle attuali condizioni, il capitale monopolistico.

Ovvero che il compito che si deve dare chi parta da una corretta interpretazione del pensiero dialettico di Marx sia solo di ‘criticare’ e ‘condannare’ la chiusura delle frontiere (se muri e filo spinato sono metafore di ogni e qualsiasi regolazione e limitazione) e contemporaneamente ‘denunciare sistematicamente’ il reale funzionamento della libera circolazione transnazionale che in tal modo non si ostacola. Certamente la denuncia è corretta ed appropriata: questa non è libertà, e tanto meno ‘diritto’, ma solo ‘strumento’ nelle mani del capitale monopolistico per estrarre più profitto dal lavoro, svalutandolo e ponendolo in scacco. Nello stesso modo in cui è strumento nelle mani del capitale il ‘crumiro’ (in realtà solo un lavoratore ancora più debole) chiamato sin dal 1800 allo scopo per disinnescare uno sciopero particolarmente efficace.

A parere di Barone:

Solo così sarà possibile neutralizzare la propaganda razzista e nazionalista della Lega e dell’estrema destra, impedendo che il proletariato sia la vittima di una micidiale operazione divisiva.

Questa sarebbe dunque una “strategia rivoluzionaria” che rifiuta sia il ‘buonismo e moralismo’ della sinistra borghese (alla quale mi ascrive), sia “ogni forma di divisione della classe lavoratrice sulla base della nazionalità”. Una strategia rivolta a creare la “massima unità di classe” che a sua volta impedirebbe (con la rivoluzione) “l’uso strumentale della manodopera immigrata come esercito di riserva”, ovvero la competizione tra i lavoratori.



L’operaio qui fotografato, ad esempio, lavora in modo pienamente legittimo ad una catena di montaggio, ma è come si vede del tutto privo di ogni dispositivo di protezione individuale, di tuta di lavoro, di guanti. Deve continuare a farlo, ma in condizioni di parità ed integrazione, per un salario comparabile a quello del lavoratore locale, il punto è assicurare le condizioni perché questo avvenga. È solo allora che il lavoratore autoctono non percepirà l’altro come un concorrente sleale, perché non lo sarà. Solo allora la bomba dell’immigrazione comincerà a sgonfiarsi.

Certo, come scrive Barone, io non apprezzo queste finezze dialettiche, ed in particolare il necessario progresso, per via dello sviluppo interno delle contraddizioni, della storia (nella relazione interna di reciproca influenza e causazione tra base, sovrastruttura e prassi della classe) che è scientificamente indicata dal pensatore di Treviri nato quasi esattamente duecento anni fa. E, certo, io mi accontenterei di ridurre il dolore che sta portando le destre al potere assoluto in Italia, magari in attesa di tempi più fecondi.

Ma come si neutralizza, in concreto e non dal caldo di una casa protetta da una più o meno buona pensione o da un posto pubblico, “la propaganda razzista e nazionalista della Lega e dell’estrema destra” se non si attenuano le cause sulle quali questa fa leva? Se, mentre si denuncia (peraltro l’ovvio, rappresentato dalla scheletrica analisi che viene prima e sulla quale nessuno può essere in disaccordo) l’unica cosa che si fa sull’esercito di riserva è di lasciarlo rinforzare?

Dice Barone che il colpevole è il capitale: è vero. Ma lo strumento è il vicino che concorre per il mio stesso ruolo avendo più bisogno, più disperazione e quindi più forza (dato che il meccanismo del capitale è precisamente che ‘vince’ chi è disponibile a perdere di più). Mentre istruiamo le masse ignoranti a capire che il problema è ‘ben altro’, non ha proprio nessuna importanza che nel frattempo in questo modo si avvicina il nazionalsocialismo (o il suo sostituto funzionale aggiornato ai tempi)?

Cioè mentre gli spieghiamo che:

… alla base dell’immigrazione odierna vi sono tutte le contraddizioni dell’imperialismo: saccheggio di risorse, guerre, terrorismo, che spingono milioni di persone ad emigrare per cercare un futuro. La risposta dei comunisti al problema dell’immigrazione deve, anzitutto, indicare le cause strutturali delle politiche imperialiste, denunciando le attività dei propri paesi in Africa e nel Vicino Oriente e condannando ogni politica di intervento la quale, ancorché spesso dissimulata da orpelli umanitari, persegue in realtà l’obiettivo di spianare la strada all’attività di saccheggio dei rispettivi monopoli, impoverendo interi popoli. Del resto, un’analisi più approfondita dell’immigrazione deve porre in evidenza non solo l’aspetto, maggiormente enfatizzato dai ‘mass media’, dell’immigrazione verso l’Europa, ma anche la realtà dei flussi migratori interni. In questo senso, la polarizzazione tra capitale e forza-lavoro appare il vero obiettivo della libera circolazione delle persone e rappresenta, insieme con quella di capitali e merci, il pilastro della costruzione del mercato comune dell’Unione Europea. L’immigrazione risulta dunque un fenomeno strutturalmente connesso con le necessità dei monopoli in un mercato aperto, con la conseguente ricerca della forza-lavoro a minor costo e con i relativi interventi per incrementarne i profitti. L’Italia, ad esempio, non è solo terra di immigrazione, ma anche, contemporaneamente e in misura crescente, terra di emigrazione verso altri paesi europei ed extraeuropei, nei quali i giovani italiani cercano posti di lavoro che oggi non esistono nel nostro Paese o condizioni retributive migliori. Pur nella differenza che intercorre tra questi fenomeni in termini di drammaticità e di condizioni esistenziali, essi sono legati ad una matrice comune.

Possiamo davvero solo aspettare che l’affermazione del socialismo in tutti i paesi crei le condizioni economiche, geopolitiche e sociali perché si possa realizzare:

..l’idea di una immigrazione bilaterale e perequativa, che ho formulato nel mio articolo come obiettivo programmatico di un governo socialista, è una proposta per avviare a soluzione, congiuntamente, sia il problema dell’immigrazione che quello dell’emigrazione. ?

Ovviamente sapere che l’immigrazione effettivamente funziona in questo modo, e che strutturalmente accentua lo sfruttamento, contribuendo alla deflazione salariale (senza esserne la causa principale, ma essendone meccanica necessaria, dato che questa si crea solo quando c’è sovrabbondanza dell’offerta di lavoro), non rende di per sé il meccanismo meno efficace. Nello stesso modo desiderare “la massima unità di classe” non la concretizza se nel frattempo nulla si fa, anzi si impedisce di fare, per ridurre la competizione di cui l’uso della manodopera immigrata come strumento alternativo ad uno più costoso (quella autoctona) è volano.
Sinceramente non riesco proprio a cogliere l’elemento pratico in questa strategia interamente prigioniera dei suoi teoremi astratti: la mobilità dei fattori produttivi, attratti idealmente senza attrito dove le condizioni di scarsità relativa ne fanno lievitare il valore di scambio nel contesto della capacità del capitale finanziario di mettere a confronto tutto, è il cuore del meccanismo di creazione di valore contemporaneo. Questo meccanismo crea valore e concretamente distrugge la ricchezza data dalla natura e dall’uomo (intrappolato sia nell'economia politica dell'immigrazione sia in quella della emigrazione, ovvero sia in occidente come nei paesi di provenienza).



Io probabilmente non riesco, Barone ha ragione, ad appassionarmi alla logica perfetta della dialettica (probabilmente perché non sono filosofo di formazione), ma neppure riesco a rassegnarmi a questa distruzione. Preferisco quindi ridurla e rallentarla, dunque ostacolare quel meccanismo che ci porta, accelerando (come mostra Colier) a creare sempre più lotta tra i poveri, sempre più rabbia, sempre più enclave chiuse (‘diaspore’, come dice).

La mia soluzione è semplice, magari riformista, ma non è facile:
·       rallentare il ritmo della sostituzione della debole forza lavoro locale con più debole esterna, senza fili spinati ma con regole adatte ed intelligenti; perché è proprio il ritmo ad essere decisivo, e questo per ragioni tecniche che hanno a che fare con le velocità relative della creazione e sostituzione di capacità di lavoro e relativi investimenti, pubblici e privati, fissi e variabili;
·       ostacolare lo sfruttamento, renderlo più costoso, riprendendo il diritto della funzione pubblica di regolare l’economia ed i mercati,
·       integrare chi è arrivato per cercare di dissolvere le ‘diaspore’ (che, riducendo i costi di arrivo ed inserimento, di fatto attraggono sempre nuovi lavoratori e sono tanto più efficaci in questo tanto più sono culturalmente distanti).

Insieme a ciò bisogna cercare di operare sulle cause esterne:
·       ridurre l’ingerenza imperialista, cercare di transitare verso un mondo più rispettoso e poliarchico,
·       contenere la mobilità dei capitali (causa prima degli squilibri sia nei paesi di emigrazione sia in quelli di immigrazione),
·       ripristinare il diritto di regolare il commercio (evitando che sia usato come arma),

Poi, quando avremo il socialismo, proveremo anche la soluzione di Barone (e le sue ‘imitatio christi’).

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