Di recente Michele Prospero,
filosofo fortemente impegnato nella critica di leaderismo e populismo, in
particolare negli anni che vanno dall’insorgere di Berlusconi a Renzi, passando
per il M5S, ha scritto un interessante articolo su Il Manifesto (qui
il testo) nel quale segnala la crisi del liberismo anglosassone ed anche,
contemporaneamente sia del “liberismo a contaminazione populista”, di marca
berlusconiana, sia del “neo-illuminismo europeo”, di marca prodiana. Distingue
quindi in queste crisi l’emergere di un vuoto nel quale sono premiate quelle
che chiama “chiusure, protezioni e illusioni comunitarie”.
"La folla" |
L’articolo si muove chiaramente nell’orbita di LeU,
che ne è il soggetto, il “progetto” cui fa riferimento nei primi righi è
questo:
Che il voto non abbia premiato la sinistra è così
evidente che non vale insistervi oltre. Invece di accanirsi in una metafisica
della sconfitta o di trincerarsi in un silenzio che dura ormai da un mese, i
dirigenti dovrebbero chiarire cosa fare del modesto bottino elettorale comunque
ricevuto. Non ci vuole una disperata opera di contrizione per spiegare perché
dal 6% raggiunto alcuni mesi prima alle regionali in Sicilia si è verificata
alle politiche una perdita di almeno due punti che ha indebolito di molto il
progetto.
Nel seguito immediato l’autore nomina le cause che
hanno sottratto “quei decimali di consenso” che avrebbero ridotto la sconfitta
elettorale. Questi sono:
gli errori di comunicazione (la dichiarazione di
disponibilità di Grasso, a tre giorni dal voto, a un governo di scopo con Renzi
e Berlusconi), l’arroganza nella composizione delle liste (in Umbria, nella
notte prima del deposito delle candidature, da Roma è venuto l’ordine di
cancellare la lista che si apriva con il nome di uno tra i più autorevoli
costituzionalisti, solo per soddisfare equilibri astrusi), l’insensibilità
politico-culturale (di un appello promosso da Asor Rosa e firmato da 150
docenti universitari non si è ritenuto di fare nulla), il rifiuto in origine di
dotarsi di un nome e di un simbolo che risultassero più coerenti con
l’ambizione di rappresentare la sinistra rimasta nel bosco.
Di qui nasce lo scopo dell’articolo: invitare a non
smobilitare LeU, pur nel quadro di quelli che chiama “processi obiettivi” che
trascendono la possibilità effettiva di incidere nella crisi. Ci sarebbe “più
di un milione di persone che non rinuncia al voto identitario”.
Quanto detto fino ad ora è dunque che un progetto sconfitto,
strutturalmente marginale (che obiettivamente non può incidere nelle onde della
crisi) sul piano dell’effettiva capacità di incidere nelle dinamiche politiche,
e caratterizzato da errori inerenti gli uomini che lo hanno portato avanti
(errori in sostanza riconducibili all’autoreferenza ed al politicismo),
tuttavia va proseguito.
Perché?
Lo schema di Prospero è geometrico: da una parte l’individualismo estremista,
rappresentato dal liberismo i cui effetti ultimi hanno definito la crisi
sociale in corso (crisi di perdita di coesione, prima ancora che economica),
dall’altra il rifugio nella chiusura
protettiva ma ingannevole di comunità nazionali (viene citato “italiani,
rosario e ruspa”). Entrambe sono ricondotte alla ‘destra’ che passa con
disinvoltura dal liberismo in crisi di risultati al protezionismo di Trump.
La crisi del liberismo è il punto di partenza comune
alle democrazie d’occidente. La destra passa con disinvoltura dal mito
liberista reaganiano e tatcheriano alle invocazioni di protezionismo di Trump,
che conquista le periferie sollecitando primordiali spinte comunitaristiche.
Il liberismo è da Prospero quindi inquadrato come
destra, anche quando la “contaminazione” berlusconiana lo rendeva poco riconoscibile
nei suoi caratteri idealtipici, mentre la sinistra, tutta, è inquadrata in
altra rubrica: ovvero in quella progressista. L’analisi del caso italiano, sul
quale ha speso diversi libri (come ad esempio questo),
è infatti duale:
ll dato di sistema, anche in Italia, è segnato dalla
crisi degli assi politico-sociali-culturali della cosiddetta seconda
repubblica. Essi ruotavano attorno alla polarità
tra un liberismo a contaminazione populista e a guida berlusconiana e una modernizzazione dolce guidata dalla
coalizione all’insegna di un neo-illuminismo europeo a conduzione prodiana.
La coppia è, insomma, “destra/liberismo (e populismo)” vs “sinistra/progressismo (ed europeismo)”.
Ed il progressismo è identificato come illuminista e
modernizzante.
Ci sono dunque due
crisi contemporanee: quella del liberismo e quella del “progetto europeo della
concorrenza dei mercati”. Sembra di capire che il progetto europeo, imperniato
sulla concorrenza tra i mercati in primis nazionali (anche quando si vogliono
dissolvere a parole), non abbia quindi a che fare con il “liberismo”. A ben
vedere è necessario che sia così nell’economia del discorso, altrimenti la
distinzione tra “destra” e “sinistra” diventerebbe, nei termini posti,
difficile. Come diventerebbe difficile associare così strettamente l’olio del
liberismo e l’acqua del comunitarismo. Per dire Friedrich Hayek in “Perché non sono un conservatore” definisce
nucleo della posizione liberale la fiducia nella libertà individuale e la simmetrica
sfiducia nei poteri del governo, mentre il “conservatorismo” ne sarebbe il
nemico, al pari del “socialismo”. I “conservatori” sono coloro i quali
rispettano le tradizioni, le autorità costituite sociali e comunitarie.
Insomma, sulla frontiera indicata da Prospero gli elementi comunitari e
“populisti”, sarebbero del tutto diversi ed opposti al “liberismo” e al
“progressismo” insieme.
Del resto nella frase seguente, lo schema diventa
improvvisamente tripartito: “tra l’individualismo liberista demolito dalla
crisi sociale e i rifugi in comunità ingannevoli (prima gli italiani, il
rosario e la ruspa) esiste un vuoto, quello che nel Novecento ha occupato il
socialismo”. Compare proprio lo schema Hayekiano:
liberalismo/conservatorismo/socialismo. Ma
allora Prodi si deve trovare nello spazio del liberismo (insieme al progetto
europeo).
Tralasciando questa ritrosia a portare avanti la
critica, comprensibile, vero la fase ulivista della storia recente della
sinistra il vero scopo del pezzo di Prospero compare ora: sbarrare la strada ad
ogni ipotesi di produrre versioni non di destra della protezione offerta dalla
comunità nazionale. Ovvero qualsiasi ipotesi di proporre una critica del
liberalismo su questo piano.
Infatti:
Chi pensa che non ci siano alternative al populismo, e
che quindi anche la sinistra debba camuffarsi
con abiti adeguati allo spirito del tempo (ma il Renzi trafitto a
ripetizione non era proprio questo travestimento populistico?) lancia alternative illusorie. Per recuperare
gli elettori che hanno abbandonato la sinistra per approdare al M5S non occorre
scimmiottare la versione più originale e anche genuina della rivolta del
“basso”. Questo inseguimento della invenzione grillina sarebbe una operazione inutile e velleitaria (come è parsa la
disperata mossa di Letta e Renzi di riassorbire la protesta del M5S contro la
casta cancellando il finanziamento pubblico ai partiti).
Qui il discorso, però, sembra tornare politicista. È infatti
“illusorio” cercare abiti adeguati allo spirito del tempo, anche perché sarebbe
inautentico (un “camuffarsi”); se si vuole “recuperare gli elettori”, ovvero
contare nel gioco politico rappresentativo, non si può scimmiottare la rivolta
dal basso, anche se è “genuina”, perché sarebbe velleitario: non funzionerebbe.
In effetti se compiuta dal personale politico di LeU
la cosa potrebbe essere tale, o meglio essere la stessa cosa di quello tentato
da Letta e molto più sistematicamente da Renzi (il cosiddetto “populismo
dall’alto”, che gli elettori hanno subito letto come inautentico e finto).
Allora che può fare LeU? Per Prospero “serve un
progetto più complesso” che non sia “l’ossimoro del populismo rosso”.
Tra le due destre resta lo spazio del socialismo.
Il socialismo sarebbe, dunque, un terzo tra l’individualismo ed il comunitarismo per il quale
invita a costruire una “cultura politica nuova che tragga ispirazione da Marx e
che quindi politicizzi oggi la contraddizione tra il tempo che la tecnica
libera e le esclusioni che il capitale impone”. Mi sembra, però, che l’indicazione
muova in qualche modo nella direzione opposta
a quella tentata da Marx: mentre questi ha inteso politicizzare la
contraddizione tra il lavoro salariato, dunque tra il tempo di lavoro alienato,
e l’inclusione subalternizzante, e costituente al contempo, che imponeva il
capitale al suo tempo, Prospero sembra qui proporre di lavorare nello spazio
del “lavoro liberato”. Ovvero della crescente marginalità creata dalle
dinamiche tecniche dell’automazione (soprattutto nei servizi) insieme alla
esternalizzazione a catena lunga (la globalizzazione).
Bisogna capirsi: se Prospero, nel pezzo sul Manifesto, sta dicendo che una organizzazione
politica rappresentata in Parlamento, LeU, non ne deve inseguire un’altra, il
M5S, e non si deve alleare con essa, il discorso ha un senso. Se, invece,
seguendo la logica astratta delle premesse, sta in effetti dicendo che il
nucleo costituito da questa deve fare lavoro di costruzione della classe, senza
seguire la logica “del 99%” del populismo politico pone una questione diversa e
più seria e difficile.
Ma qui il ragionamento sembra un poco sfilacciarsi, se
ha ragione nel dire che nessuno può supplire alla necessità di farsi classe dei
subalterni (per farsi valere), la mossa di Marx poggiava sulle solide
fondamenta del modello taylorista di lavoro, che concentrava ed uniformava.
Invece lo spazio che invita ora a ripoliticizzare è costitutivamente individualista e disperso. Di qui l’essenza della
mossa populista, almeno nella versione ‘di sinistra’ di Laclau.
Il richiamo che segue ai delegati sindacali ed ai
lavoratori precari, a costruire una coalizione sociale ed una organizzazione
politica autonoma sembra peraltro ripetere, non ben collegandosi con l’invito a
guardare il ‘tempo liberato’ (che andrebbe più sui temi di un Gorz),
quasi identica, la mossa costitutiva del socialismo novecentesco.
Purtroppo credo anche io che possa essere illusorio
‘camuffarsi con abiti adeguati allo spirito del tempo’, ma rischia di esserlo
anche rimettere i vecchi.
Filippo Turati |
Per andare avanti io credo convenga guardare più
profondamente alla questione del populismo, al di là dei richiami strettamente
congiunturali di Prospero al M5S ed all’esperienza berlusconiana (ma anche
renziana) sui quali ha totalmente ragione nell’avere ampie riserve. Ma per
farlo non è conveniente cederlo completamente alla “destra” (anche perché ci
sono significativi esempi storici anche sull’altro versante). Nel libro di
Nicolao Merker “Filosofie
del populismo”, che Prospero conosce molto bene, nel paragrafo 4 del primo
capitolo, viene detto che sono esistiti ed esistono populismi “di sinistra, o
nella fattispecie populismi socialisti” (p.12). I populisti russi, gli
anarchici, gli schematismi della seconda e terza internazionale, con l’idea che
la creatività del popolo avrebbe reso inutile il governo, ma anche la Comune di
Parigi. Tutte forme di “ipostatizzazione” del “popolo” che sottende una istanza
morale di universalizzazione della giustizia. Insomma, Merker fa un lungo
elenco di “schematismi”, ne fanno parte: “trotskismo, operaismo, marxismi
terzomondisti, ‘libretto rosso’ di Mao, ecc…”, e chiaramente il “marxismo-leninismo”.
Non sarebbe populista invece Gramsci, Kautsky, Bernstein, l’austromarxismo di
Renner e Bauer.
Insomma, la traccia di Merker sarebbe che è
“populista” ciò che propone un soggetto, ovviamente immaginandolo e
costruendolo nella mossa di nominarlo, come centrale e tendenzialmente unico,
delegittimando radicalmente gli altri, mentre non lo è il riformismo, che
ammette l’esistenza di più soggetti legittimati.
In effetti questa è, in altre forme e linguaggi, un’opinione
largamente condivisa.
Di recente Nadia Urbinati, in “La sfida populista”,
ha scritto un articolo
nel quale richiama il rischio della demagogia e del maggioritarismo come limite
delle esperienze populiste. La sua tesi è stata avanzata anche in altre
occasioni: il populismo democratico è il limite estremo del campo, rischia
sempre di scivolare fuori, costituendosi come dittatura di nome o di fatto.
Della stessa opinione, ad esempio, Jan-Werner Muller in “Cos’è
il populismo”, per il quale questo è intrinsecamente maggioritario, ovvero
totalitario ed estraneo alla tradizione liberale.
Certo, Hayek vedeva, come altri,
in sostanza tutto il socialismo sulla stessa diversa sponda del liberalismo, lo
“Stato interventista” che esprime la volontà generale formata per via politica
sarebbe incompatibile con la libertà.
“Populismo”, come “comunitarismo”, sarebbero in
effetti opposti alla “democrazia liberale” fondata sul primato del diritto
formale e procedurale e quindi degli individui. E lo sarebbero in grande misura
alla versione europea, imperniata su un più modesto “Stato regolatore”
disciolto sulla verticale di istituzioni via via sovraordinate, che estremizza
la soluzione
madisoniana interpretando e tradendo ad un tempo (tutte le estremizzazioni
lo fanno) il principio lockiano su cui sono al fondo costruite le nostre
costituzioni scaturite dalle rivoluzioni “borghesi”: ogni autorità legittima
deriva dal consenso di coloro sui quali è esercitato, ovvero, “gli individui
sono tenuti solo a ciò a cui hanno acconsentito”.
Il populismo, che ha intrinseche dimensioni
antipluraliste, è però, come riconosce anche Muller, “una risposta democratica
illiberale al liberalismo antidemocratico”. Un liberalismo, che come si è
manifestato nel conflitto
del referendum, nel quale Prospero era fortemente schierato per il “no”
(come me) ha dimenticato il principio fondante della democrazia: la sovranità popolare.
Si sta in queste opposizioni come un uomo affamato in
un labirinto di specchi. Se la sovranità popolare è stata dissolta nel gioco
dei rimandi e delle procedure (nei vari “piloti
automatici”), ma ovviamente “il popolo” non esiste, in cosa si
sostanzierebbe il richiamo al “socialismo”? Peraltro anche alla democrazia?
Accolto il piano politicista, e se si cerca di essere
se stessi e non di imitare altri, cosa resta che si possa dire se non si vuole
cedere alle soluzioni madisoniane, sin dalla prima formulazione costruite (come
gli Stati
Uniti d’America) per controllare il temibile “popolo”?
È singolare che un filosofo come Laclau cerchi di
uscire da questo dilemma, lui che vede la faccia dell’egemone liberale dal lato
giusto, essendo argentino, recuperando in chiave costruttiva e debitrice delle
svolte linguistiche del novecento, il concetto di “egemonia” da Gramsci. Il
campo sociale si costruisce come effetto di forze
che sono aggregate da discorsi politici.
Ma non preesiste, potendo essere rilevato secondo qualche tecnica (ad esempio
il web), alle pratiche performative che sono il proprio del politico.
Scrive Carlo Galli in “La
sinistra e la speranza”, sul suo blog, che se la crisi della sinistra e
reale e lo stato di LeU e PaP “non giustifica alcuna speranza”, e che “essere anti-sistema è obbligatorio, siamo in
un’epoca di crisi che ce lo impone”.
Allora, magari, bisogna uscire dagli schemi troppo
vecchi e troppo ossificati: non tanto destra/sinistra, quanto comunità/libertà.
Forse la libertà passa per la comunità,
e non solo per l’individuo che sceglie nell’illusione di poterlo fare da solo.
Forse il proprio
del politico, se non ci si vuole arrendere alla dittatura dello “Stato
regolatore” (la cui maggiore espressione storica si dà negli stati federali e
nella strana copia estremizzata che è l’Unione Europea), può essere proprio nell’articolare faglie antagoniste
compiendo l’impossibile: costruire ciò
che non è, e non può essere, cioè la società.
Ciò per Laclau significa passare da una logica
liberale della differenza, della creazione e valorizzazione di individuali
differenze e quindi dello scontro di minoranze, alla logica dell’equivalenza.
Ovvero alla logica per la quale le differenze trovano e valorizzano nel
discorso egemonico imposto dal politico la linea
di faglia specifica rispetto alla quale sono reinterpretate e quindi create
come equivalenti; rispetto alla quale, cioè, tante soggettività diverse in
tutto si fanno finalmente “popolo” e rivendicano la propria “sovranità”.
Hic Rodhus his saltus, scrive Galli.
Bisogna dimenticare il governo per farsi popolo.
Per poterlo fare bisogna correre qualche rischio, e lavorare
anche sulla vaghezza e la retorica. Tenere in vista e insieme revocare in
dubbio il nostro razionalismo, la dipendenza profonda dal discorso della
modenizzazione, del progresso (che suonava ben diverso alla metà del secolo
XIX, quando i principi e le dinastie regnavano in Europa), e puntare alla
produzione di significanti che si possono riempire da parte di soggettività
disparate.
La domanda sarebbe quindi: quale è il significante, di per sé vuoto, che può costruire un popolo
in grado di rivendicare la propria sovranità?
Siamo, con questa domanda, molto oltre il quadro
dell’articolo di Prospero. In effetti più sul terreno di Galli, ma questo mi
pare più appropriato alla drammaticità del momento: non ha molta importanza se LeU resta, se si scioglie, se va con questo
o se va con quello. Ciò che conta è quale
formazione egemonica si ritiene più adatta alla fase, quale “popolo” si può
costruire in essa, quale, sapendo che non sono tutte uguali (che “l’onesto”, ad esempio, demarca un “popolo”
non significativo rispetto alle faglie più urgenti, che sono quelle dello schiacciamento
economico e sociale, o che “il nativo”
esprime una non necessaria violenza, o che la “casta” contiene una visione rozzamente piatta del funzionamento
sociale e liquida troppo rapidamente il fatto dell’autorità), e che la
vocazione della tribù della sinistra, che ha perso per via, è di leggere, certo
anche definendo, dei funzionamenti sociali, dei concatenamenti resistenti,
solidi, in qualche modo primari, difficilmente aggirabili, che determinano opposizioni
nelle cose, e non solo nelle
rappresentazioni.
Attraverso questi leggere le grandi questioni che dividono, e che
identificano quindi (per fare qualche esempio):
-
la sicurezza
-
la
protezione (anche internazionale),
-
l’incertezza
e la precarietà,
-
l’Europa,
Nominandole, esaminandole e sottoponendole alla più
feroce critica, si tratta di proporre una sottostante comprensione delle
meccaniche del dominio, dei fattori di divaricazione all’opera nel tessuto vivo
della società, di quelle deviazioni della rabbia verso falsi bersagli che creano
unità utili a cambiare tutto perché nulla
cambi.
Bisogna essere insomma se stessi, su questo ha ragione
pienamente Prospero, ma su questi temi bisogna costruire il popolo.
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