Una aggressiva replica
di Eros Barone, nel merito della quale per ora preferisco non entrare (non mi
appassiona moltissimo una disputa sull’ortodossia), si chiude con un bellissimo
esempio di intrappolamento logico. Sostiene Barone che:
… Il compito dei comunisti è dunque, oltre alla
critica e alla condanna di ogni forma di chiusura delle frontiere con muri e
filo spinato - chiusura non solo disumana, ma anche assolutamente inadeguata a
risolvere il problema -, la denuncia sistematica dell’inganno che si cela
dietro la libera circolazione transnazionale, che non è affatto la premessa
delle libertà, ma lo strumento più vantaggioso che possa adoperare, nelle
attuali condizioni, il capitale monopolistico.
Ovvero che il compito che si deve dare chi parta da
una corretta interpretazione del pensiero dialettico di Marx sia solo di ‘criticare’
e ‘condannare’ la chiusura delle frontiere (se muri e filo spinato sono
metafore di ogni e qualsiasi regolazione e limitazione) e contemporaneamente ‘denunciare
sistematicamente’ il reale funzionamento della libera circolazione transnazionale
che in tal modo non si ostacola.
Certamente la denuncia è corretta ed appropriata: questa non è libertà, e tanto
meno ‘diritto’, ma solo ‘strumento’ nelle mani del capitale monopolistico per
estrarre più profitto dal lavoro, svalutandolo e ponendolo in scacco. Nello stesso
modo in cui è strumento nelle mani del capitale il ‘crumiro’ (in realtà solo un
lavoratore ancora più debole) chiamato sin dal 1800 allo scopo per disinnescare
uno sciopero particolarmente efficace.
A parere di Barone:
Solo così sarà possibile neutralizzare la propaganda
razzista e nazionalista della Lega e dell’estrema destra, impedendo che il
proletariato sia la vittima di una micidiale operazione divisiva.
Questa sarebbe dunque una “strategia rivoluzionaria”
che rifiuta sia il ‘buonismo e moralismo’ della sinistra borghese (alla quale
mi ascrive), sia “ogni forma di divisione della classe lavoratrice sulla base
della nazionalità”. Una strategia rivolta a creare la “massima unità di classe”
che a sua volta impedirebbe (con la rivoluzione) “l’uso strumentale della
manodopera immigrata come esercito di riserva”, ovvero la competizione tra i lavoratori.
L’operaio qui fotografato, ad esempio, lavora in modo
pienamente legittimo ad una catena di montaggio, ma è come si vede del tutto
privo di ogni dispositivo di protezione individuale, di tuta di lavoro, di
guanti. Deve continuare a farlo, ma in condizioni di parità ed integrazione,
per un salario comparabile a quello del lavoratore locale, il punto è assicurare le condizioni perché questo avvenga. È solo
allora che il lavoratore autoctono non percepirà l’altro come un concorrente
sleale, perché non lo sarà. Solo allora la bomba dell’immigrazione comincerà a
sgonfiarsi.
Certo, come scrive Barone, io non apprezzo queste
finezze dialettiche, ed in particolare il necessario progresso, per via dello
sviluppo interno delle contraddizioni, della storia (nella relazione interna di
reciproca influenza e causazione tra base, sovrastruttura e prassi della
classe) che è scientificamente indicata dal pensatore di Treviri nato quasi
esattamente duecento anni fa. E, certo, io mi accontenterei di ridurre il
dolore che sta portando le destre al potere assoluto in Italia, magari in
attesa di tempi più fecondi.
Ma come si neutralizza, in concreto e non dal caldo di
una casa protetta da una più o meno buona pensione o da un posto pubblico, “la
propaganda razzista e nazionalista della Lega e dell’estrema destra” se non si attenuano le cause sulle quali
questa fa leva? Se, mentre si denuncia (peraltro l’ovvio, rappresentato dalla
scheletrica analisi che viene prima e sulla quale nessuno può essere in disaccordo)
l’unica cosa che si fa sull’esercito di
riserva è di lasciarlo rinforzare?
Dice Barone che il colpevole è il capitale: è vero. Ma
lo strumento è il vicino che concorre
per il mio stesso ruolo avendo più bisogno, più disperazione e quindi più forza
(dato che il meccanismo del capitale è precisamente che ‘vince’ chi è
disponibile a perdere di più). Mentre istruiamo le masse ignoranti a capire che
il problema è ‘ben altro’, non ha proprio nessuna importanza che nel frattempo
in questo modo si avvicina il nazionalsocialismo (o il suo sostituto funzionale
aggiornato ai tempi)?
Cioè mentre gli spieghiamo che:
… alla base dell’immigrazione odierna vi sono tutte le
contraddizioni dell’imperialismo: saccheggio di risorse, guerre, terrorismo,
che spingono milioni di persone ad emigrare per cercare un futuro. La risposta
dei comunisti al problema dell’immigrazione deve, anzitutto, indicare le cause
strutturali delle politiche imperialiste, denunciando le attività dei propri
paesi in Africa e nel Vicino Oriente e condannando ogni politica di intervento
la quale, ancorché spesso dissimulata da orpelli umanitari, persegue in realtà
l’obiettivo di spianare la strada all’attività di saccheggio dei rispettivi
monopoli, impoverendo interi popoli. Del resto, un’analisi più approfondita
dell’immigrazione deve porre in evidenza non solo l’aspetto, maggiormente
enfatizzato dai ‘mass media’, dell’immigrazione verso l’Europa, ma anche la
realtà dei flussi migratori interni. In questo senso, la polarizzazione tra
capitale e forza-lavoro appare il vero obiettivo della libera circolazione
delle persone e rappresenta, insieme con quella di capitali e merci, il
pilastro della costruzione del mercato comune dell’Unione Europea.
L’immigrazione risulta dunque un fenomeno strutturalmente connesso con le
necessità dei monopoli in un mercato aperto, con la conseguente ricerca della
forza-lavoro a minor costo e con i relativi interventi per incrementarne i
profitti. L’Italia, ad esempio, non è solo terra di immigrazione, ma anche,
contemporaneamente e in misura crescente, terra di emigrazione verso altri
paesi europei ed extraeuropei, nei quali i giovani italiani cercano posti di
lavoro che oggi non esistono nel nostro Paese o condizioni retributive
migliori. Pur nella differenza che intercorre tra questi fenomeni in termini di
drammaticità e di condizioni esistenziali, essi sono legati ad una matrice
comune.
Possiamo davvero solo aspettare che l’affermazione del
socialismo in tutti i paesi crei le condizioni economiche, geopolitiche e
sociali perché si possa realizzare:
..l’idea di una immigrazione bilaterale e perequativa,
che ho formulato nel mio articolo come obiettivo programmatico di un governo
socialista, è una proposta per avviare a soluzione, congiuntamente, sia il
problema dell’immigrazione che quello dell’emigrazione. ?
Ovviamente sapere
che l’immigrazione effettivamente funziona in questo modo, e che strutturalmente
accentua lo sfruttamento, contribuendo alla deflazione salariale (senza esserne
la causa principale, ma essendone meccanica necessaria, dato che questa si crea
solo quando c’è sovrabbondanza dell’offerta di lavoro), non rende di per sé il
meccanismo meno efficace. Nello stesso modo desiderare “la massima unità di
classe” non la concretizza se nel frattempo nulla si fa, anzi si impedisce di
fare, per ridurre la competizione di cui l’uso della manodopera immigrata come
strumento alternativo ad uno più costoso (quella autoctona) è volano.
Sinceramente non riesco proprio a cogliere l’elemento
pratico in questa strategia interamente prigioniera dei suoi teoremi astratti: la
mobilità dei fattori produttivi, attratti idealmente senza attrito dove le condizioni
di scarsità relativa ne fanno lievitare il valore di scambio nel contesto della
capacità del capitale finanziario di mettere a confronto tutto, è il cuore del
meccanismo di creazione di valore contemporaneo. Questo meccanismo crea valore e concretamente distrugge la
ricchezza data dalla natura e dall’uomo (intrappolato sia nell'economia politica dell'immigrazione sia in quella della emigrazione, ovvero sia in occidente come nei paesi di provenienza).
Io probabilmente non riesco, Barone ha ragione, ad
appassionarmi alla logica perfetta della dialettica (probabilmente perché non
sono filosofo di formazione), ma neppure riesco a rassegnarmi a questa
distruzione. Preferisco quindi ridurla e rallentarla, dunque ostacolare quel
meccanismo che ci porta, accelerando (come mostra
Colier) a creare sempre più lotta tra i poveri, sempre più rabbia, sempre più
enclave chiuse (‘diaspore’, come dice).
La mia soluzione è semplice, magari riformista, ma non
è facile:
·
rallentare
il ritmo della sostituzione della debole forza lavoro locale con più debole
esterna, senza fili spinati ma con regole adatte ed intelligenti; perché è
proprio il ritmo ad essere decisivo, e questo per ragioni tecniche che hanno a
che fare con le velocità relative della creazione e sostituzione di capacità di
lavoro e relativi investimenti, pubblici e privati, fissi e variabili;
·
ostacolare
lo sfruttamento, renderlo più costoso, riprendendo il diritto della funzione
pubblica di regolare l’economia ed i mercati,
·
integrare chi
è arrivato per cercare di dissolvere le ‘diaspore’ (che, riducendo i costi di arrivo
ed inserimento, di fatto attraggono sempre nuovi lavoratori e sono tanto più
efficaci in questo tanto più sono culturalmente distanti).
Insieme a ciò bisogna cercare di operare sulle cause
esterne:
·
ridurre l’ingerenza imperialista, cercare di transitare verso un mondo più rispettoso
e poliarchico,
·
contenere la mobilità dei capitali (causa prima degli squilibri sia nei paesi di
emigrazione sia in quelli di immigrazione),
·
ripristinare il diritto di regolare il commercio (evitando che sia usato come arma),
Poi, quando avremo il socialismo, proveremo anche la
soluzione di Barone (e le sue ‘imitatio christi’).
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