Un urbanista americano attivo dagli
anni cinquanta ai primi ottanta, Kevin Lynch, in “Good city form”
del 1981 descriveva i processi decisionali, ad esempio quelli coinvolti nelle
dinamiche territoriali, come un intreccio di catene, o sequenze, di inferenze e
atti che mettono in connessione situazioni, valori e obiettivi; ma “le parti
inferiori di tali catene sono sommerse nell’abitudine, mentre quelle superiori
si perdono tra le nuvole, per essere rivelate solo in occasioni retoriche”,
inoltre e quel che più conta, “catene differenti si mescolano e si separano
in modi confusi, sicché le singole azioni derivano da molti valori e hanno
conseguenze molteplici, che a loro volta sono collegabili ad altre fonti di
valore. Il risultato è un cespuglio [thicklet] piuttosto che
una catena, o più esattamente un cespuglio le cui radici e i cui rami si
intersecano e si innestano gli uni negli altri” (cit, in. V.
Andriello, La Forma dell’esperienza, 1997, p.74).
Premessa
Questo cespuglio inestricabile di questioni, tra le
abitudini e le nuvole degli alti principi, che mobilita contemporaneamente
tanti piani diversi e porta in campo problemi enormi, lo affronteremo qui in
quattro passi: in primo luogo conviene fare mente locale ad alcuni sfondi ed
alcuni dibattiti, almeno per situare le posizioni, si renderà necessario aprire
qualche inciso sulla logica imperiale della costruzione europea a guida nordica
e sulla “tecnica dei capponi”; in secondo luogo proveremo a riconfigurare il
problema delle migrazioni in un quadro più ampio; in terzo luogo verrà proposto
uno schema analitico che scompone il fenomeno delle migrazioni negli effetti di
due “economie politiche” reciprocamente interconnesse; nelle conclusioni si prova
ad indicare il campo di battaglia vasto nel quale si dovrebbe combattere.
Primo passo: dibattiti e sfondi
Proviamo dunque a prendere contatto con il cespuglio
dell’immigrazione, che appare davvero inestricabile, partendo dal dibattito che
si manifesta nel 2015, quando in Europa chiedono diritto di asilo oltre un
milione e trecentomila persone, raddoppiando rispetto all’anno precedente (in
particolare a fronte della crisi siriana, ultimo e più sanguinoso episodio
della cosiddetta ‘primavera
araba’, avviatasi nel 2010), e poi nel 2016, quando nuove e discusse
politiche rallentano il flusso di arrivi da quelle regioni.
In Italia e via mare, arrivano complessivamente (fonte
Frontex, rielaborata
dall’associazione Carta di Roma) un numero di migranti inferiore a 60.000
all’anno fino al 2014 (in alcuni anni anche inferiore a 20.000) quando,
improvvisamente, a seguito della guerra civile in Libia si innalza a 170.000
nel 2014, restando superiore a 100.000 negli anni seguenti. Negli ultimi
quindici anni il numero complessivo di stranieri residenti in Italia è
cresciuto da circa 1.500.000 nel 2002 a un numero ufficiale di 5.000.000, cui
si potrebbero aggiungere un altro milione stimato di clandestini, dunque
quadruplicando. Oggi sono circa l’8% dei residenti e producono una
corrispondente quota di PIL (circa 130 miliardi di euro), versando contributi
inferiori alla quota demografica, pari a circa il 5% (a causa di redditi
inferiori alla media).
Nel maggio 2015 in risposta a questi eventi la
Commissione Europea propone la “agenda
europea per la migrazione”: fuori della UE assistenza ai rifugiati, e
reinsediamento entro la UE, ricollocamento dei rifugiati nei diversi paesi
membri. Lo scopo sarebbe di affrontare le cause profonde e ridurre i flussi,
proteggendo le frontiere e stanziando risorse economiche (peraltro largamente
insufficienti).
Il dibattito degli ultimi anni viene animato tra gli
altri da economisti come Hans
Werner Sinn e da finanzieri come Soros, ed oscilla tra posizioni di difesa
egoistica e di apertura in sostanza entrambe egemonizzate dalla destra
economica. Episodi come quello di Colonia rafforzano le accuse di
“sottointegrazione” (Helmut Däuble, su
Spiegel nel gennaio 2016) insieme al timore per il carico indotto sul
welfare in una “società del benessere in via di estinzione”. Vi si oppongono posizioni
iperliberali che sostengono un’intransigente apertura sulla base di un ideale
di ‘società aperta’ allargata alla scala mondiale. Secondo quanto rilevano
molti osservatori tedeschi i due campi si considerano reciprocamente “non degni
di discussione”; una reciproca chiusura perfettamente speculare che da una
parte utilizza argomenti come gli accordi internazionali sul diritto di asilo
(allargato indebitamente a tutti), e la preferenza per una società multietnica
e cosmopolita, giudicata esito inevitabile della mondializzazione, ma anche
l’invecchiamento della popolazione. Dall’altra argomenti pratici, circa la
compatibilità economica in un’epoca di ritirata della spesa pubblica e di contenimento
fiscale. Non mancano, in particolare nelle aree di maggiore debolezza economica
all’est, argomenti identitari.
Quando la crisi dei rifugiati siriani apre questo duro
dibattito, seguito al flusso del 2014, la posizione iniziale di apertura
proposta dal governo della Merkel, in cerca di rilegittimazione morale dopo lo spettacolo
dato nella crisi greca, non ottiene alcuna solidarietà concreta nelle altre
cancellerie europee. Un governo tedesco improvvisamente lasciato solo pone in
evidenza contemporaneamente diverse cose:
-
l’elevatissimo
grado di disgregazione della solidarietà tra i paesi europei,
-
il grado in cui le
ferite aperte e mai curate delle precedenti crisi e di episodi come le Banlieu
francesi, l’assassinio di Pim Fortuyn e Theo Van Gogh (2002 e 4) nei paesi
bassi, avevano ridotto la disponibilità per una società multietnica,
-
gli effetti reali,
percepiti in modo dissimmetrico tra le diverse classi sociali, delle precedenti
ondate migratorie dall’est europeo al tempo della improvvisa apertura,
-
l’eccessiva
eterogeneità dei paesi europei.
Ulrich Menzel nel libro “L’ordine del mondo”, nel 2015, individua la
frattura tra la maggiore densità dei rapporti tra gli Stati nell’epoca della
globalizzazione avanzata e la tendenziale anarchia che renderebbe necessario
qualcosa di più di una cooperazione volontaria attraverso un diritto che
raggiunge sempre i suoi limiti di fronte a crisi rilevanti. Nella fase di
transizione in corso comincia, secondo il suo punto, a mancare il “buon
egemone”, capace, come scrive, di rendere disponibili beni pubblici (come nel
caso l'accoglienza dei rifugiati) senza preoccuparsi di trarre beneficio da
essi, ma anche contribuendo quasi nulla ai relativi costi. Una “soluzione
elegante” che riesce solo se si è davvero egemoni. Ma la Germania non è
abbastanza forte per questo ed alla Merkel quindi non riesce la
quasi-imposizione che aveva tentato con successo nella crisi greca. Neppure
adoperando la stessa tecnica: indicare l’abisso delle conseguenze.
Jurgen Habermas
Al dibattito partecipa anche il filosofo progressista
Jurgen Habermas, ad esempio in questo
intervento tradotto da Micromega nel 2017 che si potrebbe rendere “La risposta della sinistra al nazionalismo
della destra”, propone di considerare il conflitto tendenziale tra gli
imperativi funzionali dell’economia (interpretata come una forza sistemica) e
la logica della democrazia, ovvero la frizione tra la crescita e la
partecipazione inclusiva della popolazione a questa che è stata messa in
evidenza da Dahrendorf
e da Rodrik
nei loro “trilemmi”. Preso atto che il ‘sogno’ di estendere la crescita
all’intero pianeta ed a tutti, facendo leva sulla ‘piattaforma tecnologica’ del
nuovo capitalismo post compromesso keynesiano è stata “un’illusione”, Habermas
però teme il disordine mondiale. Ovvero teme il multilateralismo e la reazione
agli impulsi sistemici, teme quindi il ‘nazionalismo’. Individua sotto tale
termine una sorta di mobilitazione del risentimento di chi è lasciato al
margine (delle ‘classi medie inferiori’ di cui parla Milanovic) e di chi sente
di stare perdendo la centralità, anche geopolitica.
L’anziano filosofo manifesta uno spirito pessimista
nel definire irreversibile questo fenomeno e vane le reazioni nazionalistiche
la cui ragione di fondo è in questa incapacità di accettare la perdita di
centralità geopolitica. Tra queste, la reazione di parte della politica tedesca
in favore di un concetto di integrazione dei profughi che si uniforma alla
cultura della maggioranza (ovvero che li uniforma ad essa). Spendendosi in
direzione del preferito ‘multiculturalismo’ (si può leggere il
dibattito con Taylor negli anni novanta) ribadisce in ultimo il diritto
liberale di ciascuno a continuare a coltivare la propria forma di vita
culturale, pur familiarizzando con la cultura politica e costituzionale del
paese ospite.
La logica
imperiale
Dopo questa prima premessa e prima di guardare agli
argomenti avanzati in questo dibattito farei però ancora un’ultima divagazione:
la vecchia allieva di Kohl sembra in questa mossa, apparentemente generosa,
voler riprendere uno schema di successo più remoto. Quello del ciclo aperto
nell’89, che la vede gestire l’accelerazione improvvisa della globalizzazione
cogliendo il doppio frutto del disciplinamento della forza lavoro interna
(messa sotto pressione dalle legioni di concorrenti a basso prezzo provenienti
dall’Est) e dei concorrenti esteri che di lì a pochi anni vedono neutralizzata
la capacità autoequilibrante dei cambi. Nel primo decennio la doppia mossa è
stata di comprimere la forza lavoro interna, ed il suo tenore di vita,
allargando al contempo la massa di manovra alla sua base e di sfruttare il
surplus di capitale derivante dai profitti ampliati allargando il credito ai
paesi della periferia interna, in modo da spingerne la capacità di acquisto
(anche di beni tedeschi), e quindi anche l’inflazione; per questa via
proteggere e coltivare il differenziale di competitività di prezzo che a sua
volta ha consentito di espandere costantemente le esportazioni.
In sostanza un meccanismo di costante colonizzazione
delle economie esterne più deboli che produce il record delle esportazioni, ma
anche in un costante riarticolare, sconnettere e rimontare, alla fine arriva a
sfidare la stabilità sociale e politica.
Secondo questo schema di successo sono stati affrontati
quattro cicli successivi dagli abili politici tedeschi (e dai loro alleati):
-
quello dell’89, in
cui viene prima sfruttato e poi assimilato in posizione subalterna l’Est della
Germania stessa (cfr il libro di Giacchè “Anschluss”);
-
quello
dell’estensione della UE (nella corona dei paesi ex sovietici) a partire dalla
presidenza Prodi (qui
una sua intervista e il quadro degli eventi);
-
quello aperto
dalla crisi del 08, in cui viene schiacciata e resa subalterna la corona dei
paesi europei dell’area Euro in posizione “debole” (ovvero con squilibri di
bilancia commerciale resi tali dalla forza delle esportazioni tedesche);
-
il quarto è
appunto quello del crollo della stabilità medio orientale a seguito del calo
drammatico del valore delle materie prime e di altri fattori economici e non.
In questo caso il primo istinto è stato di replicare la mossa di successo per
allargare ulteriormente la base di forza lavoro (tanto più che i salari in
Germania stavano iniziando a salire leggermente).
Ma queste politiche, portate avanti per decenni, hanno
un prezzo: erodono la coesione sociale e disseminano perdenti rancorosi.
È quindi indispensabile deviare la rabbia. Mentre fino
ad ora è stata deviata su diversi “colpevoli” (prima i cittadini dell’Est, poi
quelli del Sud) ora è forse il turno degli immigrati (soprattutto se arabi).
Lo sfruttamento
della rabbia: la tecnica dei capponi di Renzo
Ciò che fa la coalizione sociale e politica che guida
il processo di integrazione europeo, negli anni che vanno dalla caduta
dell’impero sovietico ad oggi, è di indicare come ‘sentiero
di progresso’ la progressiva annichilazione di ogni differenza e la
ridefinizione di queste sulla metrica economica e la logica di potenza. Il
processo di costruzione di un’unità sovranazionale contiene però una ‘linea
d’ombra’ che si nutre dell’indistinzione tra il legittimo orgoglio per la
propria, più o meno ben riuscita, forma di vita e la spinta a proiettarne
imperialisticamente la normatività interna ed il suo principio d’ordine (la
competizione individuale disgregante ogni socialità ascrittiva) sul mondo
contermine nella forma di un necessario
cammino di progresso.
In questa traccia si determina uno “sfruttamento
passivo” delle fratture che si incontrano ‘nel cammino’; passivo perché
queste, sono trovate, sono
coltivate, evocate, suscitate talvolta, per ottenerne i benefici
“passivamente”, senza cercare di razionalizzarle, di tradurle, di assumersene
la responsabilità. O meglio, cercando di scivolare oltre questa responsabilità, di
guadagnare tempo, di accumularlo, rinviando gli effetti, il momento in cui
questi arriveranno a chiedere il conto. Ciò che tutte le fratture passivamente
lasciate essere hanno in comune, e ne fa delle tecniche, è che il confine, più
o meno artificiale, tracciato tra le diverse soggettività coinvolte consente allo
status percepito da queste di prevalere sulla meccanica effettiva di
produzione e riproduzione sociale subita. Per cui una persona od un gruppo che
è oggettivamente dominato e sfruttato in rapporti sociali altamente ineguali,
per la sola presenza di un “altro” ancora più esterno e sfruttato e quindi
“inferiore”, può trarre il conforto e le ragioni per restare leale ad un modo
di produzione e riproduzione che lo schiaccia. E anche esserne in qualche modo
contento perché esso umilia di più
qualcun altro.
In questo
meccanismo la dinamica “centro/periferia” (il blocco del nord, con il suo
socio minore francese, da una parte e il sud mediterraneo o l’ovest ora uscito,
ma anche l’est, dall’altra), insieme a quella “dentro/fuori” della competizione
con il mondo del fuori (sia quello assimilabile, prossimo, sia quello più o
meno “amico”), ed entro le società produttive quella “giusti/lazzaroni” (a
vario grado tutti gli immigrati, i non integrati, gli stranieri) sono la meccanica stessa della costruzione
imperiale a più strati europea. Ogni segmento o gruppo
subalterno, dominato o controllato da uno più centrale, trova conforto
“beccando” il cappone ancora più esterno, sentendosi parte di una cosa grande,
e soddisfatto che altri non lo siano.
Immigrazione e proposte:
Milanovic
Precisamente questo meccanismo è inconsapevolmente funzionalizzato
da Branko Milanovic nel suo libro
del 2016 sulla ineguaglianza mondiale. I dilemmi posti dal sistema economico e
sociale contemporaneo (ed esemplificati nell’interazione reciproca tra
Tecnologia, Apertura e Politiche) che determinano di fatto una crescente
stagnazione del ceto medio inferiore dei paesi ricchi, in favore per quattro quinti
del primo ventile di reddito e per un quinto dei ventili corrispondenti al ceto
medio emergente (classi di reddito tra 5 e 10.000 dollari annui nei paesi in
via di convergenza), sono affrontati tenendo ferma l’Apertura. Milanovic giudica
infatti questa espressione di un ‘sentiero di progresso’ sulla base di una
letteratura datata al 2006 e di marca liberale (Pritchett, Hanson) e
dell’argomento utilitarista che il saldo complessivo del valore creato
(economico) è maggiore quando un lavoratore si sposta in un paese con una
composizione organica del capitale migliore anziché attraverso l’incremento
interno di redditi dei lavoratori nativi. Nel suo argomento, ripreso da
Pritchett, è espressamente posta in
competizione l’alternativa tra l’aumento dei “salari degli individui in patria”
con lo spostamento dei lavoratori esterni. La questione del conflitto
distributivo tra le classi è quindi posta.
L’immigrazione dunque è richiamata precisamente
dall’ineguaglianza tra nazioni, ovvero dal “premio di cittadinanza” che il
differenziale di composizione organica del capitale e delle istituzioni crea
nei paesi ricchi.
Questa letteratura dichiara in sostanza che il
sacrificio delle classi medie inferiori occidentali è più che compensato, in
una contabilità edonica implicita, dal vantaggio delle classi medie emergenti
che migrerebbero a servizio delle classi alte occidentali. Minimizzando la
redistribuzione, in altre parole, si avrebbe il maggiore saldo di felicità
(calcolato nella metrica del denaro erogato).
Ma allargare ulteriormente l’immigrazione, rende
necessario “la soppressione di alcuni diritti civili” (p.144) ed un sistema di
quote. E questo è necessario proprio per rendere accettabile il sacrificio per
le classi medie inferiori con le quali gli immigrati entrano in oggettiva
competizione.
Per Milanovic questa creazione di una società duale è
comunque meglio dell’unica alternativa possibile, che è la restrizione della
globalizzazione, ovvero la riduzione dell’Apertura da parte di quello che
chiama “il populismo nativista”.
Hans Werner Sinn
Piuttosto simile, anche se da altra linea politica è una
influente proposta di Hans Werner Sinn, che nel luglio del 2016 propone
di reagire ai rischi politici e sociali del troppo rapido arrivo di rifugiati,
chiudendo le frontiere, e di immigrati comunitari dai paesi periferici con una moratoria a tempo dei diritti civili.
Propone in sostanza una soluzione ‘spartana’: al nucleo degli ‘spartiati’ (che
sono i nativi tedeschi) affiancare una popolazione di ‘iloti’ in posizione
semiservile fino a che non abbiano conquistato il diritto di accesso al welfare
(pagandolo). Tenendo ferma la natura ferocemente competitiva determinata dalle
tre libertà di movimento (capitali, merci e servizi) europea, Sinn propone quindi
di depotenziare alla carta la quarta senza rimettere in questione l’equilibrio
delle altre.
Dani Rodrik
Un altro schema è proposto
in un importante paper
all’inizio del 2017 da Dani Rodrik nel quale viene affermato che in questi anni
è aumentata l’ineguaglianza sia nei paesi occidentali sia nei paesi periferici
(secondo il modello di Milanovic è aumentata la “frontiera della disuguaglianza”) colpendo i lavoratori addetti alla
produzione nelle economie sviluppate, come peraltro direbbe la teoria standard
del commercio (ma senza le ipocrite compensazioni che vi sono previste a
parole). Lo studioso di Harward introduce in questo contributo un’idea che può
somigliare: introdurre lavoratori temporanei, per un massimo di cinque anni,
con permessi di lavoro coperti da tutte le relative garanzie, identiche a
quelle degli autoctoni, ma senza gli altri diritti di cittadinanza (sono in
fondo cittadini stranieri in permesso temporaneo) ed accantonando in un fondo
di garanzia obbligatorio una parte del salario a rilascio differito e
condizionato al ritorno in patria.
Può assomigliare alle precedenti, ma questa misura sostituisce l’openess, non lo integra. Ovvero sostituisce
l’apertura dei commerci e l’outsorcing delle imprese nei paesi di provenienza
degli immigrati. Si tratta infatti contemporaneamente di chiudere la “porta sul
retro” che mina, con forme diffuse di concorrenza sleale sulle norme sul
lavoro, ambientali e distorce i mercati.
Dibattiti in
Italia
Partendo da questo impulso, e dall’osservazione del
dibattito nazionale, negli ultimi tempi ho tentato qualche lettura più
sistematica ed esplorativa che ha tratto occasione da un improvvido manifesto
che il Partito Democratico a guida renziana ha pubblicato sul sito a luglio
2017. In “Della
svalutazione dell’uomo”, quindi, si coglieva l’occasione di questo testo
per provare a focalizzare quella che è
una vera e propria trappola: da una parte l’Italia è destino di flussi di
immigrati cosiddetti ‘economici’ attratti da quella che l’Ocse chiama una
persistente domanda di forza lavoro a bassa qualifica e ancora più bassi salari
(i famosi “lavori che gli italiani non vogliono più fare”, a quel prezzo e condizioni); dall’altra è fonte di flussi
emigratori, parimenti ‘economici’, di maggiore qualifica. Il nostro mercato del
lavoro si sta quindi dividendo in un piccolo e dinamico settore a salari medi o
alti, per lo più orientato alla esportazione ed ai servizi connessi, ed un
vasto settore a salari talmente bassi che è necessario importare disperati in
grado di accettarli. Ciò mentre abbiamo una delle maggiori disoccupazioni
dell’occidente e le persone “a rischio di povertà ed esclusione sociale” sono
diventate 17 milioni (28% della popolazione) mentre quelle “in grave
deprivazione materiale” sono 7 milioni e i “poveri assoluti” sono quasi
raddoppiati durante gli anni di crisi, arrivando ad essere quasi 5 milioni. Su
60 milioni di abitanti abbiamo in definitiva nel 2017 solo 22 milioni di
occupati, di cui solo12 milioni a tempo pieno, ed una massa tra disoccupati e
scoraggiati di 6 milioni di persone. Le retribuzioni reali sono calate in media
tra il 2008 ed il 2017, a causa di questa condizione del mondo del lavoro, del
8% con punte del 12% in alcuni settori.
Questa condizione devastante è semplicemente il modo
attraverso il quale il mercato reagisce alle condizioni competitive in cui è
immerso, e da una prospettiva mainstream non ci si può fare nulla. Nella logica
di Boeri, ad esempio, se non ci fossero gli immigrati di fatto non si
potrebbero erogare i servizi, molte aziende andrebbero fuori mercato o
sarebbero costrette ad alzare i prezzi, si creerebbe in questo caso inflazione,
e questo danneggerebbe in ultimo la competitività dell'Italia entro il quadro
costrittivo dell'euro.
Ma resta un fatto che non è eludibile: andare avanti su questa strada determinerà le inevitabili conseguenze di una sempre maggiore polarizzazione, lotta tra poveri, incrudimento dei rapporti sociali, deriva verso destra del quadro politico, deflazione e indebolimento ulteriore del lavoro, in una spirale a scendere che danneggerà sempre di più il patrimonio sociale ed umano (e lavorativo) della nazione. Siamo, in altre parole, diretti dritti contro l'iceberg. E insieme a noi lo è tutto l’occidente.
Secondo passo: riconfigurazione del problema
Per prendere atto di questo tragico dilemma questo
bisogna inserire il tema dell’immigrazione/emigrazione come frammento di un
problema molto più ampio di ridefinizione del modello di sviluppo e geopolitico
di riassetto del posizionamento del paese nella competizione e cooperazione
internazionale. Bisogna venire a discutere:
-
con il progetto
europeo di integrazione subalterna delle periferie rispetto ad un ‘core’ che è
essenzialmente rappresentato dal network finanziario-industriale nordico e dai
suoi clientes connessi da una rete logistica e funzionale polarizzata,
-
di politiche
industriali e commerciali integrate a politiche di regolazione finanziaria,
-
della regolazione
dei flussi degli aspiranti lavoratori entro un mercato del lavoro visto
dinamicamente.
L’obiettivo generale dovrebbe essere di attivare gradualmente le condizioni di scarsità
invertite che attivino una dinamica ascendente esattamente opposta a quella in
essere: competizione tra capitali per acquisire lavoro, aumento della
produttività, cioè del saggio estrazione di valore, per via di investimenti,
spostamento del paese su segmenti di valore superiori.
Ma tutto questo, la quarta “libertà” liberale, evoca
irresistibilmente il tema difficile delle “frontiere” non appena se ne
tematizzino i costi. E questo attiva quelli che potremmo chiamare campi sentimentali molto diversi
nei diversi ascoltatori. Coloro che fanno parte della generazione dei
“millennials” tende a vedere l’attraversamento delle frontiere come
un’ineludibile liberazione, in particolare quando appartiene ad una qualche
classe media. Molti altri ricordano, ed associano, a queste le tragedie del
novecento ed il richiamo alla patria come sangue e terra.
Quel che va messo al centro dell’attenzione, prima dei
campi sentimentali offesi, è quindi che lo sforzo di base dell’intero progetto
europeo, come parte del progetto occidentale di dominio del mondo, a partire
dalla revoca del compromesso fordista che ha preso gli anni ottanta del
novecento, è di disciplinare la pretesa del mondo del lavoro di partecipare
alla distribuzione delle risorse prodotte attraverso l’inflazione della sua
base (si può leggere in tal senso il paper di Wolfgang Streeck, “L’ascesa
dello stato di consolidamento europeo”. In questo senso l’ideale
eliminazione (ovvero tendenziale e progressiva) di qualsiasi regola ai
movimenti di capitale, merci e lavoratori ha creato letteralmente l’attuale insostenibile
condizione del mondo.
In altre parole, se nei settori in cui le produzioni
sono rivolte a mercati globali (dunque in cui le merci, ovunque prodotte,
possono essere vendute su ogni mercato alle stesse condizioni), si riesce a
garantire la piena mobilità dei fattori produttivi capitale e conoscenza, si
ottiene che questi possano andare sistematicamente a rintracciare quelle
condizioni locali di relativa abbondanza del fattore mancante (lavoro ed
ambiente) in modo che il suo saggio di sfruttamento sia massimo. Ciò a fronte
del ricatto di non collocarsi lì ma andare dal secondo migliore e via dicendo.
L’immigrazione, dunque la resa in condizione mobile anche del
lavoro, adempie la stessa funzione; a
questo punto il capitale può generare ovunque le desiderate condizioni di
inflazione (e quindi debolezza) del fattore mancante.
Dunque senza riuscire a toccare tutti e quattro gli elementi è
difficile produrre una soluzione. Ovvero sono tutte e quattro le “libertà” da
rimettere in questione. O meglio è il concetto stesso di libertà
da mettere in questione: sottraendolo all'anemica e astratta definizione
liberale, come ad una logica semplicemente funzionale.
Qui la questione, cioè, non è affatto di chiudere frontiere, ma di garantire l’equilibrio dei mercati senza che questo viva della
sistematica svalutazione di un fattore produttivo. Ed in particolare del
lavoro, che non è solo un fattore produttivo ma in modo inseparabile (Polanyi)
è vita.
Terzo passo: lo schema delle due “economie politiche”
L’economia della
migrazione è un tutto interconnesso
che partecipa e definisce gli equilibri generali del mondo, ma sul piano
analitico si potrebbe distinguere tra due economie politiche:
-
da una parte l'economia politica della immigrazione è
messa in moto dai nostri settori produttivi (ma anche la piccola e media
borghesia, con la sua domanda di servizi di cura a basso costo), che creano una
costante domanda di “forza lavoro” debole e disciplinata che riadatti verso il
basso la struttura dei costi, e la remunerano a dei livelli che sono bassi
rispetto al contesto locale, ma alti rispetto a quello di provenienza; creando
le condizioni per una trasmissione di surplus che alimenta indirettamente (e
forse anche direttamente) la seconda. Ciò induce quindi nella prima, ovvero in
una economia lontana dal pieno impiego (con buona pace del ‘tasso naturale di
disoccupazione’ inventato da Milton Friedman), effetti di aggiustamento
regressivi, abbassamento degli investimenti, creazione di settori a bassi
salari altamente inefficienti, freno all'innovazione.
-
Dall’altra l'economia politica dell’emigrazione determina,
sulla base di un flusso derivante dal surplus sopra ricordato (per via di
anticipazione o per via di trasferimento), un’intera catena di agenti con
caratteristiche relazioni economiche e politico-sociali tra di essi. Ovvero la
creazione di lunghi network che si diramano dalle coste nord verso l'Africa
profonda, o il medio oriente, specializzati nell'estrazione di valore dai
migranti stessi e indirettamente dagli Stati di destinazione. Alla fine,
questo che può apparire come un effetto, finisce per divenire esso stesso una
delle cause del fenomeno. Come lo schiavismo nel settecento era alimentato da
un'autentica destrutturazione della società locale, causata dall'esistenza di
una domanda di uomini. I centri specializzati nel commercio sulla costa erano
il terminale, come oggi, di una capillare rete di agenti di commercio, ai primi
anelli occidentali e poi africani, che acquistava uomini da chiunque. L'effetto
fu che il padre vendeva il figlio, il re conduceva guerre di saccheggio in
cerca di uomini e non più di terra o rispetto. Gli effetti furono immani, a
quanto sembra lo stiamo riguardando.
Si sta creando, insomma, e spinta da molteplici
fattori come le ineguaglianze, le tecnologie di comunicazione, le guerre ed i cambiamenti
climatici, lo stesso sviluppo ineguale e subalterno che determina
mercatizzazione e sradicamento, una
‘economia della migrazione’ che corrompe in basso, gestisce in mezzo e sfrutta
in alto.
D’altra parte è vero che la lotta di classe ha anche a
che fare con la lotta tra i poveri, perché questa è uno strumento nelle mani
del capitale. Ma riconoscere questo non
può neppure voler dire negare che la creazione e conservazione di un settore a
bassi salari impedisce di fatto al movimento complessivo del lavoro di
riequilibrare i rapporti di forza. La concentrazione complessiva delle
ricchezze che si osserva è l'effetto congiunto di tutti questi funzionamenti,
non cade dal cielo della tecnologia. O meglio, questa è inscritta dentro questi funzionamenti sociali.
Tra le cose c'è, in diverse parole, una meccanica che
le unisce: per riequilibrare la
ricchezza occorre che i settori a maggiore produttività trascinino verso l'alto
quelli a minore (costringendoli a investimenti e qualificazione), portando tutto il sistema economico verso
livelli più alti di equilibrio, o meglio verso una dinamica ascendente. Ma
come detto l'intero sistema è disegnato invece secondo una dinamica
discendente, deflazionaria. Ed uno dei più importanti meccanismi che la
determina è la costante sostituzione dei lavoratori con strati dal basso sempre
più deboli che ottiene il duplice effetto di consolidare i profitti e il consenso.
L’economia
politica dell’immigrazione
Si può provare a dire qualcosa di più specifico sulla
economia politica dell’immigrazione utilizzando alcune inchieste di campo ed il
libro di Paul Collier, esperto di economia africana, “Exodus”.
Nel testo di questi è evidenziato che i fenomeni più rilevanti sono quelli
sociali, e non quelli economici, rilevanti soprattutto localmente. In ogni caso
esistono, come nel caso del commercio internazionale, dei vincitori e dei
vinti, i primi sono i datori di lavoro (che, attenzione, non sono solo gli
industriali, ma anche i borghesi che utilizzano il lavoro delle colf o dei fac
totum) e in qualche misura gli stessi immigrati (nella misura in cui la mera
quantità di denaro sia un valore in sé) i secondi certamente i ceti deboli con
i quali entrano in oggettiva competizione sia per i salari, sia per le case,
sia per il welfare.
Ma emigrare costa e richiede organizzazioni, sia
durante il viaggio sia, e soprattutto, una volta giunti a destinazione.
Rivestono quindi importanza cruciale e strategica le “diaspore”. In sostanza la
presenza di una comunità locale strettamente coesa di concittadini,
culturalmente compatibili, determina un enorme abbattimento dei costi di
emigrazione sopportati, ma rischia anche di ostacolare l’integrazione. Le
diaspore, quindi, sono decisive nel far accelerare il fenomeno e
nell’allontanare il possibile punto di equilibrio e stabilizzazione. Con le
parole di Collier: “il tasso migratorio è determinato dall’ampiezza del divario
di reddito, dal livello di reddito nei paesi di origine e dalle dimensioni
della diaspora” (p.32).
Il flusso dell’immigrazione dipende dal divario di
reddito e dallo stock di migranti precedente che non si è integrato. In
particolare la dimensione dello stock non integrato (ovvero della ‘diaspora’)
dipende dalla trasmissione interpersonale della cultura e degli obblighi.
Chiaramente il perimetro delle diaspore è fluido e continuamente attraversato
da persone che arrivano e da persone che, integrandosi, ne escono.
Ci sono tre semplici conclusioni:
1-
La migrazione
dipende dalle dimensioni della diaspora (che, in sostanza, la attrae),
2-
La migrazione
alimenta la diaspora, mentre l’integrazione la diminuisce,
3-
L’indice di
integrazione (percentuale di chi esce dalla diaspora ogni anno) dipende dalla
dimensione, quanto più grande è la diaspora quanto più piccolo è l’indice.
Come sostiene anche Robert Putnam (che non è un autore
conservatore), inoltre, l’immigrazione riduce il capitale sociale della
popolazione autoctona, la mutua considerazione e la propensione a tenere conto
dell’equità. Dunque in effetti, per una serie di ragioni tecniche e di
psicologia sociale, più sale la diversità, più peggiora l’erogazione dei beni
pubblici (tesi di fondo del famoso libro di Alesina e Glaeser, citato a pag.
79). E ciò tanto più quanto più è grande la distanza culturale.
Contrariamente alla normale intuizione dunque: “dato
un certo divario di reddito tra i paesi di origine e il paese ospitante, più il
paese d’origine è culturalmente distante dal paese ospitante, più alto sarà il tasso
migratorio nel tempo” (p.85), quindi anche più alti i costi sociali connessi
alla perdita di fiducia.
Tra gli effetti che possono crearsi crescentemente ci
sono quelli sui salari dei lavoratori. Si, perché ai livelli più bassi
l’effetto dell’accresciuta concorrenza da parte di forza lavoro debole e
ricattabile è di un abbassamento del reddito. Mentre ai livelli dei lavoratori
più protetti e più forti l’effetto registrato dagli studi è opposto.
Anche da questo punto di vista c’è una chiara
divisione tra chi vince e chi perde. Colpisce che la sinistra abbia scelto
di fatto di sentire solo gli argomenti di chi in effetti vince; di chi si mette
la veste del giusto, e disapprova gli sporchi ed ineleganti che si sentono
minacciati, ma nelle sue case eleganti e dai piani direzionali degli uffici non
solo non è minacciato, ma è proprio favorito. Di chi trova servizi a prezzi
minori e per una varietà di motivi su cui il libro si trattiene guadagna anche
di più, il suo reddito sale. Non colpisce, invece, che questa sinistra che
radicaleggia solo sui temi innocui o su quelli che avvantaggiano i già forti
sia votata massicciamente nei quartieri bene centrali, e prenda consensi da
prefisso telefonico in quelli popolari. Non è questione di incomprensione, è
che proprio si capisce bene.
A margine dell’aspro conflitto avviato dallo scontro
tra il governo e le Ong che compivano il lavoro di recuperare in mare i
migranti e depositarli in consegna nei centri di accoglienza italiani, ad
agosto in un post “a
margine” ribadivo che il vasto programma che si rende necessario per
affrontare il nodo posto dalle ‘economie politiche dell’immigrazione’ implica
la messa in discussione e il ribilanciamento di tutte e quattro le ‘libertà’
dell’Unione Europea, senza fare il quale resta solo la meccanica, incorporata
nella logica del capitale e non voluta o progettata da alcuno, della creazione
costante di ‘eserciti di riserva’ pronti a prendere il posto dei renitenti
locali (ovvero di chi avanzasse l’assurda pretesa di trarre dal suo lavoro
quanto basta ad una vita sicura e dignitosa). Senza questo programma bisogna
essere sensibili al dolore, ovunque si manifesta, senza dare patenti di civiltà
dal sicuro di case confortevoli. Non si può, io credo, guardare a questo
fenomeno se non in questa ampiezza. Noi, insieme, dobbiamo riprendere nelle
nostre mani il diritto, ed il dovere, di garantire un equilibrio che non sia
trovato a spese della sistematica svalutazione delle vite e del lavoro.
L’incastro di queste due “economie politiche” sta
devastando il mondo e sta facendo saltare ogni possibile patto sociale, e non
per ragioni accidentali: si tratta
di un meccanismo strutturale intrinseco alla dinamica necessaria del capitale.
Tito Boeri e lo
spiazzamento
Solo Tito Boeri, con molti e capziosi argomenti ha
provato a non essere in accordo con i teoremi fondamentali della sua
disciplina, sostenendo contro ogni evidenza che non ci sia spiazzamento dei
lavoratori (appoggiandosi su un solo studio di caso e molto particolare), ma
come abbiamo visto in “Tito
Boeri e l’immigrazione: l’assenza di spiazzamento”, lo
ha fatto vanamente.
Il problema è dunque molto più grave, ed è giustamente carico di emozione,
dato che, con l’evidenza dei suoi insopportabili costi umani, interroga
profondamente l’intera nostra civiltà. Non si può risolvere né alzando muri
armati mentre si continua a sovvenzionare la nostra agricoltura e si impedisce
alla parte del mondo, che di questo vive, di proteggere la sua (come più volte
lo stesso Stiglitz ha denunciato), oppure mentre gli si impedisce di proteggere
la propria industria di trasformazione e li si inonda di prodotti industriali a
basso prezzo, spesso prodotti con coloro che gli vengono rubati, una persona
alla volta, e trasformati in manodopera semischiavizzata, sia in occidente sia
nelle sue filiali in franchising. Oppure mentre si pagano fazioni ed eserciti
per continuare a fare l'antico lavoro di garantirsi le materie prime.
Ma non si può
risolvere neppure aggiungendo al torto sanguinante di sfruttare
il mondo, quello di lasciare alle persone sole ed inermi la libertà di venire a fare
i servi da noi. Ovvero aggiungendo
allo sfruttamento a casa loro lo sfruttamento a casa nostra.
L’economia politica dell’emigrazione
Ma guardiamo anche
l’altra ‘economia politica’, quella della ‘emigrazione’. Per iniziare bisogna
liberarsi da una presunzione etnocentrica e contemporaneamente sviluppista,
quella che le economie ‘povere’ siano una sorta di vuoto, di mancanza. Un vuoto
da riempire più rapidamente possibile. Tutti gli economisti, con una sorta di
cecità educata vedono in questo modo il problema dello sviluppo. A loro pare
evidente: il più è meglio del meno. Le società locali debolmente monetizzate, o
le poche ancora sostanzialmente demonetizzate (più o meno 600 milioni di
persone nel mondo, secondo le stime di Milanovic), ovvero quelle che ci
appaiono impegnate in quella che chiamiamo ‘economia di sussistenza’, immobile,
non sono vuote. In “il
ruolo del credito” protestavo che invece sono piene di organizzazione
sociale e di diverse forme di creazione dell’umano e di identificazione della
persona e della relazione individuo-comunità. Quello che si ottiene attraverso
l’inserimento in questo tipo di società “povera” dei beni delle società
“ricche” (con il loro particolare e sofisticato glamour, sul quale l’ultimo
Pasolini era divenuto così attento) è una sorta
di “corruzione”. Di disgregazione delle strutture della personalità locali e di
estrazione e reinserimento entro strutture relazionali tipiche del moderno. Su
questo tema è stata spesa una lunga doppia discussione mossa dal post “lo
scontro delle secolarizzazioni” con interpreti di tradizione marxista da una parte, e conservatrice, dall’altra.
Propongo di prendere
in considerazione invece una prospettiva pluralista, ovvero di cercare di
sospendere ogni giudizio morale etnocentrico e riconoscere che questa
operazione dello sviluppo, ed anche della estrazione e reinserimento di
persone, ripensate come forza-lavoro e dunque reificate, in diverse società
nelle quali domina un modo di produzione imperniato su diverse e più intense
composizioni organiche del capitale (quella operazione che secondo il Pritchett
citato da Milanovic comporta la quadriplicazione della produttività e quindi
della ricchezza), può essere considerato interamente un guadagno solo dalla prospettiva occidentale, di
chi, come me, è nato ed è stato socializzato in una struttura in cui la forza
simbolica del denaro, della moneta, è onnipresente e incorpora potentissimi
segni morali. Solo, cioè, da una prospettiva che vede l’occidente come unica
‘forma di vita’ possibile ed adeguata allo stato della tecnica e dello sviluppo
della modernità (termine nel quale è incorporato, nella mente occidentale, un
segno temporale ed una teleologia completamente inconsapevole e per questo
potentissima) di chi pensa che l’unico stile di vita idoneo all’umano è il
nostro.
Svolge una particolare
funzione in questo senso l’intreccio tra microcredito ed emigrazione.
Quel che si vede è un
fenomeno per il quale la finanza (etica) presta a famiglie con membri
all’estero, considerando questi ultimi come fattore di merito,
canalizzando risorse economiche di fatto su consumi distintivi (ovvero su
simboli di successo e di modernità), anziché sullo sviluppo locale come
risulterebbe dai relativi statuti. Infatti in un sistema locale de-monetizzato,
organizzato da diversi principi sociali, prestare moneta è un grosso rischio
sia per il prenditore, sia per l’erogatore: mancano le condizioni per avviare
iniziative “imprenditoriali” di successo. Le eventuali micro-imprese create con
il credito si inseriscono in un contesto non capitalista, nel quale il
controvalore per ogni prestazione tende ad essere erogato in forma diversa dal
denaro. A ben vedere il denaro è più facile reperirlo dove è
abbondante: in occidente. E quindi è logico sostenere il debito, servirlo,
con le rimesse dell’emigrazione.
Il debito manifesta in
questo modo tutta la sua ambiguità: è
insieme una leva ed una trappola.
La parte ‘leva’ induce
una trasformazione sociale che siamo abituati a chiamare ‘crescita’, ma la
parte ‘trappola’, dalla prima non separabile in quanto intrinseca alla logica
di autoaccrescimento del capitale, interviene a rompere i nessi interni di una
società diversamente organizzata e la disgrega, determinando forme di
dipendenza e di reificazione.
Inoltre alimenta se stesso,
come ogni bolla finanziaria cresce nello spazio che trova. In questo caso è lo
spazio (ovvero la distanza) intercorrente tra le nostre società e quelle di
partenza. Uno spazio molto grande, nel quale potrà crescere a lungo.
Estendendo questa
osservazione in “L’estrazione
di risorse” l’economia politica dell’emigrazione è stata connessa con la
penetrazione delle aziende multinazionali occidentali (ovvero sviluppati) che, insieme
allo stesso aiuto finanziario pubblico, determina ed è preordinata all’estrazione
delle ricchezze ‘reali’ (naturali, umane e delle merci materiali). L’ultimo
libro del geografo, sociologo ed economista Saskia Sassen, “Espulsioni”,
mostra la logica interna di questo meccanismo.
Per comprenderlo giova
riferirsi alla cosiddetta “teoria della dipendenza”
secondo la quale non corrisponde al vero che tutte le regioni attraversino
necessariamente fasi simili di sviluppo e che queste possono essere favorite
con iniezioni di capitale in prestito per investimenti infrastrutturali,
tecnologia e soprattutto apertura incondizionata al mercato mondiale. Esponenti
sono stati Prebisch e Singer, poi Paul Baran, Paul Sweezy e Gunder Frank, ma
anche Samir Amin, e Immanuel Wallerstein e Giovanni Arrighi.
L’idea centrale è che
i limiti di validità della teoria
dei vantaggi comparati (David Ricardo) sono molto ampi e in genere si
attuano termini di scambio che risentono della struttura dei rapporti di forza,
e dunque sono a svantaggio dei paesi che non dispongono di una base industriale
capace di competere, ne consegue che i prezzi delle materie dei deboli calano
rispetto a quelle dei forti. Secondo la proposta di Ha-Joon Chang, dunque, è
necessario un certo grado di protezione, e di tempo, per disegnare un percorso
di crescita autonomo e specifico alle necessità del paese, che ribilanci i
rapporti di forza, con la creazione di filiere produttive capaci di
autosostenersi. Non rispettare questa necessità porta il continuo drenaggio del
surplus da parte dei paesi ricchi, che sono tali perché sono dominanti, e
lo sono in ragione di uno specifico e unico mix di sistemi giuridici nazionali
ed internazionali, istituzioni, strutture di potenza e potenziali umani. Di
questo insieme fanno parte i puri e semplici mezzi di violenza (che per lo più
sono adeguatamente efficaci senza essere usati).
In altre parole i
paesi oggi ricchi possono essere anche stati non sviluppati (ovvero non
industrializzati), in passato ma non sono mai stati nelle condizioni reali
degli attuali paesi “sottosviluppati” sotto l’unico aspetto decisivo: non sono mai stati in soggezione nei
termini in cui lo sono oggi le nazioni africane, e molte altre. Di qui
la nozione di Arrighi di “sistema-mondo” come successione di sistemi di
dominazione e di egemonia.
Le politiche di FMI e
Banca Mondiale, anche se in modo nascosto, assicurano che questo risultato non
sia sfidato. Anche lo sviluppo di una classe media e di una élite dedita al lusso,
senza le strutture economiche in grado di sostenerne i consumi, diventa un
potente vettore di estrazione del reddito nazionale verso i paesi
industrializzati, come lo è orientare lo sviluppo all’export (di prodotti di
base o intermedi a basso prezzo) che accelera il processo.
In sintesi il modello
estrattivo che, per sua logica propria, i centri sviluppati (e per questo
dominanti) esercitano sulle periferie deboli (e per questo “sottosviluppate”)
si impernia dunque su una sottrazione di:
-
Risorse finanziarie (attraverso in particolare la
meccanica del debito, e i suoi agenti che sono in prima battuta i grandi attori
privati del credito e in seconda, ma decisiva, gli organismi posti a guardia
della liquidità internazionale);
-
Risorse reali (ovvero materie prime e prodotti
intermedi i cui prezzi sono determinati nel quadro dei rapporti di forza
complessivi e risultano strutturalmente dominati dai processi di produzione
industriali cui servono);
-
Risorse umane (cioè persone fisiche viventi in età di
produrre lavoro che come sottolinea anche Stiglitz,
producono con la loro uscita lo “svuotamento” della capacità locale).
Una possibile agenda per
riequilibrare questo effetto passa allora: per l’erogazione di fondi per lo
sviluppo e l’infrastrutturazione (che dovrebbe essere condotta con modalità del
tutto diverse dall’attuale, a fondo perduto o con interessi zero e restituzione
legata a parametri di crescita); per misure di stabilizzazione macroeconomica
in caso di crisi di liquidità (misure che dovrebbero essere automatiche e non
condizionate, per non ripetere il “meccanismo Troika”); il rigetto dell’attuale
impostazione rivolta a convertire le economie locali in direzione esclusiva
dell’esportazione (che corrisponde di fatto al loro inserimento subalterno
nelle catene logistiche ‘occidentali’, e nell’aumento radicale della
dipendenza); il riconoscimento e sostegno del diritto da parte delle autorità
locali di proteggere le proprie industrie e capacità produttive; l’eliminazione
di ogni clausola di regolazione delle controversie tra imprese multinazionali e
Stati che consentono a queste di non sottoporsi interamente alla regolazione
del luogo in cui operano; la definizione a livello internazionale di criteri di
“commercio equo”, proteggendo il diritto di tutti di limitare quello che non
sia tale (condizioni lavorative, diritti associativi e di sciopero, protezione
del consumatore e dell’ambiente).
L’Africa diventa solo
un caso limite di un processo di estensione della dipendenza e del saccheggio
delle risorse (finanziarie, fisiche e umane) e della continua riproduzione,
alla scala diversa, del meccanismo gerarchico “città-campagna” che interessa
anche l’Europa stessa (con questa volta l’Italia, ed i paesi periferici tutti,
in posizione di “campagna”) e il mondo intero (con il conflitto tra le “città”
nella definizione delle proprie “campagne”).
Ovvero diventerebbe il
tema di quella che Amin chiama “la
specializzazione internazionale ineguale” (“Lo
Sviluppo ineguale”, p.248). Secondo la definizione dello studioso
egiziano “l’economia sottosviluppata è costituita da settori e da imprese
giustapposte, scarsamente integrate tra di loro ma fortemente integrate,
separatamente l’una dall’altra, in complessi il cui centro di gravità è situato
nei centri capitalistici”, in conseguenza “non esiste una vera nazione nel
senso economico del termine, un mercato interno integrato” (p.253).
Conclusioni
La questione delle
migrazioni solleva molteplici dimensioni e muove profondamente i nostri
sentimenti e valori, ci appare centrale ed urgente. La posizione che qui
propongo è che in effetti lo è.
Si tratta di un luogo
dal quale si possono osservare tutti i principali dilemmi della modernità e
vedere all’opera le tecniche di controllo e governo.
Parlando delle condizioni materiali: anche se il
fenomeno è disuniforme quanto ad impatto quantitativo (ma tende, per effetto
del meccanismo delle ‘diaspore’, a concentrarsi, risultando differentemente
percepito per i diversi gruppi sociali ed areali), la dinamica delle
emigrazioni ed immigrazioni determina una complessiva ‘economia politica’ che è
caratterizzata da importanti fenomeni di corruzione degli assetti sociali e
culturali, di gestione come oggetti d’uso dei corpi estratti, e di
potenziamento dello sfruttamento a causa dei normali meccanismi di creazione
del valore di scambio. Come abbiamo scritto per comprenderlo bisogna però fare
prima una mossa: smettere di vedere le ‘economie povere’ come un vuoto. Una
dimensione eguale alla nostra, ma con meno denaro. Se si inquadra, facendo uso
di cecità educata da economisti, in questo modo l’emigrazione e la stessa
trasformazione dell’ambiente di provenienza dei flussi umani immigrati alla
fine è solo questione di razionalizzazione e sviluppo.
Abbiamo proposto
quindi una diversa ipotesi interpretativa: che, cioè, sia più utile inquadrare
il fenomeno come un progressivo allargamento dello spazio dominato e
controllato dal mercato, e per esso dalla finanza, nell’intreccio di due
“economie politiche” reciprocamente rimandantesi.
La prima, l’“economia politica
dell’immigrazione”, la nostra, che
fa scaturire una insaziabile e crescente spinta estrattiva e insieme di
trasformazione (spingendo l’uomo a ripensarsi come ‘forza lavoro’, adattandosi
alla relativa disciplina) che via via incorpora ‘risorse’ (umane) per fornire
risposta ad una domanda di lavoro debole e disciplinato, insaziabilmente
prodotta dall’attuale economia interconnessa e finanziarizzata nella
quale tutti sono sempre in concorrenza con tutti sotto il pungolo
del capitale mobile e continuamente valorizzante. È essenziale in questo senso
che il meccanismo del recupero di margini di valorizzazione, attraverso la
riduzione costante dei costi (in primis del costo più ‘inutile’, quello del
lavoro), sia sempre in movimento; sia sempre un poco più veloce del paese
vicino. Quindi è essenziale che il lavoro sia un poco più debole, un poco più
disciplinato, giorno dopo giorno, anche a costo di espellere e sostituire chi
non abbia la possibilità materiale di piegarsi, o non voglia. Il ricatto
davanti al quale ci troviamo tutti è semplicemente che l’unica alternativa, in
condizione di piena mobilità dei capitali, è che ad andarsene siano invece i
processi produttivi. Dunque non resta che importare forza lavoro sempre più
debole, per rendere debole quella che c’è, o lasciare tutti a casa. L’effetto
di questa dinamica, trascinata dalla valorizzazione differenziale nella metrica
della finanza che mette in contatto e costringe alla competizione il mondo
intero, è che è nelle aree del lavoro debole che si concentra, in diretto
contatto con coloro i quali sono sfidati e pungolati a ‘maggiore efficienza’
(che normalmente significa minori compensi a parità di lavoro produttivo),
l’attrazione di ‘forza lavoro’ sostitutiva. Il processo è strutturalmente
simile per i lavoratori-raccoglitori dei pomodori nelle piane pugliesi, o
campane, per i lavoratori-manifatturieri nei cantieri navali o nelle fabbriche
e fabbrichette in subappalto disseminati nelle nostre periferie industriali, per
i lavoratori-domestici che sono nelle nostre case e per i
lavoratori-professional che sono messi in competizione con le
piattaforme Ha dunque ragione chi dice che il problema è nel rapporto di forza
con il capitale, ma nello stesso momento ha torto: perché nel dirlo non si fa
carico davvero della materialità del problema nei luoghi in cui si determina.
Questa dinamica di
attrazione differenziale, ulteriormente accentuata dal meccanismo stesso
dell’attrazione (influenzato dal percorso, come dicono gli economisti, e quindi
dalla preesistenza di reti di relazione, strutture sociali di accoglienza,
“diaspore”) che tende ad accrescere la presenza dove è già maggiore, esercita
obiettivamente una pressione al disciplinamento che è letto come oggettivamente
violento (anche se la fonte non è nei corpi dei concorrenti per il lavoro
debole ma in ciò che lo rende tale). Nessuno può riaprire una relazione
sentimentale con le classi popolari se non comprende questa dinamica, se si
limita intellettualisticamente a qualificare come brutti, sporchi e cattivi, e
razzisti, coloro che se ne sentono vittime.
Ma questa “economia
politica” si affianca a quella “dell’emigrazione”,
la “ricostruzione/riordinamento” si affianca alla “distruzione/spopolamento”.
Perché le persone che sono ‘aspirate’ in occidente dalla domanda di lavoro
debole, alimentano anche il trasferimento di poveri surplus monetari che
insieme alla trasformazione dei pochi settori produttivi in industria da
esportazione estranea al tessuto locale e dipendente dai capitali esteri,
attraggono e corrompono, disgregandole, aree ancora relativamente esterne al
circuito della valorizzazione, contribuendo a “monetizzarle”, ovvero a
ricondurle entro il circuito astratto e impersonale del capitale e della sua
logica. In qualche misura questo paradosso è stato oggetto di analisi della
tradizione marxista sin dal suo avvio, e delle esitazioni dei suoi padri.
Questo processo va
infatti inteso come “razionalizzazione”, ed alfine giudicato una sia pure dura
necessità (come inclinava a pensare il vecchio Engels)? Oppure un non
necessario sacrificio, un calice che potrebbe anche passare, se si avesse il
tempo di prendere il proprio percorso (come inclinava a pensare il vecchio
Marx, ma non il giovane)? Ha ragione lo zapatista e neo-anarchico Marcos o il
marxista Negri?
In altre parole,
questa ‘economia’ che, come scritto, corrompe
in basso, gestisce in mezzo e sfrutta in alto è senza alternative,
perché in fondo coerente con la direzione della Storia? O è solo coerente con
quelli che chiamavo i “campi sentimentali” dei millennials (e dei loro
profeti), che individualisticamente vedono la mobilità attraverso le frontiere
come liberazione?
Abbiamo letto di
alcune proposte di soluzione alle conseguenze non volute di questa situazione:
-
La soluzione “spartana” di Hans Werner
Sinn e, in forma poco diversa, di Branko Milanovic,
-
La soluzione di “apertura temperata” di
Dani Rodrik.
Credo che la seconda
rappresenti un passo avanti verso un ragionamento che assuma i termini principali
del problema, che non sono le migrazioni, ma le “libertà”.
Quel che bisognerebbe
provare è di impegnare un grande campo di battaglia, se si vuole ottenere
qualche risultato:
·
Regolare il commercio in modo che dal “free trade”, si
passi al “fair trade”, come propone Dani Rodrik in questo altro articolo, nel quale chiarisce che il commercio internazionale non è un rapporto di
mercato, ma una ‘istituzione globale’ che riconfigura i rapporti complessivi
accordi incorporati negli assetti istituzionali e sociali.
·
Ostacolare la mobilità dei capitali, per ridurre
brutalità e complessità delle catene produttive transnazionali che aspirano
sempre più lavoro subalterno come effetto indiretto della loro costitutiva
spinta agli “iperprofitti” (cioè a profitti a qualsiasi costo e senza freni,
nel tempo corto o istantaneo, senza sostenibilità, della finanza e dei servizi
ad essa funzionali) e della logica organizzativa che questa determina, inducendo
una continua espansione del campo di ciò che può essere “finanziarizzato”, che
di fatto smembrano la realtà sociale, promuovendo una estrema disuguaglianza.
·
Revocare le politiche predatorie ed imperiali, che supportano sistematicamente l’insediamento di catene lunghe di
sfruttamento e la valorizzazione del capitale mobile.
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